Libera ricerca del vero

Mese: Gennaio 2021

Franca Giansoldati, Francesco ai giornalisti

Il Mattino

Città del Vaticano – Papa Francesco bloccato da una dolorosa sciatalgia a Santa Marta, ieri ha inviato ai giornalisti un messaggio per la festa liturgica di San Francesco di Sales. In pratica ha chiesto loro di non fermarsi alla informazione precotta, alla informazione fotocopia ma di tornare a fare inchieste, di andare a sentire di persona i testimoni, raccogliere confidenze, provarle, scavare nei misteri. «Consumare le suole delle scarpe». Una specie di paternale positiva per una riflessione corale.

Utile persino all’interno del Vaticano dove i giornalisti accreditati troppo spesso sono costretti ad aspettare giorni e giorni prima di avere una conferma (se arriva) ad una notizia o a una inchiesta, interpellando come è prassi anche le fonti ufficiali che è notorio non amano tanto la stampa che va a fare le pulci in tanti settori, controllando che vi sia coerenza tra parole e fatti o cercando riscontri a tante vicende legate alle inchieste sulla pedofilia, all’andamento dei processi in corso alla Congregazione per la dottrina della Fede, o a questioni legate alle finanze vaticane, alle riforme in corso o ad altre iniziative diplomatiche. L’elenco è lungo.

Spesso i giornalisti (che si consumano le suole delle scarpe) girano a vuoto, rimbalzando da una parte all’altra ma spesso senza la possibilità di andare di persona e vedere, toccare, raccontare. L’informazione delle istituzioni del Vaticano (non solo oggi si intende) si caratterizza per una evidente riluttanza, un manifesto timore ad avere un rapporto trasparente con i mass media preferendo molto di più – ahimè – la rassicurante informazione fotocopia, evitando che vi siano ficcanaso un po’ troppo curiosi.

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Babbel

Il bellissimo messaggio di Francesco è molto coraggioso e descrive effettivamente quello che sta accadendo, non solo in Vaticano ma generalmente nel mondo: «il genere dell’inchiesta e del reportage – scrive – perdono spazio e qualità a vantaggio di una informazione preconfezionata, “di palazzo”, autoreferenziale, che sempre meno riesce a intercettare la verità delle cose e la vita concreta delle persone, e non sa più cogliere né i fenomeni sociali più gravi né le energie positive che si sprigionano dalla base della società».

Papa Francesco individua anche in questo deficit «la crisi dell’editoria che rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più “consumare le suole delle scarpe”, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni». Un pò come il cane che si morde la coda.

L’incoraggiamento del Papa alla categoria dei giornalisti è diretto: «Se non ci apriamo all’incontro, rimaniamo spettatori esterni, nonostante le innovazioni tecnologiche che hanno la capacità di metterci davanti a una realtà aumentata nella quale ci sembra di essere immersi. Ogni strumento è utile e prezioso solo se ci spinge ad andare e vedere cose che altrimenti non sapremmo, se mette in rete conoscenze che altrimenti non circolerebbero, se permette incontri che altrimenti non avverrebbero».

Ha anche citato il Vangelo: «Ai primi discepoli che vogliono conoscerlo, dopo il battesimo nel fiume Giordano, Gesù risponde: «Venite e vedrete» (Gv 1,39), invitandoli ad abitare la relazione con Lui».

Francesco ringrazia poi il coraggio e l’impegno di tanti professionisti giornalisti, cineoperatori, montatori, registi che spesso lavorano correndo grandi rischi. E aggiunge:  «se oggi conosciamo, ad esempio, la condizione difficile delle minoranze perseguitate in varie parti del mondo; se molti soprusi e ingiustizie contro i poveri e contro il creato sono stati denunciati; se tante guerre dimenticate sono state raccontate. Sarebbe una perdita non solo per l’informazione, ma per tutta la società e per la democrazia se queste voci venissero meno: un impoverimento per la nostra umanità».

Infine il grande, grandissimo nodo della fake news: «Tutti siamo responsabili della comunicazione che facciamo, delle informazioni che diamo, del controllo che insieme possiamo esercitare sulle notizie false, smascherandole. Tutti siamo chiamati a essere testimoni della verità: ad andare, vedere e condividere».

Raffaele Iavazzo (psichiatra): La situazione attuale dei preti

https://gpcentofanti.altervista.org/i-preti-e-la-psicologia/

Card. Enrico Feroci

https://youtu.be/H2uQ6ZTqAVk 

Guido Oldani, Il bucato (IV domenica del Tempo ordinario, anno b)

Mc 1, 21-28

In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnaménto nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

IL BUCATO

a quanti sta insegnando, fra di loro

c’è una matrioska, dentro chi la guasta

che grida “sei venuto a rovinarci?”.

lui spreme allora il tale, che è abitato

come un tubetto per il dentifricio,

che si libera ma ne è straziato

domandano “chi mai sarà costui

che scaccia il male come vuole lui?”.

Riflessioni pastorali

Maria stella del mattino, porta del cielo, salute degli infermi, rifugio dei peccatori. Il Magnificat. Le nozze di Cana.

Viviamo un tempo di grandi sofferenze di molti. Un pastore come può vivere il suo cammino? Cristo dalla croce ci ha dato Maria per mamma. Ci ha detto Gesù di rivolgerci a lei così come Maria ha incoraggiato i servi alle nozze di Cana a fidarsi di ciò che Gesù avrebbe loro detto. Ed è stata una grazia questo suggerimento perché Cristo ha chiesto ai discepoli un atto di fede non facile, come quello di portare l’acqua delle giare da essi riempite al maestro di tavola, come fosse vino. In una festa di nozze.

Maria è stata la prima ad accorgersi dei bisogni di quelle persone. Molti non hanno nemmeno mai saputo dei problemi che stavano emergendo. Dunque chiedere aiuto a Maria, con fiducia. Ave Maria. Con tale fiducia ascoltare quello che ci può dire Cristo, senza fermarci in logiche esclusivamente terrene.

Dunque un aiuto ad uscire da calcoli, prudenze, uscire dal sapere tutto io. Uscire dai pur talora inizialmente utili corsi di fede ed entrare a tempo debito in cammino, personale e comunitario, di fede. “Il Signore disse ad Abram:

“Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria

e dalla casa di tuo padre,

verso il paese che io ti indicherò.

Farò di te un grande popolo

e ti benedirò,

renderò grande il tuo nome

e diventerai una benedizione.

Benedirò coloro che ti benediranno

e coloro che ti malediranno maledirò

e in te si diranno benedette

tutte le famiglie della terra”

Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. Abram dunque prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Canaan”  (Gn 12, 1-5).

Lasciarsi portare nella fede che è Dio che dà vita sempre nuova, spirituale e umana, attento a tutta la persona, ai suoi bisogni. Cosa hai davvero da dirmi Gesù? Aprimi il cuore, le orecchie. Tu puoi manifestarmi cose che non mi aspetto, liberarmi dai paletti, anche culturali, che riducono preventivamente il mio ascolto. “Mετανοειτε”, agli esordi della predicazione di Gesù, veniva non di rado tradotto con “pentitevi”, poi con “convertitevi” ma egli propone subito l’uscita dal moralismo del salvarsi da soli verso la grazia che viene con delicatezza e gradualità ad aprire il cuore: “percepite oltre”, il regno dei cieli è vicino. E si tratta dunque di una vita che si può diffondere tra le persone.

Chiedere intensamente a Dio di aiutarci. Tendere, nei modi e nei tempi adeguati, a lasciare che Dio ovunque, anche nella scuola, faccia crescere ognuno sulla propria personalissima via, alla luce della identità liberamente cercata e nel solo allora autentico scambio con le altre. Da qui si può stimolare una viva partecipazione. Uscendo dagli spegnimenti, dalle omologazioni. Identità senza scambio e scambio senza identità si contrastano e si spalleggiano nello svuotare, manipolare, le persone.

Nessuno può sapere cosa ha da dire Dio ad un altro. Un padre spirituale può accompagnare la crescita di qualcuno, cercare insieme ma alla fine è la persona che opera nella luce il proprio discernimento, non un altro al posto suo.

Le vie di Dio non sono le nostre vie.

Io accenno ad alcune possibili piste. Gli ultimi tre papi hanno proposto strade variamente diverse, ognuna con le sue ricchezze. Forse la storia stessa ci stimola ad imparare gli uni dagli altri, a sviluppare la sinodalità. Proprio superando calcoli, paure, difese. Cosa possiamo fare, nei tempi e nei modi adeguati, perché nella Chiesa ci si apra ad una ricerca non formalistica, per mere competenze, del vero? Immaginiamo un profeta in antropologia teologica? Dove ci chiudiamo in calcoli, prudenze, di corto respiro? Cerchiamo di permettere ad ognuno di intervenire anche nel vario dialogo pubblico? Fino a che punto è possibile?

Sta maturando più diffusamente una spiritualità capace di aiutare ciascuno a crescere in un cammino personalissimo, ben al di là degli schemi, grazie e verso i riferimenti della fede. Attenti a tutta la sua vita, ai suoi bisogni. Stiamo uscendo dal moralismo del mero fare, funzionare, spirituale, psicologico, per entrare nella fiducia nella grazia che, cercando di accoglierla, viene gradualmente sempre più in noi. Ci aiuta ad aprire autenticamente il cuore integrale, la coscienza spirituale e psicofisica. Non dobbiamo “fare i bravi” ma tutta la nostra umanità è condotta con delicatezza, a misura, nel mistero. E dunque vede ogni cosa in modo sempre nuovo. In modo nuovo e più pieno un piccolo può rinnovare tutta la cultura.

Imparare da ciascuno, dalle esperienze, dalle stesse difficoltà, perplessità, delle persone. Imparare a non dare nulla per scontato. 

Non si può sapere ciò che Dio propone in questo momento ad una persona, ad un pastore. Però Gesù stesso ha insegnato: Vi diranno eccolo qua, eccolo là, non andateci, perché il regno di Dio è in mezzo a voi. Egli ha qualcosa da donarci, da dirci, in ogni persona. Ecco, ascoltare Dio e gli uomini con vissuta attenzione, senza banalizzare, senza circoscrivere nei nostri schemi.

Nel vangelo vi sono mille cose da scoprire. Per esempio si riflette su quando dare o meno la comunione ma non ci si chiede se e come Gesù stesso nei vangeli ha dato l’eucaristia. Si crede in Cristo ma non si torna sempre nuovamente a lui, Dio e uomo, in ogni cosa, senza pensare di sapere già. Essere aperti alla grazia sempre nuova della Parola.

Ascoltare, non banalizzare, essere disposti a mettere in discussione le nostre più profonde impostazioni culturali, il nostro Gesù, nel Gesù vero, anche, nei tratti essenziali, quello dei vangeli, e, nei modi adeguati, anche nel Gesù, nella vita, degli altri. Magari poi si accendesse una profonda sete di Luce sempre nuova, non vista riduttivamente ma invece integrale, spirituale e umana.

Come si vede ho fatto riferimento alla vita, alla storia. Le distorsioni di vario tipo hanno questo in comune, eliminano la storia. La prima lettera di Giovanni fornisce criteri decisivi sul discernimento. Ogni spirito che riconosce Gesù venuto nella carne è da Dio. Vi sono astrazioni che non tengono conto dei cammini specifici, delle situazioni concrete. Vi sono astrazioni alla rovescia, che si schiacciano sul possibile nel presente senza aprire, nei tempi e nei modi adeguati, a prospettive nuove. Talora, magari spesso, è importante anche solo cominciare a parlare dei vari spunti qui citati. Le parole vere non sono concetti da comprendere col cervello e mettere in pratica con la volontà, ma semi di grazia che matureranno a suo tempo. Ecco un’altro insegnamento rivoluzionario di Gesù. Tutta la storia della cultura oscilla tra la teoria e la pratica senza trovare un incontro che nel profondo può essere solo un dono di Gesù, Dio e uomo. Lo Spirito vi condurrà alla verità tutta intera, che non è una dottrina astratta, né un mero fare, ma l’amore meraviglioso di Cristo.

Guido Oldani, Le fedi

Le fedi

era il papà d’una mia cara amica

dentro nel campo di concentramento,

lui ateo giovanotto comunista.

e magro come il filo di corrente

sotto il quale strisciava nella notte,

lasciava gli altri in modo di più fedi,

portando una bestiola colta al laccio

che cacciavano viva sotto i denti,

non volle mai per sé risarcimenti.

Tratto da: La guancia sull’asfalto. Ed Mursia, 2018

Rinnovamento nello Spirito Santo

http://www.rns-italia.it/NuovoSito/page/standard/site.php

Giovanni Paolo II e il futuro

ACI Stampa VARSAVIA , gennaio, 2021

La vita, il pensiero, l’eredità e le gesta di Giovanni Paolo II è un bene al presente e può essere una luce anche per le generazioni future. Prende l’avvio oggi una Conferenza Internazionale online di 3 giorni in occasione dei 100 anni della nascita di Giovanni Paolo II.

Da oggi 15 gennaio a domenica 17 gennaio, dalle ore 16 alle ore 19 si svolge la Conferenza Internazionale dal titolo “Verso il futuro con Giovanni Paolo II” con un programma molto denso e con la partecipazione di personalità di spicco ecclesiastiche e laiche ma è rivolto a tutti, agli accademici ed esperti, a coloro che desiderano conoscerlo meglio o a chi ancora non lo conosce.

L’idea è nata da un gruppo di persone provenienti da Washington, Lisbona, Roma, Madrid, Cracovia, Varsavia e San Gallo convinte che la vita, il pensiero, l’eredità e le gesta di Giovanni Paolo II sia un bene al presente e può essere una luce anche per le generazioni future.

Lo scopo principale è condividere la loro esperienza nella scoperta dei tesori del santo Papa Polacco ed offrire ad altri la possibilità di conoscerlo. Per questo motivo in ogni sessione, oltre agli esperti, viene data la parola ad un testimone che ha condiviso parte della sua vita con San Giovanni Paolo II.

L’edizione online, inevitabile in tempo di pandemia, in realtà si è dimostrata una ricchezza che ha offerto ai partecipanti da tutto il mondo l’opportunità di incontrare i più grandi esperti mondiali nel campo della filosofia e della teologia, che hanno studiato la persona e il pensiero di Karol Wojtyła – Giovanni Paolo II.

Ogni sessione giornaliera prevede quattro interventi (introduzione, due presentazioni e una testimonianza) sulle tematiche previste per ogni giornata: antropologia (15/1), famiglia e società (16/1), vita della Chiesa e della fede (17/1). Al termine di ogni sessione è previsto uno spazio per il dibattito e le domande da parte dei partecipanti collegati da tutto il mondo.

L’accesso è gratuito sui canali You Tube dedicati in polacco, inglese, italiano dove la traduzione sarà in simultanea. Per ulteriori informazioni consultare il sito della Conferenza Episcopale polacca 

Il Comitato Organizzativo è composto, tra gli altri, da: Mons. Marek Jędraszewski, Arcivescovo Metropolita di Cracovia, il Prof. Michał Drożdż, docente della Facoltà di scienze sociali, dell’Università San Giovanni Paolo II di Cracovia, il Prof. Michał Gierycz, decente della la Facoltà di Scienze Economiche dell’Università Card. Wyszynski di Varsavia, il Rev. Livio Melina del Progetto Fondazione Veritas Amoris e l’Ufficio di Pastorale Familiare del Patriarcato di Lisbona

Enrico Dal Covolo, La teologia: una sfida per le altre scienze nell’Europa secolarizzata

La teologia:

una sfida per le altre scienze

nell’Europa secolarizzata

+ Enrico dal Covolo *

Entriamo nel discorso ponendoci una domanda generica, quasi ingenua: «Che cos’è la teologia (cristiana)?». Per rispondere a questa domanda è indispensabile una precisazione sulla teologia stessa come scienza e sul suo metodo proprio.

1. La teologia (cattolica): questioni essenziali di scienza e di metodo

Il dibattito sul tema e la relativa bibliografia sono pressoché sconfinati. Da parte mia, sarebbe presuntuoso il tentativo di liquidare la questione in poche battute. Di solito, con gli studenti mi limito a evocare l’immagine del “treppiede”. La sacra doctrina – dico a loro – è come un tavolino, che per stare in piedi ha bisogno almeno di tre gambe (che poi possono diventare quattro, a seconda di come si vedono le cose): il primo piede è la rivelazione biblica, il secondo è la tradizione, il terzo è il magistero della Chiesa, al quale rimane intimamente connesso l’eventuale quarto piede, cioè le sollecitazioni di ogni genere (culturali, filosofiche, sociali, morali…), che vengono dal momento presente.

Quando uno solo di questi elementi costitutivi fosse trascurato, allora non si dovrebbe più parlare di teologia cristiana autentica. «Sarà un’altra cosa, magari anche validissima», mi affretto subito ad aggiungere, «ma non si tratta certo di teologia della Chiesa». Tuttavia, nel contesto di questo contributo scientifico, mi pare opportuno aggiungere qualche cosa di più.

Gli studi recenti – diciamo da cinquant’anni a questa parte – che si occupano dello statuto della teologia, fanno riferimento più o meno esplicito al n. 16 del Decreto Optatam Totius del Concilio Vaticano II, là dove i Padri conciliari auspicavano che le discipline teologiche fossero «rinnovate per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza». Proprio da qui, da Optatam totius, n. 16, ho ricavato l’immagine del “treppiede”. Di fatto, in questo denso paragrafo è delineato un approccio scientifico al dato di fede articolato in tre momenti fra loro distinti, ma ermeneuticamente complementari. Possiamo riepilogarli così, in maniera estremamente sintetica, rielaborando appena un poco l’immagine del “treppiede”.  

C’è anzitutto il momento fondante della Scrittura, «universae theologiae veluti anima».

C’è poi il momento normante della tradizione ecclesiale, che comprende sia il contributo privilegiato della patristica orientale e occidentale – per cui spesso questo passaggio viene riduttivamente denominato “momento patristico” –, sia i pronunciamenti conciliari e magisteriali, nonché le elaborazioni teologiche particolarmente esemplari. 

C’è, infine, il momento sistematico dell’organizzazione e della sistemazione del dato di fede, da comunicare in modo sempre più appropriato nel momento presente. 

I primi due momenti rappresentano l’auditus fidei, che include così il vaglio del dato biblico e quello della tradizione ecclesiale. Il terzo momento rappresenta invece l’intellectus fidei, cioè la riflessione sapienziale e l’organizzazione sistematica degli elementi essenziali del dato rivelato, come annuncio sempre attualizzato della fede. 

Stando così le cose, è evidente che la teologia è scienza solo ad alcune condizioni. Se la scienza è uno scire iuxta principia propria (conoscere secondo i propri principi), ebbene: la teologia non è affatto scienza in questo senso, poiché i principi, da cui essa procede, appartengono all’auditus fidei. Sono principi rivelati, che – in ultima analisi – provengono da Dio stesso. «La ricerca teologica», recita in modo perentorio la Costituzione conciliare Gaudium et Spes, «prosegue nella conoscenza profonda della verità rivelata».

Se invece si considera l’intellectus fidei, allora si può dire che la teologia, fornita di contenuti e di metodo peculiari, è scienza a pieno diritto, e sempre di più si è costituita e affermata come tale, lungo i secoli della sua storia.

Ho riletto l’edizione ampliata delle Memorie e digressioni di Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, ormai scomparso. Il cardinale – un ottimo teologo – si poneva questa stessa domanda: «Che cos’è la teologia?». E subito rispondeva:

«È, come dice il nome, scientia Dei, nel senso che il suo oggetto proprio è Dio in quanto si è rivelato ed è principio e fine della comunicazione della sua vita; e nel senso che essa è una certa partecipazione al conoscere divino: quaedam impressio divinae scientiae (Summa Theologiae I, q.1, a.3, ad 2um). Poi è scientia Christi, dal momento che ogni effusione ad extra della vita trinitaria e ogni rivelazione avviene per mezzo di Cristo, dal momento che “piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza” (Col 1,19). Anzi, la comprensione che Gesù ha del disegno salvifico e della realtà intera (da noi partecipata nell’atto di fede) è il principio soggettivo del teologare: egli è il primo, il massimo e l’unico vero ed esauriente “teologo”, al quale il cultore della sacra doctrina cerca di assimilarsi (per quel che gli riesce). Infine è scientia Ecclesiae».

In definitiva, «la teologia è autocoscienza del Christus totus, che va crescendo sotto l’influsso dello Spirito Santo e mediante il lavoro di indagine, di penetrazione, di contemplazione ammirata da parte dei credenti che pensano».

Qualche anno fa – durante la consegna dei riconoscimenti ai tre vincitori della prima edizione del Premio Ratzinger – Benedetto XVI ha ripreso in maniera essenziale i termini della questione. Il Papa emerito si chiedeva che cosa fosse veramente la teologia, poiché, «se la teologia è scienza della fede […], sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza, quando è ordinata o subordinata alla fede?».

Come si vede, la domanda sulla teologia come scienza rimane sempre attuale: «Tali questioni», riconosceva infatti Benedetto, «che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione». 

Al di là delle argomentazioni successive – che il Papa emerito sviluppava da pari suo –, a noi qui interessa soprattutto la conclusione del discorso, là dove si legge:

«Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta alla questione circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia. Tuttavia è proprio di questa sfida che l’uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio».

2. La sfida della teologia in un’Europa secolarizzata,

che rischia di smarrire l’idea autentica di universitas studiorum

In effetti, dalle sue peculiari (e per certi aspetti paradossali) caratteristiche epistemologiche la teologia ricava la propria forza di provocazione e di sfida nei confronti delle altre scienze, che appaiono oggi sempre più specializzate nel metodo e nei contenuti, quanto più frammentate nell’universo del sapere. Il fatto che la teologia non proceda iuxta principia propria, ma dalla Parola rivelata, la spinge – con motivazioni e risorse che non appartengono alle altre scienze dell’universitas studiorum – verso quella mèta ultima e complessiva di verità, a cui essa anela. Certo, a questa stessa mèta concorrono in vario modo tutte le scienze, nella misura in cui esse sono – come dovrebbero essere – ministrae veritatis. Ma la teologia – se è vera teologia, cioè fedele alla sua epistemologia autentica – possiede un’istanza veritativa ulteriore, trasversale alle altre scienze, e ultimativa nel suo traguardo proprio. 

Questo appare evidente, quando si considera che l’oggetto primario e onnicomprensivo della teologia non è una serie di enunciati o di “noumeni” astratti, bensì la Res, alla quale essa punta, cioè Dio. «L’atto di fede», scriveva già san Tommaso, «non ha come punto di riferimento ciò che può essere enunciato, ma la Res», la Cosa in se stessa. Proprio questo realismo della fede guida la ricerca teologica verso la Verità tutta intera.

La teologia, infatti, è ben consapevole che la Cosa a cui puntare è in definitiva la partecipazione per grazia alla conoscenza che il Figlio incarnato, crocifisso e risorto, ha del Padre suo, nella comunione dello Spirito Santo. «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra», prorompe Gesù Cristo stesso nel suo Magnificat, «perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,25-27). 

Nella tradizione della Chiesa, la teologia, quale fede in cerca di comprendersi (fides quaerens intellectum), pur nella pluralità delle sue espressioni storiche, si configura come quell’esercizio dell’intelligenza che nasce dall’esperienza della fede, di essa si nutre e all’accrescimento di essa è destinato. «Ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto per fede», afferma sant’Agostino a proposito del mistero centrale della Rivelazione, la santissima Trinità. 

La visione, a cui anela il desiderio che mette in moto l’intelligenza del mistero rivelato, è una penetrazione sempre più piena e una partecipazione sempre più viva a quella Verità, che è Cristo stesso (cf. Gv 14,6). La fede vi aderisce intimamente, nella certa speranza del suo compimento eccedente e inesauribile nel Regno dei cieli: «Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Cor 13,12). Da questa intima natura della teologia deriva la forma peculiare della sua scientificità. La teologia, infatti, è scientia precisamente nel senso che è misurata rigorosamente, nella sua intenzionalità e nel suo esercizio, dall’Oggetto che le è offerto dalla Rivelazione: Dio in Cristo.

In quell’“aureo libretto”, che è stato tradotto dal tedesco con il titolo di Piccola guida per i cristiani, Hans Urs von Balthasar scriveva:

«Non c’è scienza che possa dirsi libera nei confronti del proprio oggetto; solo grazie all’oggetto essa è una disciplina ben determinata, che si affianca a pieno diritto alle altre. Una disciplina è anzi scientifica solo se il suo metodo d’indagine corrisponde alla particolare natura dell’oggetto. Oggetto della teologia in quanto scienza è la fede cristiana, con tutte le particolarità che ineriscono alla sua natura. La fede ha la sua origine nella storia, ma nel medesimo tempo essa avanza “la pretesa” di svelare il senso onnicomprensivo della storia, dal suo inizio alla sua fine: l’Agnello dell’Apocalisse spezza i sette sigilli della storia universale».

Conviene riprendere a questo punto la celebre massima di san Tommaso: la teologia è scientia «in quanto procede da principi noti con il lume di una scienza superiore, che è la scienza di Dio e dei beati». In tal modo, l’Aquinate collega organicamente il procedimento argomentativo della teologia scolastica, in quanto scientia, con la prospettiva neotestamentaria e patristica che vede nella fede e nella conoscenza, che da essa procede, la partecipazione di grazia alla conoscenza del Padre: ne gode anzitutto, per natura, il Verbo incarnato, ed essa si compie per gli uomini nella visio beatifica dei santi. In definitiva, la teologia è scientia solo in quanto sviluppo della scientia Dei, cioè della conoscenza (non si dimentichi il senso biblico, e in definitiva mistico del verbo conoscere) che Dio ha di sé, e che egli stesso ha ritenuto partecipare (rivelare) a noi.

Scriveva nel 1988 il cardinale Joseph Ratzinger, parafrasando S. Tommaso:

«La teologia non vede né prova le sue ragioni ultime. È come sospesa alla “scienza dei santi”, alla loro visione, che è il punto di riferimento del pensiero teologico e ne garantisce la legittimità […]. Senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà in questione, la teologia diventa un gioco intellettuale vuoto e perde pure il suo carattere scientifico».

3. Conclusione

Dentro a queste prospettive epistemologiche (e solo quando esse sono realmente salvate) la teologia conserva il suo valore di sfida di fronte alle altre scienze dell’universitas studiorum, non soltanto per il credente, ma anche per il non credente.

È illuminante, a questo riguardo, un’altra riflessione di Joseph Ratzinger, all’epoca professore di Teologia dogmatica nell’Università di Tubinga, quando – all’indomani del Concilio Vaticano II – l’Europa era percorsa dai venti scomposti della contestazione, che sembravano scuotere le fondamenta stesse della verità.

«La forma in cui l’uomo è tenuto ad affrontare la verità dell’essere», scriveva nel 1968 il futuro Pontefice in Introduzione al cristianesimo, un libro oggi più che mai attuale; la forma, dunque, «non è la scienza, bensì la comprensione, il comprendere il senso della realtà […]. Penso sia precisamente questo l’esatto significato dell’idea che ci facciamo del comprendere: che noi impariamo ad afferrare il terreno su cui ci siamo posti, intendendolo come senso della realtà e della verità».

Ebbene,

«la scienza che si propone di rendere funzionale il mondo», concludeva Ratzinger, «come ci viene oggi pomposamente comunicata dal pensiero tecnico-scientifico, non accorda ancora alcuna vera comprensione del mondo e dell’essere. La teologia, pertanto, intesa come discorso comprensivo, logico (=rationalis, intellettivo-razionale) vertente su Dio, sarà sempre un compito originario e precipuo della fede cristiana. Sì, perché il comprendere scaturisce solo dalla fede».

In maniera coerente, la teologia – precisamente in quanto fides quaerens intellectum – si propone come “il luogo” della sintesi veritativa tra le scienze umane e la “scienza di Dio”, a fronte della frammentarietà dei saperi. Ed ecco – in ultima analisi – la grande sfida della teologia nei confronti delle Università, dinanzi alla dittatura del “pensiero unico” e del tecnologismo economico e informatico: la sfida consiste nel coordinare, in maniera plausibile, la ragione e l’apertura al trascendente.

In varie occasioni ho avuto modo di illustrare alcuni capitoli fondamentali di questo urgente “rinnovamento teologico” proposto da papa Benedetto, e coerentemente proseguito dal magistero di Papa Francesco, da Lumen fidei fino al Discorso Alla Comunità dell’Università Cattolica Portoghese del 26 ottobre 2017. Di quest’ultimo Discorso di Papa Francesco cito un passaggio illuminante: «Si potrebbe obiettare», ha detto il Papa, «che una docenza universitaria di questo tipo trae le sue conclusioni dalla fede, e non può pertanto pretendere che quanti non condividono tale fede accettino la validità delle stesse. Ma, anche se è certo che non condividono la fede, possono sì riconoscere la ragione etica che viene loro proposta […], un tesoro di conoscenza e di esperienza etica, che si rivela importante per tutta l’umanità».

In definitiva, il “rinnovamento teologico” che ci interpella, in vista di un dialogo aperto e fecondo con l’universitas studiorum, riguarda anzitutto i seguenti capitoli: l’allargamento della ragione alle dimensioni della fede e dell’amore; il realismo della fede e la testimonianza della vita; più in generale – appunto – l’urgenza di una nuova sintesi di pensiero, di fronte alle divaricazioni secolarizzanti tra religione e ragione; tra teologia, filosofia e altri saperi; tra teologia razionale e dimensione contemplativa; tra esegesi cosiddetta accademica e lectio divina; tra ortodossia e ortoprassi.

Un simile “rinnovamento” – ne sono certo – renderà sempre più propositiva e feconda la sfida della teologia nei confronti delle Università, dinanzi al fenomeno pressoché globalizzato della secolarizzazione, nell’Europa e nel mondo.

Guido Oldani, L’altro Paolo

L’ALTRO PAOLO

paolo sceglie per sua locomotiva

quel che prima fu l’ultimo vagone

rovesciando così la direzione.

sono fratelli quelli che ammazzava

ma della squadra che lo sosteneva

lui non ne fa di certo suo bersaglio

e pare che nessuno questo noti,

loro restando dentro ai vecchi giochi.

Francesco intervistato da canale 5

Franca Giansoldati, Il Messaggero

Città del Vaticano – Papa Francesco vive in lockdown, chiuso a Santa Marta, impossibilitato a fare viaggi e vedere folle, e in questa condizione si «sente in gabbia». Dice proprio così e si descrive con spontaneità nella intervista rilasciata al Tg5, a Fabio Marchese Ragona. «Sono ingabbiato, come quando uno è nella gabbia. Ma poi mi sono calmato, ho preso la vita come viene. Si prega di più, si parla di più, si usa di più il telefono, si alcune riunioni per risolvere i problemi. La pandemia ha colorato pure la vita del Papa e io sono contento» afferma ripercorrendo questo anno doloroso ed eccezionale anche per la Chiesa. «Ho dovuto cancellare viaggi, a Papua Nuova Guinea e Indonesia, cancellati totalmente» afferma, spiegando che per responsabilità evita di provocare assembramenti. Per questo non sa nemmeno se riuscirà a portare avanti il progetto del viaggio in Iraq a marzo, come aveva annunciato. «E’ cambiata la vita. Sì, è cambiata la vita. Chiusa. Ma il Signore ci aiuta sempre a tutti».
Papa Francesco nel lungo colloquio affronta diversi temi. Il bisogno della politica di dare il meglio ed essere unita per il bene comune, il vaccino che è necessario farlo, l’aborto che resta un male assoluto e i disordini che hanno sconvolto l’America.
Dalla pandemia è convinto che la gente possa uscire migliore. Papa Francesco è ottimista. «Se vogliamo uscirne migliori dovremo prendere una strada, se vogliamo riprendere le stesse cose di prima la strada sarà un’altra strada, e sarà negativa. E oltre alla pandemia ci sarà una sconfitta in più: quella di non esserne usciti migliori. E come si diventa migliori? Bisogna fare una revisione di tutto. I grandi valori ci sono sempre nella vita ma i grandi valori vanno tradotti nei momenti perché i momenti storici non sono gli stessi. I valori non cambiano nella storia ma l’espressione del valore dipende sempre dalla cultura del tempo».
Sui vaccini: «Credo che, eticamente, tutti devono prendere il vaccino. È un’opzione etica perché riguarda la tua vita ma anche quella degli altri. La prossima settimana lo faremo qui al Vaticano e io mi sono prenotato per farlo (…) C’è un negazionismo suicida che non saprei spiegare ma oggi si deve prendere il vaccino».
Sulla politica e le spaccature tra i partiti. «La classe dirigenziale ha il diritto di avere punti di vista diversi e anche di avere la lotta politica. È un diritto: il diritto di imporre la propria politica. Ma in questo tempo si deve giocare per l’unità, sempre. In questo tempo non c’è il diritto di allontanarsi dall’ unità. Per esempio, la lotta politica è una cosa nobile, i partiti sono gli strumenti. Quello che vale è l’intenzione di fare crescere il Paese. Ma se i politici sottolineano più l’interesse personale all’interesse comune, rovinano le cose. In questo momento la classe dirigenziale tutta non ha il diritto dire “Io”. Si deve dire “Noi” e cercare un’unita davanti alla crisi (…) I conflitti sono necessari, ma in questo momento devono fare vacanze. Bisogna sottolineare l’unità, del paese, della chiesa e della società. Chi dice che “in questo modo si possano perdere le elezioni” dico che non è il momento, questo è il momento della raccolta. «L’uva si raccoglie in autunno», questo è il momento di pace e non crisi, bisogna seminare il bene comune».
Il tema dell’aborto è stato un altro tema dell’intervista, anche perchè in Argentina è stata approvata dal Parlamento una legge a favore. «Le persone che non sono utili si scartano. Si scartano i bambini, non volendoli, o mandandoli al mittente quando si vede che hanno qualche malattia, o quando semplicemente non sono voluti: prima della nascita si cancellano dalla vita. Io ho il diritto di fare questo? La risposta scientifica: la terza settimana, quasi la quarta, ci sono tutti gli organi del nuovo essere umano nel grembo della mamma, è una vita umana. Io faccio questa domanda: è giusto cancellare una vita umana per risolvere un problema, qualsiasi problema? No, non è giusto. È giusto affittare un sicario per risolvere un problema? Uno che uccida la vita umana? Questo è il problema dell’aborto. Scientificamente e umanamente».
Sui disordini americani Papa Francesco afferma di essere rimasto molto stupito: «Io ringrazio Dio che questo sia scoppiato e si è potuto vedere bene perché così si può porre rimedio, no? Sì, questo va condannato, questo movimento così, prescindendo dalle persone».
Infine dal Papa è arrivata la condanna a coloro che, per evitare il lockdown, hanno preso aerei per trascorrere le vacanze di Natale nei paradisi estivi. «Questo è un altro problema grave. In un paese in cui il governo dice che dal giorno dopo ci sarà il lockdown ecco che quel giorno sono partiti più di 40 aerei civili e privati per andare a fare le vacanze nei luoghi di mare e in altri paesi. Questo è uno scandalo perché non si pensa più agli altri e alla comunità. In più è stata anche una mossa suicida. Con le spiagge piene, il contagio lì è stato terribile. È successo anche da noi, mi ricordo quest’estate che la gente non se n’è curata molto. Ma dall’altra parte io capisco le persone. Pensiamo a una famiglia con due figli che vive in un appartamento, non è una situazione facile con il lockdown».

Card. Scola, Don Ricci

Francesco: troppo uniformismo nei media, le voci originali ai margini

http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/papa-francesco_20210123_messaggio-comunicazioni-sociali.html

Ildebrando Scicolone, Sacramento

CHE SIGNIFICA  “SACRAMENTO”?

    Ci domandiamo: “Come è possibile che un evento storico, come la morte e la resurrezione di Gesù, avvenuta circa 2000 anni fa, possa essere resa presente. Secondo la concezione semitica, il memoriale (in ebraico zikkaròn, tradotto in greco con anàmnesis) rende presente l’evento non nella sua storicità ma nella sua valenza, cioè per quello che realizza per tutte le generazioni. Ma come facciamo noi, che non siamo semiti, discendenti della cultura greco-romana, a comprendere questo?

    Io porto un esempio molto semplice: la luce viaggia alla velocità di 300.000 Km al secondo, e la luce del sole per arrivare  alla terra impiega 8 minuti. Ma ci sono delle stelle molto più lontane, non 8 minuti ma anni luce, supponiamo 2000 anni luce. Io vedo una stella e dico: “Guarda com’è bella”. Arriva uno scienziato, l’astronomo, e mi dice: “Quella stella è già spenta, quella luce che tu stai vedendo ora, è partita da quella stella 2000 anni fa”. E allora domando: “la luce che sto vedendo è presente o è passata?” E’ partita 2000 anni fa, ma mi arriva ora. Io ora, in questo momento, ho presente quella luce. Nella Messa l’evento storico della Pasqua (la morte e la risurrezione di Cristo) mi raggiunge ora. Ciò avviene in un rito che noi chiamiamo “sacramento”. 

Sacramento

    Che significa “sacramento”?. E’ un termine latino che sembra indicasse, all’inizio, l’atto con cui un soldato “si consacrava” con il giuramento militare, al servizio dell’imperatore. I cristiani hanno chiamato “sacramento” la loro consacrazione a Cristo vero Re, con il rito del battesimo. Il  battesimo è il nostro sacramento. Da qui poi è passato ad indicare anche altri riti cristiani, soprattutto l’eucaristia. Per spiegare però questo termine, non basta ripeterlo, bisogna spiegarlo con altre parola, ognuna delle quali ci rivela un aspetto particolare del rito celebrato. 

I Padri della Chiesa, specialmente greci, usano diverse parole.

a) Simbolo. 

    Bisogna spiegare questa parola. Essa normalmente è quasi contraria alla parola “realtà“: per es. se uno dice di pagare un affitto simbolico, significa  che non lo paga. Non è in questo senso che noi diciamo che la cena pasquale cristiana, cioè la messa, è un rito simbolico. Dico che la realtà della pasqua storica di Cristo, con tutto quello che significa per l’umanità, si rende presente attraverso e  nel simbolo. Se io dicessi che l’Eucarestia, il pane consacrato è simbolo del corpo di Cristo, voi mi direste che sono un eretico. Ma se questo lo hanno detto i padri della chiesa, specialmente i padri greci. Cosa volevano dire? Che la realtà del corpo di Cristo si rende presente, non così come è fisicamente, ma in simbolo. 

    Porto un esempio che capiscono anche i bambini (pur sapendo che tutti gli esempi “zoppicano”): un biglietto di banca, di 500 euro, è simbolo o è realtà? La realtà dei 500 euro sta nell’oro che è conservato alla Banca d’Italia o alla Banca d’Europa. Però, in un certo modo, e in modo diverso, il valore dei 500 euro di trova in quel pezzo di carta. Dunque è un simbolo reale. Possiamo portare un altro esempio: ho un biglietto del superenalotto, lo compro ad 1 euro; poi i numeri scritti nel biglietto corrispondono (in greco si direbbe symballusin) con i numeri estratti. Appena i 6 numeri corrispondono, quel pezzo di carta che io ho comprato ad un euro, vale (anzi posso dire, diventa) cento milioni di euro, o anche più. Cosa è cambiato in quel pezzo di carta quando i sei numeri corrispondono? Qualcuno mi ha risposto: “E’ cambiata la sostanza”. Fisicamente carta era e carta rimane, ma adesso non mi interessa più se è carta, cartoncino, lamina di zinco o d’oro, mi interessa che lì ci sono cento milioni.  In un modo (fisicamente) sono ancora in banca o al Ministero delle Finanze, ma in un altro modo (simbolicamente) sono nel pezzo di carta. Tanto è vero che non lo conservo più nel cassetto del comodino, ma lo porto in banca, dal notaio, mi faccio fare la ricevuta, perché quel pezzo di carta è (non solo mi ricorda o mi significa, ma è) cento milioni di euro. 

    Fuori dell’esempio: La pasqua di Cristo, non solo il corpo, ma la Pasqua di Cristo si rende presente, in modo simbolico ma reale, nella celebrazione della cena pasquale cristiana. La Messa è il simbolo reale della Pasqua di Cristo.  Secondo il catechismo di Pio X, “i sacramenti sono segni efficaci della grazia”. A me piace dire che i sacramenti, tutti e sette, anzi  tutte le celebrazioni liturgiche sono segni, simboli della Pasqua, sono  riti che rendono presente ed operante la Pasqua. In essi noi diventiamo contemporanei di Cristo. 

    C’è una spia: nel Canone Romano (l‘unica preghiera eucaristica in uso nella Chiesa romana dal IV secolo ad oggi), il racconto dell’istituzione è  più bello delle altre preghiere eucaristiche, e recita: “La vigilia della sua passione, Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili e alzando gli occhi al cielo, a Te Dio Padre suo onnipotente rese grazie con la preghiera di benedizione, spezzò il pane lo diede ai suoi discepoli e disse: prendete e mangiate tutti: questo è il mio corpo. Allo stesso modo, dopo aver cenato, Gesù prese questo glorioso calice nelle sue mani sante e venerabili…”. Fate attenzione qui: “prese” è un passato remoto, “questo” è un  presente. Come ha fatto Gesù, 2000 anni fa, a prendere questo calice? Vedete, quel “prese”  non è un passato ma un verbo al perfetto:  quel “prese”  supera la storia, per cui possiamo tradurre che Gesù “prende” questo calice. In latino il testo suona  “accipiens et hunc“ (= prendendo anche questo). Li prese tutti?  Quella azione di Gesù si rende presente ora: è partita 200 anni fa ma mi giunge ora. Noi mangiamo con Cristo, non soltanto mangiamo Cristo, perché diventiamo a Lui contemporanei: l’evento passato si rende presente. 

    Questo modo di pensar evidentemente non va d’accordo con la nostra mentalità odierna, per la quale il passato è passato e non torna più.  

b) Immagine

    Per spiegare i sacramenti della chiesa, i Padri non utilizzavano la  filosofia aristotelica, come poi farà S. Tommaso, ma quella platonica. Per Platone, tutto quello che esiste nella realtà di questo mondo è immagine della realtà celeste, dell’ “iperuranio“, ma nell’immagine c’è la realtà. Se Platone ha davanti una bistecca, egli sa che in tanto è bistecca in quanto è l’immagine della bistecca, è, per così dire,  una incarnazione della bistecca. Però, quella bistecca se la mangia e se ne nutre; cioè le cose sono reali,  in quanto sono immagine della realtà perfetta. I Padri dicono che la realtà salvifica, la Pasqua di Cristo,  che  storicamente è  avvenuta in passato, si rende presente oggi in immagine , in simbolo, in sacramento. 

c) Mistero

    Anche questo termine va spiegato, Già prima di Cristo, c’erano nella Grecia, ma anche a Roma, dei riti misterici. In essi, “mistero” indicava un rito, nel quale, attraverso gesti simbolici, si rendeva presente un “mito“. Per mito si deve intendere un evento primordiale avvenuto “in principio“, cioè prima (o fuori) del tempo. In un certo senso, quel mito si rende presente nel rito. Ora questo mito, o tutti questi miti, hanno un significato comune: vogliono spiegare i fenomeni naturali; per es. l’uomo vede che il sole tramonta, ma poi l’indomani risorge; semina un chicco di frumento che muore, ma poi spunta il filo d’erba e poi la spiga. Vede insomma che in natura tutto muore, ma poi risorge. Allora l’uomo dice: “Come fa il chicco di frumento a morire e poi a produrre tanti chicchi? Come fa il sole  a morire e poi a risorgere? Se io arrivo a scoprire il come, io rendo presente in un rito la causa di questo fenomeno, il mito appunto, in modo che io posso partecipando al rito prendere parte al mito“. Il caso del chicco di frumento è il mito di Kore o Proserpina. Il chicco di frumento ogni anno muore e poi risorge, perché ogni anno ripercorre il mito di Kore: una bella ragazza rapita da Plutone, il dio dei morti,che la porta con sé sotto terra; la madre piange, urla, si strappa i capelli (è l’inverno) e poi Giove, il dio del cielo) stabilisce  che per sei mesi Kore starà con Plutone sotto terra e poi quando il sole (Hermes) sale al cielo in primavera, Kore ritorna sopra la terra: questo è il mito. In un rito, attraverso il mostrare una spiga che è la conclusione del processo, si rende presente il mito di Kore: in modo che l’iniziato , partecipando al rito muore  e va sotto terra con Kore, ma quando poi Kore risorge anch’egli risorge e raggiunge la “salvezza“. Ora noi traduciamo il termine “mito” con la parola “favola”, perché inventato dall’uomo. 

    Nei primi tempi, gli autori cristiani, per es. S. Giustino (Apologia, cap. 62), prendono le distanze da questi “miti”. S. Paolo, per es., non usa la parola “mistero” quando parla dei riti cristiani, per es. il battesimo (Rom. 6) o la cena del Signore (! Cor. 11). Ma, nel  IV secolo, entrando in dialogo con la cultura del tempo, i Padri dell’età d’oro della patristica, non temono di usarlo, ragionando così: non è forse vero che per noi cristiani, un figlio di Dio (tali erano i protagonisti dei miti pagani), anzi il Figlio di Dio è andato sotto terra e poi è risorto da sotto terra? Questo è il nostro “mito”, con una  differenza però: mentre i miti  sono fuori dal tempo ed inventati dagli uomini,  il nostro è un “evento storico” avvenuto concretamente  2000 anni,  in quella città, in quel giorno, in quella ora. Questo evento è chiamato “mistero” da Paolo, ed è tutto il piano salvifico di Dio realizzato in Cristo, soprattutto nella sua morte e risurrezione (il “mistero pasquale”.

Questo mistero si rende presente nel nostro rito cristiano. In tanto possiamo chiamare misteri  le celebrazioni e i sacramenti, in quanto sono presenza del mistero salvifico, presenza attiva della Pasqua. Noi, partecipando al rito, partecipiamo anche all’evento. La messa è la pasqua di Cristo, salvezza del mondo che si rende presente perché,  partecipando a quel rito, prendiamo parte all’evento di morte e di resurrezione di Cristo. Come si prende parte alla morte? Morendo, un poco alla volta, a noi stessi. Come si prende parte alla risurrezione? Risorgendo, un poco alla volta, in una vita nuova. Se la partecipazione alla Messa non produce questo progressivo cambiamento di vita, fallisce il suo scopo, e si riduce ad un semplice rito, anche se bello, ed emotivamente attraente.

Intervista ad Adinolfi sul Cristo

Nel bel mezzo della pandemia siamo costretti ad “andare al sodo”, a porci le questioni essenziali, che alla fin fine, dalla notte dei tempi, mi sembrano due: 1) mangiare e 2) perché farlo?  Quest’ultima domanda mi pare ancor più inevitabile della prima e, da circa 2000 anni, è diventata ormai a livello mondiale sinonimo di un’altra: chi è Gesù? Nessun uomo come lui “ha alzato la posta della scommessa” su questa domanda capitale: perché vale la pena mangiare, ovvero esistere ancora un giorno e poi un altro, per infiniti giorni se possibile? “Per incontrare me” risponde lui.

E tu, Mario, chi dici che egli sia?

E’ stato ed è quello che io chiamo il mio “amico esigente”.

In realtà l’incontro con lui è avvenuto in maniera molto naturale. Per noi della generazione degli anni ’70 l’incontro con la religione cattolica era quasi obbligato: io dovevo andare a messa da quando avevo 10 anni, avevamo tutti l’ora di religione (per me addirittura quotidiana perché andavo in una scuola cattolica, come sai), ho fatto il chierichetto da quando avevo sei anni. Vedo che invece è diverso per le generazioni delle mie figlie.

Il problema è sempre stato avere questo rapporto in maniera non scontata. Se devo dare una definizione, dico che Gesù mi ha proprio inchiodato ad una relazione sentimentale. In sostanza, è un rapporto in cui tu devi rendere conto.

Non c’è dubbio che nel corso della mia lunga relazione con Cristo ho avuto anche momenti in cui sono stato letteralmente un cattivo partner, diciamo così. Ma mai un cattivo partner che non si rendeva conto di esserlo o che si disinteressava della relazione con Lui.

C’è una domanda centrale che ti devi porre all’inizio con Lui, perché altrimenti questa relazione non funziona (come quando scegli la moglie): ti fidi del fatto che Cristo è colui che ha sconfitto la morte, è risorto, è la via la verità e la vita? Se ti fidi di questo, anche se c’è il tuo “non essere all’altezza” – persino il tuo “voler scomparire come partner” –, comunque tiene questa pietra miliare a cui rendere conto. Questo è l’elemento caratteristico del rapporto che si ha con Gesù: parte da un’esigenza di verità e riconosce una dimensione che dà acqua a questa sete. Poi le cose vengono di conseguenza.

Dicevi che bisogna arrivare a porsi una domanda fondamentale perché se no Gesù non si capisce. Forse in questo il Coronavirus ci aiuta: in questa situazione paradossale, in cui ognuno deve restare a casa sua ponendosi le domande essenziali, abbiamo l’occasione di andare al cuore della pretesa di Cristo, cioè di non fermarsi sulle conseguenze morali o politiche o anche teologiche su cui normalmente ci impantaniamo. Nella nostra solitudine, lontani da ogni “distrazione” pratica (anche buona) possiamo chiederci, nella nostra piena libertà, faccia a faccia con questo paradossale ebreo di 2000 anni fa: chi sei tu veramente?

Dico la verità, io non credo alla “fede da coronavirus” o alla fede recuperata in limite mortis, alla cosiddetta “fede per necessità”, diciamo così. Questo tempo evidentemente ti pone davanti a una valanga di domande, ma io credo francamente che per molti il rapporto con Cristo sia nella dimensione delle cose inessenziali. Per esempio, io ho trovato che sia stata una risposta molto fastidiosa, per fortuna solo per una sera, quella del “chiudete le porte della chiesa”: ho sempre accettato tutto ma quella sera lì è stata l’unica volta in cui ho protestato pubblicamente con il decreto del cardinale vicario. Poi, addirittura, qualche settimana dopo, siamo passati a quel cavolo di ordine del ministero per cui puoi andare in chiesa a dire una preghiera solo a condizione che sia sul tragitto per cose essenziali, tipo “andare dal tabaccaio”.

Questa subalternità è di tipo culturale, questo è il problema vero. Perché davanti a questa che è l’unica risposta di vita – perché lui ti dice “io sconfiggo la morte”, questo è il punto – noi arretriamo? Abbiamo anche l’immagine del papa che fa il giro del mondo, che nella preghiera a San Pietro diventa il simbolo della possibile speranza per tutta l’umanità. Perché rimaniamo subalterni, allora? Perché non crediamo più a niente.

In stragrande maggioranza purtroppo la secolarizzazione vera di questa società è che i riti sono diventati stanchi, la fede è stata sostanzialmente estirpata ed ha davvero ragione chi dice che è fondamentale comprarsi il pacchetto di sigarette, ma non è fondamentale passare a dire la preghiera in chiesa. Mi sembra che davanti alla crisi di fede così profonda la risposta generale è “ci credo come una forma di compagnia”, ma non nella forma di relazione esigente rispetto alla quale io mi devo mettere in gioco, a misura della “moglie che mi sono scelto”.

Ma poi non è proprio questo che ci rimproverano su internet? Quelli che mi avversano dicono che io “credo all’amico immaginario”. E allora noi ce lo dobbiamo chiedere: ma noi crediamo all’amico immaginario?

Ho scritto oggi che i numeri della pandemia sono paragonabili a quelli della seconda guerra mondiale, nella quale ci sono stati 150.000 morti civili in 5 anni nel nostro paese. Con ogni probabilità i numeri reali dei morti per il virus già sono circa 40.000, perché sabato saranno conteggiati come 15.000 e la stima deve essere aumentata dal 200% al 400% in più se vai a prendere i dati Istat. Quindi, siamo dentro una colossale vicenda collettiva che parla di morte, ma non sappiamo parlare di risurrezione. E questo è un nodo che dobbiamo riuscire a risolvere sul piano collettivo non sul piano individuale. Io riesco a stare in casa senza impazzire perché, nella preghiera, nella lettura quotidiana del vangelo che faccio in diretta Facebook, mi sento fortemente “accompagnato”. Ma quanti si sentono in questa condizione realmente?

A proposito di incredulità, mi sembra che uno degli scandali che non riusciamo ad accettare è il fatto che Gesù stesso abbia deciso di fidarsi veramente dell’uomo per portare il suo mistero. Lui ha proclamato il suo vangelo solo per (circa) tre anni in un minuscolo paese alla periferia di un impero, vivendo con pochi amici e dopo questo brevissimo tempo ha lasciato l’annuncio nelle nostre mani. Non c’è anche una sfiducia nell’uomo al fondo della nostra crisi di fede, laddove invece Gesù ha dimostrato di credere tanto nella creatura umana da ritenerla capace di portare lui stesso, la verità che salva l’uomo, ovvero il tesoro più prezioso per l’umanità?

Lo scandalo è intellettuale: è lo scandalo della sfiducia nella verità; e quindi nell’uomo. Noi siamo imbevuti di questo. Siamo dentro un’ubriacatura che ci rende invisibile, incomprensibile, irraggiungibile il concetto stesso di verità.

Gesù vive in intima relazione continua con la verità. In un vangelo di questi giorni ce lo ripete: mi ucciderete perché io sono qui a parlarvi del rapporto con il Dio veritiero e perché non sopportate la verità che vi dico. E Cristo nell’intimità del rapporto con la verità riesce a sopportare tutto quello che deve subire di conseguenza. Noi, avendo perso invece il rapporto con la verità – persino con l’ambizione di conoscerla – abbiamo di conseguenza perduto fiducia in noi stessi: non sappiamo rintracciare neanche gli elementi propri della verità di ciascuno di noi, figuriamoci metterci in relazione con una figura esigente come Cristo. Non riusciamo più ad avere rapporti di amicizia veri, non riusciamo ad avere rapporti di amore vero, anche a livello sentimentale. Vogliamo sfuggire a noi stessi, vogliamo pensare che nel nostro continuo girovagare in qualche modo siamo ancora vivi. Invece no. Invece stiamo prendendo davvero lucciole per lanterne.

Noi dobbiamo concentrarci in quel dolorosissimo percorso che conduce alla verità, a ciò che “è”. Guarda che tipo di rapporto abbiamo con la morte. In questa vicenda in cui abbiamo una colossale valanga di morti, noi li stiamo nascondendo alla vista: i morti sono mandati con i camion e non si vedono neanche più le bare, vanno direttamente ai forni crematori. Stiamo nascondendo tutto questo. Fatti invece un giro sui social: il web è diventato luogo di cazzeggio. Invece di affondare la faccia dentro questa tragedia che è il tema della morte, la esorcizzi cercando ogni modalità: da come si fa il pane, a guarda come sono brava a ballare la salsa e il merengue, guarda come cazzeggio pur di esorcizzare l’unico tema che dovremmo affrontare oggi, cioè come vivere per essere degni di arrivare a quel tipo di traguardo di una qualche dimensione di senso. O noi recuperiamo con coraggio il rapporto con il tema della verità – e allora lì davvero troviamo la liana che ci porta all’incontro rinnovato con Cristo – o altrimenti stiamo sulla liana a fare Tarzan. Ma allora – come insegna Alberto Sordi – sei inevitabilmente ridicolo. Vorrei che ci fosse almeno un’ambizione di sfuggire al ridicolo in questa fase così tragica, ma non la scorgo, devo dire la verità, non sono propriamente ottimista.

Hai detto prima che questa tentazione riguarda anche i cattolici, anche la Chiesa: puoi spiegare meglio?

Non mi rivolgo ai pastori e neanche alla Chiesa. Mi rivolgo alla comunità dei credenti, che conosco, che frequento, che vedo annichilita, addolorata, un po’ incapace di esprimere, di pensare. Ho la seria impressione che questa storia non ci lascerà senza ferite e non so se queste ferite saranno salutari. L’autorità politica inciderà sull’autorità religiosa in maniera mai vista prima dei 159 anni ormai di storia italiana. Credo che ci sia una volontà veramente massonica di rivoltare un po’ il rapporto tra poteri in questa fase. Mi aspettavo un fervore cattolico che emergesse, con una riscoperta della forza della fede come risposta a questa tragedia: non lo sto vedendo. In queste quattro mura tutto sommato si sta comodi e stiamo perdendo la relazione di comunità: e questa è fondamentale per i cattolici, perché è dentro questo essere comunità che Cristo si manifesta. Vedo invece uno stemperarsi complessivo anche della forza evocativa che ha l’idea di stare insieme. Vedo un po’ di folclore, un po’ di rosari per l’Italia, cose così, insomma, che assomigliano alle canzoni dal balcone. Ma non vedo bollire la fede – diciamo così – come invece mi aspettavo.

Arriviamo alla domanda delle domande – cui tu hai già accennato – però te la voglio fare esplicitamente. Tu hai detto che senza resurrezione non c’è vera fede in Gesù Cristo. Allora credi veramente che un uomo un giorno è uscito dalla sua tomba e ha vinto la morte per sempre?  E che cosa diresti a chi dice “è impossibile”?

E questo è il punto!  Ogni tanto vengo chiamato in televisione a parlare di queste cose, l’ultimo caso è stata una discussione sulla Madonnina di Civitavecchia con il professor Odifreddi. Pretendono che io discuta di alcuni dettagli della statuetta della Madonna – che per altro ha lacrimato in braccio al vescovo Grillo che non ci credeva e ha avuto quasi un infarto – con un irridente docente ateo, quando invece l’unica discussione che va fatta è alla base: credi che Gesù Cristo è risorto? Perché per Odifreddi la risposta è “no, punto esclamativo”. Credi che sia possibile che alla fine dei tempi noi risorgiamo con il nostro corpo? Ci rendiamo conto che quella del Credo è tutta roba innaturale, che non accade in natura, eppure è accaduta? Abbiamo fede in una resurrezione di noi stessi perché abbiamo creduto in Cristo risorto? Questo è il punto di domanda. E su questo punto non c’è dirimente possibile: quando andiamo a celebrare il battesimo, la prima comunione, il matrimonio in chiesa, il funerale di papà, che cos’è quella roba là, la strana pagliacciata di gente che si mette abiti colorati e recita da un altare cose senza senso oppure è collegata a una verità?

La verità è una sola: Cristo sconfigge la morte e io risorgerò con lui. Questa cosa ti deve attraversare la vita, ma sul serio, e allora tutto diventa conseguenza, anche il tuo sfuggire ad un rapporto così esigente (tanto non riuscirai mai a sfuggirgli, dimenticandolo, anche quando vorrai sfuggirgli – e questo lo dice uno che ha fatto questa esperienza diretta). Normalmente nel racconto di Cristo che ci facciamo sembra che essere cattolici significhi essere una sorta di ONG a sostegno dei poveri (è una cosa interessante ma solo se nel povero riconosco il volto di Cristo, sennò non ha senso alcuno, lo fa meglio Save the Children). Oppure ci sono certi ambienti tradizionalisti che hanno delle riserve continue: ho visto Antonio Socci scrivere cose contro il Papa – il giorno in cui il Papa era il simbolo di speranza per l’umanità intera – che mi hanno veramente travolto per rabbia e fastidio, perché come fai a non avere la percezione che almeno quel giorno devi stare zitto. Ormai ognuno vive dentro il suo piccolo baraccone, dove poi la domanda cruciale rimane inevasa, perché se invece ti poni la questione decisiva tutto diventa molto chiaro e anche molto conseguente: se credi, credi a questo, e di quello che ti dice l’Odifreddi di turno semplicemente non te ne frega niente. In questa condizione resteremo inevitabilmente con le distanze che devono esserci, perché c’è distanza tra chi ha fede e chi non ne ha.

Ultima domanda: nel tuo rapporto con Cristo, come cambia il tuo essere padre, marito, politico, giornalista, insomma la tua vita?

Mi ha rovinato, diciamo la verità. Io sarei stato infinitamente più cinico da 10.000 punti di vista. Invece, come vedi, in tutte le cose della mia vita, sul piano sentimentale, sul piano dei rapporti familiari, sul piano della politica, sul piano del “rapporto con lo specchio”, io sono condannato alla verità. E questa è una cosa molto complicata da gestire. Ma se sei cristiano questo è l’elemento determinante: sei condannato al confronto costante con la verità.

Di quella vado continuamente a caccia, di quello sono continuamente assetato e so che posso essere solo condotto per mano perché tanto non riesco a farlo da solo. L’ho sempre spiegato agli amici del Popolo della Famiglia: noi siamo un partito laico, non confessionale, ma allo stesso tempo sappiamo che questo tipo di battaglia la riusciamo ancora a fare da anni solo perché c’è qualcuno che ci conduce per mano, sennò da mo’ che eravamo morti. E questa è la condanna – diciamo così – a cui Cristo ci lega insieme a lui, perché la caccia alla verità non è che ti rende simpatico. Come dice il Vangelo “hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi”. Ne devi essere consapevole e, con grande calma, però, se hai questo amico esigente ti senti anche sufficientemente protetto per poter fare quel cammino insieme a lui.

Fonte: Pepe on line

Guido Oldani, Andrea con Pietro, Giacomo e Giovanni (III domenica del Tempo ordinario, anno b)

  Mc 1, 14-20

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

ANDREA CON PIETRO,

GIACOMO E GIOVANNI

chi prende i pesci non è certo un topo

che rosicchia intorno fra i rifiuti,

perciò gesù li sceglie rematori

tipi schietti che diano il loro aiuto.

questi lasciano padri, reti e mogli

e il tutto avviene subito al momento,

perché qui non si tratta di un affare

per ingrassare natiche o la tasca,

ma di produrre in esse lo sgomento.

Franca Giansoldati presenta Viaggio a Maria di Carlo Ossola

Ildebrando Scicolone, Il battesimo

LA FEDE E LA CONVERSIONE

p. Ildebrando Scicolone, osb

    Parlando del Battesimo, o meglio, dell’iniziazione cristiana, bisogna subito fare una distinzione: il caso normale è l’iniziazione di un adulto, mentre il battesimo dei bambini è un caso (non diciamo “anormale”, ma) particolare. La Chiesa infatti non battezza un bambino, se non è richiesto dai genitori, cioè da una famiglia cristiana. Perché?

    Il motivo sta nel fatto che il battesimo, in quanto sacramento, è un segno. Di quale realtà è segno? Certamente della Pasqua di Cristo, che viene resa presente, e alla quale il battezzato prende parte, morendo e risorgendo sacramentalmente con Cristo. Ma è anche sacramento, cioè segno della fede. In Mc 16, 15-16 è riportata una parola di Gesù agli Undici: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”. La fede è essenziale, tanto è vero che si parla anche di un battesimo “di desiderio”, ugualmente valido per la salvezza, come il battesimo di acqua, perché il desiderio è espressione della fede, che è l’unica che salva. La fede senza il battesimo può salvare, il battesimo senza la fede è nullo. 

    Parliamo perciò di quello che abbiamo chiamato il caso normale, cioè il battesimo di un adulto. La Costituzione Liturgica del Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, scrive: “Prima che gli uomini si accostino alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione”. E cita Rm 10, 14-15, dove Paolo, dopo aver citato Gioele 3, 5 “Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato”, continua: “ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che l’annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?”. Paolo elenca una serie di azioni successive: gli apostoli sono inviati, annunciano il vangelo, gli uomini ascoltano, poi credono, intendono cambiare vita (cfr Atti 2, 37: “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero…: Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”), e solo dopo vengono battezzati (“invocano”). 

    La Tradizione Apostolica dedica sette capitoli al processo con cui un adulto diventa cristiano. Il rito del battesimo, anzi la celebrazione dei tre sacramenti della iniziazione, è descritta nell’ultimo, mentre il primo ha questo titolo: “Coloro che si accostano per la prima volta alla fede”, e inizia così: “Coloro che si presentano per la prima volta ad ascoltare la parola, siano subito condotti alla presenza dei dottori, prima che il popolo arrivi, e sia loro chiesto il motivo per cui si accostano alla fede”. Seguirà il periodo dell’ascolto della catechesi catecumenale, e solo dopo aver dimostrato di credere e di avere imparato a pregare e a praticare la carità, siano “scelti”, per essere ammessi al battesimo. Questo poi avverrà con una triplice immersione nell’acqua in seguito alla triplice professione di fede (“Credo”) nella santa Trinità. Si vede chiaro in quest’antica formula battesimale, che il battesimo è il segno, ossia il sacramento della fede.

    Ma che significa “credere”? Non si tratta di credere che Dio esiste, o che Gesù sia il Figlio di Dio, o che sia morto e risorto. Non si tratta nemmeno di credere a quello che Gesù ha insegnato. Si tratta di credere in Dio e in Cristo, e nello Spirito Santo. Nel Credo diciamo così: Credo in un solo Dio… E in  Gesù Cristo… Credo nello Spirito Santo. Poi si dice: Credo la Chiesa ( non nella Chiesa!). Ora “credere in”, significa “fidarsi di”, “affidarsi a”, “appoggiarsi a”, “buttarsi in”. La preposizione in con l’accusativo, indica un movimento verso, un moto a luogo. Credere in Cristo Gesù, significa “votarsi” a lui, vivere per lui. Per cui il credente, come Paolo, deve poter dire: per me, Cristo è la vita, ossia senza Cristo, la vita non ha senso. Questa è la conversione, simile a quella che Dio ha operato in Paolo. Egli è un convertito, non perché prima facesse il male, e poi abbia fatto il bene, ma perché prima viveva per la legge di Mosè, poi comprese che bisogna vivere per Cristo, e come Lui. Il battesimo è un morire a se stessi, per vivere in Cristo. Affogare nell’acqua è il segno che si vuole morire a se stessi, riemergere dall’acqua è un risorgere, o un rinascere, come “nuova creatura”.

    Il fondamento della fede, così intesa, è l’evento della risurrezione di Cristo, e la speranza certa della nostra personale risurrezione. È chiaro che si vive in modo totalmente diverso, se c’è la prospettiva della risurrezione, o se invece si pensa che con la morte fisica tutto è finito. Il cristiano è un uomo che crede e vive per la risurrezione.

    Fede e conversione, a questo punto, si identificano. Perché la “conversione”, non è altro che una vita secondo la fede, una vita coerente con ciò in cui si crede. È chiaro che allora il cristianesimo è esigente: fino all’eroismo, al martirio in tutte le forme possibili, violento, o semplicemente “lento”.

    Se è vero tutto questo, mi domando: quanti battezzati sono veramente cristiani? Hanno ricevuto o posto il segno, ma non hanno accettato la realtà di cui è segno.

    Questa riflessione ci fa passare al secondo punto. La situazione sopra lamentata non potrebbe derivare dal fatto che siamo stati battezzati da bambini? Possono i bambini avere la fede e la conversione prima del battesimo? Certamente no. E come mai allora la Chiesa li battezza? Questa obiezione la sentiamo fare non solo da vari autori protestanti, ma anche da tanti cattolici. Il battesimo dei bambini, prima che una legge della Chiesa, è una tradizione delle famiglie cristiane, anche di quelle meno praticanti. Molti chiedono il battesimo per i loro figli, per far loro una festa, o per “tradizione” di famiglia, o per convenienze sociali; i più vicini alla pratica cristiana, lo fanno “per togliere loro il peccato originale”; ora, se quest’ultima motivazione è buona, è solo l’aspetto negativo del battesimo. Esso è altro, e molto di più. Chi lo deve credere?

    Il rito del battesimo dei bambini inizia con la domanda, che un tempo era rivolta agli stessi bambini, e che ora è rivolta ai genitori: “Cosa chiedete alla Chiesa di Dio?”. E la risposta può essere: “il battesimo” o “la fede”. Il vecchio rituale aveva però solo quest’ultima. Il battezzando chiede la fede. Il battesimo ne è il segno.

    La Chiesa, abbiamo detto, battezza i bambini, solo nel caso in cui la famiglia lo chiede. È necessario quindi che la famiglia abbia la fede. Immediatamente prima del battesimo, viene chiesto ai genitori (e ai padrini) se rinunciano al peccato e se credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Una famiglia che così crede, sa di donare al proprio figlio il segno del grande amore per il quale Dio ci fa suoi figli. I genitori credenti sanno che il loro figlio diventa, con il battesimo, “figlio di Dio”, riceve la vita divina. Perciò essi si impegnano a far crescere poi nel figlio quella fede nella quale è stato battezzato. 

    La storia della Chiesa ci dice che, se all’inizio la maggior parte dei battezzati erano adulti, da sempre la Chiesa ha battezzato anche i bambini di una famiglia convertita. Basta ricordare che Pietro battezzò Cornelio e tutta la sua famiglia (Atti 10, 48), e Paolo il carceriere “con tutti i suoi” (Atti 16, 33). 

    La citata Tradizione Apostolica, al cap. 21 precisa: “Battezzate per primi i bambini. Tutti quelli che sono in grado di rispondere da sé, rispondano; per quelli che non sono in grado, rispondano i genitori o qualcuno della famiglia”. 

    Tale “risposta” è la risposta della fede; senza di essa non si dà battesimo. 

G. Basti, Dal mente-corpo al persona-corpo

In quest’ottica, la cosiddetta componente “spirituale” dell’anima umana individuale dev’essere
intesa nella teoria duale tommasiana come un’ulteriore relazione causale, “ultima” perché costituti-
va della formalità individuale irriducibile e inalienabile della singola persona, che ogni individuo
umano ha con un Agente Trascendente la natura fisica, biologica e culturale (connotato come “Dio”
dai credenti). Grazie a questa relazione causale, costituente la formalità irriducibile di ciascun indi-
viduo umano nella sua totalità e nella sua unicità (= l’anima razionale come forma sostanziale spiri-
tuale della materia che costituisce il corpo umano), la singola persona umana è resa capace di dive-
nire progressivamente consapevole, e quindi di controllare in modo sempre meno parziale,
l’inviluppo di relazioni causali con gli altri agenti fisici, biologici e culturali che costituiscono il tes-
suto della sua esperienza (progressivamente) conscia e (largamente) inconscia, durante tutta la sua
vita. Naturalmente, tutto questo si lega benissimo allo sviluppo di una fenomenologia di ispirazione
cristiana quale, in particolare, quella della Stein (Stein, 1935) e dei suoi seguaci Cfr. (Ales-Bello,
1992); (Manganaro, 2007)), e alla nozione di spiritualità della persona umana in essa come rela-
zione trascendente “verticale” con l’Assoluto che fonda e rende possibile la stessa relazione tra-
scendente “orizzontale” con le altre persone umane o “intersoggettività”.

https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=http://www.stoqatpul.org/lat/materials/basti_persona_corpo5.pdf&ved=2ahUKEwjWxuOIh5vuAhVP-6QKHTkOCMwQFjADegQIDhAB&usg=AOvVaw0-I3CJGz7vGY31ILxQXjp_&cshid=1610614642065

https://gpcentofanti.altervista.org/i-fondamenti-spirituali-culturali-di-un-nuovo-discernimento-in-gesu-dio-e-uomo/

Proroga giubileo lauretano

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-08/giubileo-lauretano-papa-francesco-proroga-dicembre-2021-dal-cin.html

Antonio Socci: Zingales e la dittatura big tech

https://www.antoniosocci.com/la-sorprendente-analisi-delleconomista-luigi-zingales-da-chicago-su-quello-che-sta-accadendo-negli-stati-uniti-e-leditoriale-di-limes/

Angela Ambrogetti, papa Leone XII e il rinnovamento

CITTÀ DEL VATICANO , 18 gennaio, 2021 / ACI Stampa

Oggi forse i giornali lo avrebbero definito un uomo di centro, ma  nel 1823 l’equilibrio andava trovato tra zelantismo e riformismo consalviano. E’ questo il profilo di un Papa come Leone XII troppo poco studiato e che oggi grazie al lavoro di Roberto Regoli e Ilaria Fiumi Sermattei e al sostegno del Consiglio regionale delle Marche acquista il rilievo che merita

Il progetto di studio, nel quale i due storici hanno coinvolto colleghi studiosi di ogni parte del mondo, arriva nel 2020 alla tappa dedicata alla religiosità. Anche in senso politico. 

Al lettore si aprono spaccati della società ottocentesca della vita parrocchiale che prevedono il Concilio Vaticano I e di conseguenza il Vaticano II. 

Da oggi per qualche settimana, grazie al volume “La religione dei nuovi tempi. Il riformismo spirituale nell’età di Leone XII” a cura di Roberto Regoli e Ilaria Fiumi Sermattei, cercheremo di saperne di più.

Il volume del Consiglio Regionale delle Marche pubblicato tra i quaderni sarà anche disponibile on line prossimamente. 

Fu un pontificato religioso quello di Leone XII? Certo che tutti i pontificati sono religiosi ovviamente, ma che ruolo ha avuto nella prima metà dell’ 800 con i tumulti rivoluzionari e risorgimentali la religione?

A introdurre il tema è Roberto Regoli, sacerdote e professore della  Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Università Gregoriana. 

“La Chiesa prende altre e autonome strade rispetto ai poteri politici” e “Annibale della Genga incarnava nella sua biografia il cambiamento dei tempi”.

Un cambio epocale quindi che la Chiesa vedeva necessario con la divisione tra potere religioso e poteri politici.  “L’eletto papa conosceva le nuove sensibilità europee e lui stesso nelle sue letture appariva attento alle istanze religiose e non solo teologiche della sua epoca” scrive Regoli. 

Il nuovo Papa sceglie intanto di vivere nel Palazzo del Vaticano piuttosto che al Quirinale. Ci volle un anno per il trasferimento effettivo, ma fu una scelta che “si pone come una consapevole quanto isolata reazione alla secolarizzazione, nella direzione di un’accentuazione del potere spirituale del pontefice. In anticipo di mezzo secolo sulla scelta forzata di Pio IX”. 

Ma nella sua prima enciclica che Leone XII esprime chiaramente la sua “passione religiosa”. Ubi primum  pubblicata il 5 maggio 1824. Il papa “ribadisce gli errori del tempo, che si riassumono nel «tollerantismo» da lui chiamato «indifferentismo»12. Il papa non entra nel merito della questione nell’ambito politico civile, ma in quello strettamente religioso.”

Indifferentismo o “liberalismo religioso” come diceva John Henry Newman. 

Le riforme iniziano subito anche se la salute non lo aiuta. Riforma gli studi con la Quod divina sapientia, fa tornare i gesuiti al Collegio romano, ristruttura la rete delle parrocchie romane, una attenzione alla nuova urbanistica ma soprattutto alla cura delle anime. 

Ma Leone XII dovrà poi adattare alcuni suoi sentimenti religioso- romantici legati al mondo alla Curia Romana. Così la via nuova del cattolicesimo non trova fortuna nella Curia legata ai vecchi schemi di potere le immagini del Papa che lava i piedi ai pellegrini del Giubileo sono presto dimenticate. 

Il Papa sceglie i suoi collaboratori tra i religiosi, come il cardinale Cappellari, camaldolese e futuro papa Gregorio XVI. Il 16 percento delle nomine dei cardinali è di religiosi contro il solo 6 per cento del predecessore Pio VII, che pure è benedettino. 

Anche nelle rappresentanze diplomatiche la religiosità domina, come nel caso di Pietro Ostini, rappresentante del Papa alla corte di Vienna. Non è un diplomatico, ma un accademico, matematico, storico al Collegio romano e teologo presso l’Accademia dei Nobili Ecclesiastici, apprezzato per il suo zelo religioso, membro della Pia Unione sacerdotale di san Paolo apostolo, confessore, predicatore, animatore di circoli spirituali. Uno studio a parte poi va fatto per il Giubileo del 1925 e suoi frutti. Leone XII scelse di “andare controcorrente proclamando un anno giubilare nonostante una diffusa contrarietà e nella retorica dei simboli del ministero papale”. 

C’è poi la questione delle beatificazioni. “Il pontefice- scrive Regoli- che non realizza nessuna canonizzazione, beatifica cinque servi di Dio secondo la procedura formale e altri quindici per equipollenza, cioè come riconoscimento e conferma di un culto già prestato91. Tra questi ultimi beati si hanno dei personaggi non secondari, come Giovanna d’Aza, madre di san Domenico di Guzmán, o Giordano di Sassonia, maestro generale dell’Ordine dei frati predicatori, primo successore dello stesso san Domenico”.  E ci sono personaggi come Ippolito Galantini, fondatore della Congregazione della Dottrina Cristiana di Firenze che diventa fonte di ispirazione di Vincenzo Pallotti.

E’ Roma, la città, la gente che diventa per il Papa e grazie al Papa una “vivace fucina di rinnovamento spirituale dal basso” Ci vivono appunto Vincenzo Pallotti, Anna Maria Taigi, Elisabetta Canori Mora, Gaspare Del Bufalo e Vincenzo Strambi.

É Leone XII a pensare alla necessità di un Concilio, ma non riesce a realizzarlo e spesso trova la strada del rinnovamento sbarrata. Leone XII tenta “di indirizzare il cattolicesimo verso nuovi percorsi” ma ci vorrà tempo per avere risultati “secondo la classica dinamica del pendolo, tipica del cattolicesimo. D’altra parte, i pontificati di Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII trovano in quello di Leone XII e propriamente nei suoi aneliti religiosi le premesse storiche della loro stessa tensione spirituale e in alcuni casi anche una vera e propria fonte di ispirazione” scrive Regoli. 

Giovanni Maria Mastai Ferretti futuro Pio IX, nell’elogio funebre di Leone XII parlava della “liberalità culturale, la cura per l’istruzione, quella sensibilità per un cattolicesimo di massa” del Papa defunto. 

Diocesi di Roma, Corso on line

https://www.acistampa.com/story/diocesi-di-roma-torna-il-corso-un-di-piu-di-misericordia-16004

Adinolfi sulla crisi in corso

Bisognerebbe andare a votare e i cattolici potrebbero votare il Popolo della Famiglia. Non vi sono poi attualmente leggi che consentono le elezioni per via telematica ed è comunque preferibile che si voti in presenza.

Zamagni e un nuovo partito di cattolici

di Askanews

Roma, 18 gen. (askanews) – ‘Uno non può nel giro di pochi giorni o poche settimane crearsi una sua forza politica: ci ha provato Mario Monti con Scelta civica e abbiamo visto che fine ha fatto’. Stefano Zamagni, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali, commenta la crisi politica italiana e la posizione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Quanto a Matteo Renzi, la sua è stata ‘una mossa insensata’ contraria al ‘bene comune’, afferma l’economista bolognese tra i promotori di un nuovo partito – non confessionale – di ispirazione cristiana, Insieme: ‘In Italia – afferma – c’è un blocco stimato attorno al 30-35 per cento di elettori che si rifiutano di andare a votare perché non accettano la dicotomia centrodestra/centrosinistra’.Matteo Renzi ha fatto ‘evidentemente una mossa insensata che ha origine nell’atteggiamento di una persona le cui caratteristiche abbiamo imparato a conoscere’, spiega Zamagni ad askanews. ‘Questo non vuol dire che sulle singole questioni Renzi non abbia ragione, ma il punto è che quando in politica si prendono delle decisioni bisogna calcolare gli effetti indiretti e lontani nel tempo delle decisioni stesse. I cittadini potrebbero dirgli: ma noi che colpa ne abbiamo? Se ce l’hai con Conte, prenditela con lui direttamente, perché prendi decisioni i cui effetti si scaricano su 60 milioni di persone senza prima averci coinvolti né con un referendum né con un forum deliberativo? E’ un deficit di democrazia gravissimo. E’ una decisione presa da lui e dalle poche persone che sono con lui: denota il fatto che non ha presente la nozione di bene comune’.Quanto al futuro, il vescovo Giancarlo Bregantini, oggi in una intervista alla Stampa ha affermato che è ‘possibile ricreare un partito di ispirazione cattolico-democratica, magari studiandolo con i promotori di Insieme, il neo-partito di cui è membro del comitato dei garanti Stefano Zamagni’. E Giuseppe Conte, ‘nella prima fase potrebbe aiutare a federare le forze’.’A tutt’oggi Conte non ha fatto nessuna richiesta né ha dimostrato alcuna sensibilità al progetto del partito Insieme’, precisa Zamagni. ‘Che poi lui, che ha ovviamente delle doti, possa essere interessato, lo si vedrà. Ma non potrà farlo se non ha almeno il placet di Pd e del movimento 5 stelle che lo stanno sostenendo: non ha le mani libere. E, inoltre, uno – puntualizza l’economista – non può nel giro di pochi giorni o poche settimane crearsi una sua forza politica. Ci ha provato Mario Monti con Scelta civica e abbiamo visto che fine ha fatto. Se lo facesse dovrebbe fare i conti con le forze che già occupano il centro: chi primo arriva, meglio alloggia… Potrebbe farlo, ma ci vogliono anni. Diverso è il caso se lui accettasse di fare domanda, di iscriversi a Insieme e, se il direttivo lo accogliesse, allora entrerebbe in quella compagine. Ci sono affinità tra la sua storia personale e le caratteristiche del partito. Se entrasse, se la dovrebbe vedere democraticamente al congresso: in Insieme ci sono persone di livello elevato dal punto di vista culturale e intellettuale, non appaiono sui giornali perché badano alla sostanza. Ad ogni modo la porta è aperta a tutti’.Zamagni spiega la nascita del nuovo partito facendo un passo indietro, anzi due. ‘Quello che sta avvenendo è il risultato inevitabile di un complesso di eventi che nel corso degli ultimi 25-30 anni hanno caratterizzato la scena politica italiana, e in particolare di due errori. Il primo è il bipolarismo, l’errore più grave che si potesse fare, senz’altro in buona fede, perché è contro il principio democratico: se va bene per certi contesti, particolarmente nel mondo anglosassone, non va bene per paesi come il nostro. Avere imposto questa camicia di forza ad un corpo che non poteva tollerarlo ha aumentato, anziché ridurlo, il numero di partiti e invece di semplificare il quadro lo ha complicato. L’altro guaio è la scomparsa di una forza politica di centro. Tutti sanno che un modello di democrazia liberale non può fare a meno di una forza politica di centro autonoma sia dalla destra sia dalla sinistra. Le forze che si richiamavano al centro sono andate o di là o di qua, dando vita a centrodestra e centrosinistra, che sono un obbrobrio. Se l’assunto di partenza è la democrazia liberale, un partito di centro è indispensabile’.’Questa è la ragione per cui dure anni fa – non ieri, non due mesi fa – un gruppo di persone di varia estrazione e che non avevano esperienze parlamentari o di governo hanno preso la decisione di dare vita a una associazione chiamata Politica insieme. Questa associazione in due anni ha lavorato, ha prodotto un manifesto, una piattaforma programmatica e il quattro ottobre scorso in una assemblea romana ha dato vita ad un partito che si chiama Insieme. Questo partito è in attesa del placet della speciale commissione parlamentare che deve controllare lo statuto e una volta arrivato questo placet terrà il congresso fondativo nel corso del quale saranno nominati gli organi. Questa iniziativa è nata proprio per porre rimedio alle due aporie che dicevo, il bipolarismo e l’assenza di un partito di centro. In Italia c’è un blocco stimato attorno al 30-35 per cento di elettori che si rifiutano di andare a votare perché non accettano la dicotomia centrodestra/centrosinistra: come si può parlare di democrazia quando si impedisce così la libertà di scelta?’.Il nuovo partito di centro, spiega il presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali, è ‘moderato, il che non vuol dire conservatore: il moderatismo è il contrario del conservatorismo e dell’estremismo. E, inoltre, si colloca in una prospettiva di forte europeismo, ha una forte strutturazione territoriale, con comitati regionali da nord a sud, e nell’assemblea del 4 ottobre ha operato un primo tentativo di aggregazione di altre realtà, come Costruire insieme di Ivo Tarolli e altre sigle, 17 in tutte, associazioni di varie denominazioni che hanno ritenuto di convergere insieme’.Un progetto, tiene a precisare Zamagni, che ‘si ispira ai principi cristiani ma è un partito non confessionale: non vede coinvolta la gerarchia della Chiesa, né a favore né contro. Il punto è che quando si parla della Chiesa, la Chiesa ha due componenti: la gerarchia e il popolo, e da questa iniziativa la gerarchia deve stare fuori’.Un concetto analogo a quello espresso da un altro economista bolognese, Romano Prodi quando, da Presidente del Consiglio, annunciò che avrebbe votato al referendum sulla procrazione medicalmente assistita, contrariamente alle indicazioni della Cei del cardinale Camillo Ruini e alla sua battaglia sui cosiddetti ‘valori non negoziabili’, rivendicando di essere un ‘cattolico adulto’. ‘I valori sono negoziabili, sono i principi che non sono negoziabili’, spiega oggi Zamagni. ‘Il principio è che io non posso in nessun modo accettare la pena di morte: quanto al modo in cui si difende la vita umana, si entra nel campo dei valori e lì si discute, si negozia. Romano tirò fuori quella espressione in un momento in cui si voleva imporre la non negoziabilità dei valori, ed ha avuto ragione nel dire che se uno è cristiano adulto, ossia capace di intendere e volere, non puoi imporgli di seguire una linea di valore fissata da altri. Il ruolo della Chiesa intesa come gerarchia è tenere fermo il timone dei principi’. Quanto ai fedeli laici, ‘c’è bisogno di un laicato che produce pensiero in ambito economico, filosofico, giuridico e che deve trovare il modo di mettere a disposizione della comunità questo pensiero’.Zamagni tiene a precisare che non assumerà incarichi di tipo amministrativo o politico, ma sarà attivo in Insieme solo relativamente alla elaborazione culturale, proprio perché riveste il ruolo di presidente della Pontifica accademia delle scienze sociali, il think tank vaticano che si è occupato in questi anni di crisi ecologica, intelligenza artificiale, finanza mondiale e amministrazioni locali, biotecnologie e social network. Ma tiene a tenere distinti i piani: ‘La Pontifica accademia non è in Italia, è in Vaticano, che è un altro Stato, e si rivolge al mondo intero. Sono due piani diversi e il Papa ha sempre detto ‘non mi voglio occupare di politica italiana’. Il Papa dà l’esempio di cosa sia la laicità, tiene distinti i due ambiti. La ragione per cui io non assumerò cariche e non sarò candidato è proprio per questo. Ma è chiaro che posso e devo pensare’.La precondizione affinché il partito Insieme possa esprimersi al suo meglio, ovviamente, è una nuova legge elettorale. ‘Una autentica democrazia liberale non può non preferire una legge proporzionale corretta’, afferma Zamagni. Quanto alla realizzabilità di questo progetto, ‘questo dipende dai tempi della crisi’, prosegue il professore, che peraltro si dice favorevole ad uno sbarramento al cinque per cento. Una soglia che taglierebbe fuori partiti come Italia viva: ‘Ma quel partito sarebbe sotto anche il 3 per cento’, taglia corto Zamagni.Il professore respinge la critica di chi ritiene che proporre oggi un partito di ispirazione cristiana sia una operazione anacronistica, dettata dalla nostalgia, dopo la fine della democrazia cristiana. ‘Lo spazio per un partito cattolico non c’è: il principio di laicità è nato in casa del cristianesimo, il primo a formularlo è stato un signore che si chiamava Gesù Cristo, non l’hanno inventato i laicisti, quelli sono venuti dopo con la rivoluzione francese. Solo in circostanze molto particolari si può giustificare un partico cattolico e nel caso italiano la giustificazione c’era eccome, nel contesto della guerra fredda. Ma oggi non avrebbe nessun senso, e la stessa gerarchia non lo vuole: il Papa ha detto chiaramente che un partito cattolico oggi non ha senso. Danneggerebbe la Chiesa perché le toglierebbe la libertà. Diverso – spiega Zamagni – è un partito che ha l’ispirazione cristiana. E come c’è l’ispirazione socialista, c’è l’ispirazione liberale, c’è l’ispirazione radical-repubblicana, così c’è l’ispirazione cristiana’. Ma ‘la matrice liberale e la matrice socialista negli ultimi 30-40 anni hanno smesso di elaborare pensiero. In mancanza di questo è ovvio che siano emersi i sovranismi, i populismi, i primatismi vari: ma questa è la conseguenza, non la causa. La causa è che queste matrici politiche e culturali hanno cessato di credere ai propri fondamenti’. Quanto al mondo cattolico, invece, ‘basta guardare sul fronte ecologico, sul fronte sociale, sui grandi temi dell’oggi, chi viene sempre citato? Il pensiero di Papa Francesco: si può anche non essere d’accordo con lui, ma incide nel dibattito pubblico e tutti sono tenuti a fare i conti con le sue prese di posizione’.

Franca Giansoldati, I cardinali e la crisi politica

Il Messaggero

Città del Vaticano – Per evitare il rischio di andare alle urne è partita da Santa Marta, dal cerchio magico di Papa Francesco e forse anche dal cardinale Parolin che conosce il premier da tempo per via di antichi legami con Villa Nazareth e con il defunto Silvestrini, il porporato che la fondò, una buona parola a sostegno del governo Conte.

MORAL SUASION

Per quanto possa essere esercitato da una Chiesa che pubblicamente è sempre più irrilevante, l’esercizio della moral suasion, avrebbe lo scopo di intralciare la strada al pericolo di elezioni. Molto meglio un rimpasto. Al di là del Tevere sanno che il responso delle urne non andrebbe di certo a convalidare la situazione politica attuale, dando invece vigore alle destre sovraniste che più volte sono state al centro di dure reprimende papali.

Sicché una buona parola, in tempi avari come questi di prove di attaccamento, equivale a qualcosa che va ben oltre la benedizione. E’ come un viatico, una rassicurazione. Papa Francesco solo la scorsa settimana ha rilasciato una intervista a Mediaset dove, ad un certo punto, ha parlato della classe dirigente e del suo diritto ad avere punti di vista diversi benché in questo tempo segnato dalla pandemia e dalla crisi economica, «non vi è il diritto di allontanarsi dall’unità». E aggiungeva poi che i politici non devono rovinare tutto con l’interesse personale: «In questo momento la politica non ha diritto di dire io ma noi. L’egoismo non è la soluzione ai problemi. Con l’unità si perdono le elezioni? Non è questo il momento della raccolta, ma è quello della semina del bene comune. Perdi un’opportunità? Ne avrai un’altra. Ma non puoi fare i tuoi interessi sulla pelle degli altri». Più chiaro di così. Chi voleva intendere avrà certamente capito.

ORE DI INCERTEZZA

I francescani di Assisi, Sant’Egidio, i gesuiti hanno enfatizzato il messaggio che è stato ripreso anche dalla Cei. Più per obbedienza che non per convinzione il presidente cardinale Bassetti, dopo lo strappo di Renzi, ha rilasciato una dichiarazione nella quale ha espresso fiducia nel presidente Mattarella in queste «ore d’incertezza». Aggiungendo che non stiamo di certo vivendo in una parentesi della storia. Questo è tempo di costruttori». Attenzione alle parole: costruttori ha ripetuto Bassetti.

Naturalmente però non tutto fila liscio e non sempre la base cattolica coglie la visione e le percezioni dei vertici. Non è la prima volta che la via indicata dal Papa e dai consiglieri più stretti che gravitano a Santa Marta su questioni politiche registri un consenso immediato e partecipato. E’ capitato, infatti, che tra gli oltre duecento vescovi vi siano voci discordanti anche se silenziate dall’obbedienza implicita. Per esempio, a maggio, è accaduto che i vescovi abbiano dovuto fare marcia indietro e digerire il boccone amaro delle misure anti pandemia decise dal governo sulle chiese dopo che il Papa aveva parlato con Conte e, di conseguenza, era intervenuto per sconfessare i suoi vescovi a sostegno della linea del governo. Persino recentemente tanti vescovi non hanno digerito altre iniziative: per esempio il ddl Zan oppure l’intesa con il Ministero della Istruzione relativa al concorso per gli insegnanti di religione, criticato apertamente da qualche vescovo.

VIDEO ANTI DI MAIO

Sicché in queste ore non ha sorpreso che il video di un parroco calabrese, tale don Pietro, al momento della predica, si sia lanciato in una specie di comizio (lo ha chiamato così proprio lui) denunciando la pochezza di un governo che ha affidato l’incarico di ministro degli Esteri a Di Maio. Un uomo, dice, che pur avendo solo la licenza superiore ma si è permesso di formulare giudizi su Draghi. Il video piuttosto buffo ha fatto tre volte il giro della curia ed è rimbalzato sui telefonini di vescovi e cardinali di mezza Italia. Il commento più registrato: «Eh don Pietro è uno che può parlare liberamente».

PRECISAZIONI


La Comunità di Sant’Egidio rassicura che da parte sua non vi è «alcun attivismo nella ricerca dei cosiddetti “responsabili”, disponibili a votare la fiducia al governo Conte, con l’altrettanto presunto coinvolgimento di “alti prelati” della stessa Comunità». In una nota viene liquidata come fantapolitica questa narrazione, ribadendo piuttosto che l’impegno della comunità lungi dall’essere di natura politica è concentrato alle aree di sofferenza che ci sono nel Paese.  «Com’è noto – e sotto gli occhi di tutti – l’impegno di Sant’Egidio si concentra con maggior forza in questo momento nell’alleviare gli effetti economici e sociali della pandemia che ha impoverito milioni di italiani».

Negli Usa si propone una Chiesa del dialogo tra le differenze interne

https://cruxnow.com/news-analysis/2021/01/if-biden-is-to-heal-america-hell-need-his-church/

Bregantini: il governo non cada. L’aiuto di un partito cattolico

https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/01/18/news/bregantini-i-costruttori-salvino-il-governo-ora-serve-un-partito-cattolico-1.39786198

Enrico Dal Covolo, Amorevolezza salesiana ed emergenza educativa

Nel mese dedicato a don Bosco

L’AMOREVOLEZZA SALESIANA

di fronte all’emergenza educativa

                                    + Enrico dal Covolo

Mi introduco a questo tema con un riferimento alla situazione del nostro tempo, richiamando quei «segni dei tempi», a cui il salesiano dev’essere sempre attento nell’esercizio della propria missione educativa.

1. L’amore figura come «la punta emergente» nella graduatoria dei valori espressa da un campione di 1000 giovani italiani. Alla domanda: «Quale valore ritieni in assoluto il più importante?», il 99% dei mille ragazzi intervistati ha risposto: «L’amore. L’amore è quel valore che, unico, mi ripaga della fatica del vivere».

Al riguardo, Sergio Zavoli commentava che questa generazione è, probabilmente, la più «amorevole» che sia mai esistita. Ma poi, da persona intelligente, avanzava un dubbio: chissà se con la parola amore tutti questi giovani intendono alludere alla medesima realtà? Amore è parola abusata, persino logora…

Che cos’è in profondità questo amore, di cui i giovani di sempre (e non solo loro) sono assetati, e quelli di oggi sembrano esserlo in maniera particolare?

E’ certo che chi intende raccogliere la missione educativa di don Bosco, e in particolare l’eredità della sua amorevolezza, non può rimanere indifferente di fronte a questa domanda d’amore dei giovani d’oggi.

D’altra parte, è questo uno di quegli interrogativi (che cos’è l’amore) dinanzi ai quali chi tenta una risposta si sente subito inadeguato. Quasi gli sembra presuntuoso e ridicolo qualsiasi tentativo.

Tuttavia cercheremo di dire qualcosa, prendendo come punto di partenza qualche riflessione di E. Fromm. In quel best-seller che è L’arte di amare egli scrive: «Amore è soprattutto dare, e non ricevere. Che cosa dà una persona a un’altra? Dà se stessa, ciò che possiede di più prezioso… E dare significa fare anche dell’altra persona un essere che dà…» (E. Fromm, L’arte di amare, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 37-39). 

Possiamo commentare così questa frase: amore non è un semplice rapporto di accettazione (anche se l’accettazione reciproca è già molto: quante intolleranze, quante discordie nelle coppie, nelle famiglie, nelle comunità, perché non ci si acccetta per quello che si è, e non si accettano gli altri per quello che sono…). Secondo Fromm, infatti, amore vero è qualche cosa di più rispetto alla semplice conoscenza e accettazione reciproca: amore è quando uno, dimenticandosi di sé, fa essere di più la persona che ama.

Potremmo proseguire il discorso di Fromm, e dire – con l’apostolo Giovanni – che il vero amore (quello di chi «si dimentica di sé per far essere di più le persone che ama») è l’amore di Dio, che Gesù Cristo ci ha rivelato: «Nessuno ha un amore più grande» di Gesù, «che dà la vita per i suoi amici», cioè per ognuno di noi. Questo amore trova le sue radici nella vita stessa di Dio. Quello che Gesù ci ha rivelato, infatti, è l’amore che lega tra loro le tre Persone della Trinità divina: il Figlio non poteva rivelarci un altro amore… Ci ha rivelato la carità, perché Dio è carità.

2. Ebbene, il salesiano è chiamato a portare questo amore davanti alle attese e agli immensi bisogni degli uomini d’oggi.

La missione del salesiano, infatti, è quella di essere «segno e portatore dell’amore di Dio ai giovani, soprattutto ai più poveri» (Costituzioni, art. 2).

L’amorevolezza salesiana è esattamente questo. Lo dice l’art. 15 delle nostre Costituzioni, intitolato appunto «amorevolezza salesiana»: «Il salesiano è mandato ai giovani da Dio, che è “tutto carità”… Il suo affetto è quello di un padre, di un fratello e amico, capace di creare corrispondenza di amicizia: è l’amorevolezza tanto raccomandata da don Bosco».

E don Bosco, per aiutarci a compiere la nostra missione, ed essere «segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani», ci ha raccomandato nella celebre Lettera da Roma del 10 maggio 1884, chiamata «il poema dell’amore educativo» (rileggila nella terza Appendice delle Costituzioni): «Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati… Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani». E ancora: «Ricordatevi che l’educazione è cosa di cuore».

Allora, quando tu metti in pratica l’amorevolezza come base attiva del processo educativo e, dimenticandoti di te, fai essere di più le persone a cui sei mandato, allora succedono i «miracoli dell’amore educativo».

Perché, in negativo, occorre ammettere che una persona a cui è negata l’esperienza dell’amore e che non cresce in un ambiente in cui ci si ama, rimane compromessa nella sua crescita e in tutte le sue esperienze vitali, compresa quella della fede. Qui il commento al nostro testo costituzionale – proprio riguardo dell’art. 15 – cita Agostino, un ragazzo di Arese morto tragicamente a 16 anni, che scriveva, in forma di preghiera: «Dicono anche che l’amore è una prova della tua (di Dio) esistenza. Forse è per questo che io non ti ho incontrato: non sono mai stato amato in modo da sentire la tua presenza…» (Il progetto di vita dei Salesiani di don Bosco. Guida alla lettura delle Costituzioni salesiane, Roma 1986, p. 177, nota 2).

Ma in positivo possiamo dire che, quando uno riesce finalmente a fare l’esperienza dell’amore, allora anche atteggiamenti che sembravano irricuperabili appaiono ricuperabilissimi, e vengono di fatto ricuperati.

3. A ben guardare, Don Bosco ci propone un progetto di santità intimamente collegato con la carità pastorale, «centro e sintesi» dello spirito salesiano (Costituzioni, art. 10).

In questo progetto di santità l’unità perfetta con Cristo e la dedizione totale ai destinatari della missione non appaiono semplicemente due caratteristiche costitutive e irrinunciabili. Esse costituiscono un’unica realtà. Sono come le due facce di una stessa medaglia. L’una invera l’altra.

Sulle rive del mar di Galilea Gesù chiese a Pietro se lo amava. Alla triplice risposta affermativa di Pietro, Gesù concluse: «Se mi ami, pasci…» (cfr. Giovanni 21,17). La condizione per pascere il gregge di Cristo (e per noi, in particolare, quella porzione preziosa che sono i giovani, soprattutto i più bisognosi) è sempre la stessa: è l’innamoramento per Gesù. Sit amoris officium pascere Dominicum gregem, diceva  Agostino al termine dei suoi Sermoni sul Vangelo di Giovanni (123,5).

San Giovanni Bosco ha educato così, da innamorato di Cristo, con il cuore del buon Pastore: quel buon Pastore che dà la vita per le sue pecore (cfr. Giovanni 10,11).

In ultima analisi, educare con l’amorevolezza di Don Bosco significa essere disposti a dare la vita per i giovani e le giovani che educhiamo.

Angelo De Donatis, Ascoltare con cuore sincero

Enrico Dal Covolo, San Paolo VI e il Rotary Club

IL DISCORSO DI SAN PAOLO VI

AI SOCI ITALIANI DEL “ROTARY CLUB” (20 marzo 1965)

+ Enrico dal Covolo

Come è indicato dal titolo di questo mio breve contributo, ci occuperemo del Discorso di san Paolo VI ai Soci italiani del “Rotary Club”, tenuto il 20 marzo 1965 nell’Aula delle Benedizioni del Palazzo Apostolico.

Resta vero tuttavia – e conviene rimarcarlo – che la svolta nel dialogo tra la Chiesa e il Rotary venne anticipata da Giovanni B. Montini, Arcivescovo di Milano, il 13 novembre 1957. Montini volle includere la visita al Rotary nel programma della Missione cittadina, che egli aveva promosso per riportare Dio in tutti i settori della metropoli ambrosiana, afflitta da un’apatia spirituale sempre più diffusa.

In quell’occasione l’Arcivescovo affermò con estrema chiarezza: “Debbo con lealtà dichiararvi che in passato io ebbi molte riserve sul Rotary, frutto (questo) di ignoranza e di errore”. Così la dichiarazione esplicita dell’Arcivescovo di Milano eliminava fin d’allora ogni dubbio sulla trasparenza dei rapporti tra la Chiesa cattolica e il Rotary.

Dall’elezione al pontificato – cioè dal 21 giugno 1963 – in poi, i rapporti di Paolo VI con il Rotary si fecero più intensi. Il Papa ricevette in udienza speciale il Presidente Internazionale C.P. Miller, accompagnato dal Governatore Roberto Colagrande.

Ma certamente l’incontro più importante di Paolo VI con i Rotariani avvenne in occasione del Congresso unico dei Distretti d’Italia il 20 marzo 1965. Allora, per la prima volta, capitò che un Papa, in forma ufficiale, rivolgesse la sua parola ai Rotariani.

Molti temi cari a Paolo VI sono accennati – come vedremo – nel suo Discorso, mentre il Papa riconosce in diversi ambiti l’impegno del Rotary: la ricerca della pace, il progresso della cultura, la promozione di relazioni personali amichevoli, la valorizzazione delle professioni, la formazione e la coesione delle classi dirigenti della società, le attività artistiche, scientifiche e di beneficenza…

Tutti questi temi rientravano in realtà nel programma del pontificato di papa Montini, riassunto nella celebre massima di sant’Agostino: Sit amoris officium pascere Dominicum gregem

Tale espressione del Vescovo di Ippona venne effettivamente citata da Paolo VI nel suo primo messaggio al mondo, il 22 giugno 1963. Anticipando la dottrina dei documenti conciliari, egli intendeva esprimere così la propria sollecitudine verso pastori e laici, nella visione ampia e suggestiva di un mondo ordinato al Regno di Dio. L’apostolato dei laici, in particolare, doveva esercitarsi nell’animazione cristiana delle realtà temporali.

Alla luce di questa dottrina, si può comprendere meglio il Discorso del 20 marzo 1965, che ora rileggeremo con qualche nota di commento.

1. Dopo “una parola di saluto e di augurio… ai numerosissimi membri italiani del Rotary Club”, il Papa ricorda subito “l’incontro con i Rotariani di Milano, e la cordialità rispettosa e lieta” di cui egli si sentì circondato, quando portò alla sede del Rotary l’annuncio della Missione cittadina. Nel contempo, il Papa si rammarica “che quel Nostro colloquio non si sia dilatato in un orizzonte di più vasta ampiezza e di più sentita cordialità”. Montini sembra alludere al fatto che quell’incontro fosse rimasto un poco isolato, senza approfondimenti ulteriori, almeno durante gli anni di Milano. Ma ora che “l’intera organizzazione viene a restituirCi con gesto gentile quella Nostra visita”, prosegue il Pontefice, “amiamo confermarvi che seguiamo con interesse la vostra molteplice attività nel campo culturale, artistico, scientifico e della beneficenza”.

Di seguito il Papa accenna allo sviluppo del Rotary nel mondo, e spende parole autentiche di elogio e di ammirazione per la formula associativa, per il metodo degli incontri e per gli scopi assunti dai Rotariani. 

“Da quando l’avvocato Mr. Paul Harris fondava a Chicago, nel 1905, il Rotary, sono trascorsi sessant’anni”, annota il Pontefice; “e questo tempo è bastato a che l’istituzione si diffondesse dappertutto, e riuscisse ad interessare ceti di persone non facili a lasciarsi avvicinare in forma continuata e metodica, quali sono gli uomini d’affari, i liberi professionisti, gli esponenti della scienza e del pensiero. E’ segno che la formula associativa era buona: amicizia e cultura; e buono il metodo: il periodico incontro conviviale, coronato da un discorso informativo su qualche questione di attualità. Buoni pertanto anche gli scopi: infondere nelle diverse professioni dei soci un’esigenza di serietà e di onestà, e favorire il progresso della cultura e delle relazioni amichevoli fra gli uomini e fra le nazioni. Tutto questo è bello e vi fa onore. La vostra attività contribuisce alla formazione e alla coesione delle classi dirigenti della società; e mentre distingue e qualifica a un livello superiore al comune i Soci del Rotary, non li separa, non li oppone alle altre classi sociali, sì bene li stimola ad assumere con più avveduta coscienza le funzioni loro proprie, e li esorta a mettersi con più generosa dedizione a servizio del bene comune”.

2. Dopo questo sincero riconoscimento, inizia la seconda parte del Discorso, che forse oggi – a oltre cinquant’anni di distanza – qualcuno potrebbe accusare di “confessionalismo”, o addirittura di “integrismo”. Come abbiamo già accennato, invece, e come avremo modo di spiegare più diffusamente dopo la nostra rilettura del Discorso, anche questa seconda parte va interpretata alla luce del programma pastorale di san Paolo VI, e più in particolare dell’Enciclica Ecclesiam suam, autentica “chiave ermeneutica” del pontificato montiniano e dei documenti conciliari.

“Naturalmente”, prosegue il Papa ai Rotariani, “codesto, anche se buono e lodevole, non può essere un programma completo per dare alla vita dell’uomo il suo vero e profondo significato. Le esigenze ideali della vita superano il perimetro molto sobrio e discreto degli statuti del Rotary, che, nell’intento di associare uomini di diverse tendenze ideologiche e religiose, si astiene dall’imporre ai suoi Soci qualsiasi professione determinata di pensiero, o di fede. Cotesto aspetto del vostro programma, voi lo sapete, ha incontrato riserve da varie parti, e anni fa anche dalla Chiesa cattolica; le riserve erano fondate sul timore che la mentalità, nascente dal vostro programma, subisse l’influsso di altre ideologie, ovvero si ponesse come norma sufficiente a guidare la coscienza dell’uomo”.

Immediatamente, però, Paolo VI attenua questo rilievo, tornando a motivi di elogio nei confronti dell’Associazione. Dice infatti: “Ma fortunatamente voi qui dimostrate che la saggezza del Rotary, proprio perché aperta a varie correnti, conosce i suoi limiti; rispetta perciò il pensiero dei suoi Soci, e non rifiuta che talvolta voci autorevoli portino anche nel suo seno le testimonianze della filosofia perenne e del messaggio cristiano”.

Da parte mia – soprattutto trovandomi qui, a Bergamo – non posso passare sotto silenzio un fatto, certo ben noto a Paolo VI. Già Angelo Giuseppe Roncalli, come Nunzio apostolico a Parigi, aveva intrattenuto rapporti con alti dirigenti del Rotary in Francia, e – così san Giovanni XXIII era solito fare – ne lasciò diligente nota il 2 marzo del 1951 nel suo Diario

Poi, negli anni sessanta-settanta del secolo scorso – nel bel mezzo dei quali si colloca l’intervento di san Paolo VI ai Rotariani –, da Lercaro a Luciani furono numerosi i Vescovi che coinvolsero nelle loro iniziative le associazioni del Rotary, o che vi tennero affollate conferenze. Qualche decennio più tardi, lo stesso Arcivescovo di Buenos Aires, Jorge M. Bergoglio, venne fatto membro onorario dell’Associazione.

    3. Siamo giunti ormai alla conclusione del Discorso di san Paolo VI. Si può dire che “il peso cade a poppa”, cioè che il “gran finale” offre un’indicazione sicura per l’interpretazione dell’intero testo montiniano. 

“Noi siamo a ciò molto sensibili”, scrive il Papa alludendo alla “filosofia perenne e al messaggio cristiano”. “E senza pretendere che i Rotary Clubs abbiano a cambiare il loro stile e il loro programma, facciamo voti che sempre in essi, come è seria e alta l’espressione culturale e scientifica, così sia riguardoso il loro atteggiamento verso i valori spirituali e religiosi, e non vi sia del tutto forestiero il Maestro dell’umanità, Cristo Signore”. 

    Dopo questo passaggio centrale del Discorso, Paolo VI aggiunge un’osservazione importante per gli sviluppi successivi della dottrina sociale della Chiesa: “Nell’auspicare un buon lavoro a tutti voi”, così il Papa si congeda dai Rotariani d’Italia, “il pensiero si rivolge altresì ai vostri consoci di tutto il mondo, con i quali siete legati da vincoli di mutua estensione; anche questi rapporti di amicizia fra i rappresentanti di diversi popoli, uniti in speciali organizzazioni, possono meravigliosamente contribuire a cementare quell’unione nella concordia e nella pace, che la dottrina sociale della Chiesa e l’insegnamento pontificio inculcano con tanta insistenza e con invitta speranza”.

    4. Come si può vedere, il Discorso che abbiamo appena riletto offre un efficace “spaccato” – ancora non sufficientemente conosciuto e studiato – del magistero montiniano, anche perché molti temi caratteristici dell’impegno rotariano coincidono di fatto con la sensibilità pastorale di san Paolo VI.

    Riprenderemo – a prova e approfondimento di quello che abbiamo detto finora – l’Enciclica Ecclesiam suam del 6 agosto 1964. 

Era ormai trascorso più di un anno dalla sua elezione al Soglio petrino, ma Paolo VI non aveva avuto troppa fretta nella stesura e nella pubblicazione della sua Enciclica programmatica, mentre continuavano i lavori del Concilio Vaticano II, ai quali non voleva che la sua Enciclica si sovrapponesse. 

Solo pochi mesi più tardi, il Papa terrà il suo Discorso al Rotary.

    Un primo elemento che non deve sfuggire, fin dalle prima pagine dell’Enciclica, è la sollecitudine di Paolo VI per la pace nel mondo. Evidentemente – pur non rientrando nel piano dell’Enciclica questo tema specifico (già diffusamente trattato da san Giovanni XXIII un anno prima, al termine del suo pontificato, e molte volte con energia da vari documenti del Concilio), Paolo VI volle inserire nell’Enciclica, al termine dell’introduzione, un paragrafo dedicato all’“assiduo e illimitato zelo” della Chiesa per la pace nel mondo.

    Conviene rileggerlo. “Alla grande e universale questione della pace nel mondo”, dichiara solennemente Paolo VI, “Noi diciamo fin d’ora che Ci sentiremo particolarmente obbligati a rivolgere non solo la Nostra vigilante attenzione, ma l’interessamento altresì più assiduo ed efficace, contenuto, sì, nell’ambito del Nostro ministero, ed estraneo perciò ad ogni interesse puramente temporale e alle forme propriamente politiche, ma premuroso di contribuire all’educazione dell’umanità a sentimenti e a procedimenti contrari ad ogni violento e micidiale conflitto. E favorevoli ad ogni civile e razionale pacifico regolamento dei rapporti fra le nazioni; e sollecito parimenti di assistere – con la proclamazione dei principi umani superiori, che possano giovare a temperare gli egoismi e le passioni donde scaturiscono gli scontri bellici – l’armonica convivenza e la fruttuosa collaborazione fra i popoli; e d’intervenire, ove l’opportunità Ci sia offerta, per coadiuvare le parti contendenti a onorevoli e fraterne soluzioni. Non dimentichiamo infatti essere questo amoroso servizio un dovere, che la maturazione delle dottrine da un lato, delle istituzioni internazionali dall’altro, rende oggi più urgente nella coscienza della Nostra missione cristiana nel mondo, ch’è pur quella di rendere fratelli gli uomini, in virtù appunto del regno di giustizia e di pace, inaugurato dalla venuta di Cristo nel mondo” (17).

    Di per sé il tema della pace – in un’Enciclica dichiaratamente limitata “ad alcune considerazioni di carattere metodologico per la vita propria della Chiesa” (18) – non poteva che rimanere tangenziale. Ma la citazione riportata dimostra in maniera eloquente la sollecitudine per la pace, che accomuna la dottrina montiniana e il programma del Rotary.

    Come è noto, l’Enciclica si articola poi in tre parti fondamentali. La prima parte è dedicata all’“autocoscienza” che la Chiesa deve costantemente approfondire; la seconda al “rinnovamento” della Chiesa stessa; la terza, infine, al “dialogo”. 

    Soprattutto quest’ultimo tema caratterizza l’intero pontificato montiniano, mentre spiega in maniera esauriente i fondamenti del Discorso al Rotary.

    Nell’Ecclesiam suam Paolo VI disegna i “cerchi concentrici” del dialogo tra la Chiesa e il mondo, di cui i famosi e inediti viaggi apostolici sono la dimostrazione pratica. Il primo, immenso cerchio del dialogo, si configura con tutto ciò che è umano. C’è poi “un altro cerchio, immenso anche questo, ma da noi meno lontano”, ed è il dialogo con i credenti in Dio. Il terzo cerchio è quello del dialogo con i fratelli cristiani separati. Infine, il Papa torna a parlare tout court del dialogo all’interno della Chiesa.

    Nella prospettiva che qui ci interessa, il primo cerchio del dialogo è il più importante, e il viaggio apostolico che meglio lo rappresenta è quello compiuto da Paolo VI nel 1965, per visitare l’Assemblea delle Nazioni Unite nel ventesimo anniversario della sua fondazione.  

Rimane celebre il Discorso del 4 ottobre, nel quale il Papa presenta la Chiesa bimillenaria, e pure se stesso, come “esperti in umanità”. 

Qui i temi sviluppati nel “primo cerchio del dialogo” dell’Ecclesiam suam, e poi ripresi in rapida sintesi nel Discorso ai Rotariani del 20 marzo 1965, sono ulteriormente esplicitati, e giungono a valorizzare in massimo grado quel momento di incontro “semplice e grande” del 4 ottobre 1965. 

In nome dei morti, dei poveri e dei sofferenti, il Papa parla della giustizia, che deve regolare le trattative e le relazioni fra i popoli. Afferma con decisione: “Voi siete un’Associazione… La vostra vocazione è quella di affratellare non solo alcuni, ma tutti i Popoli. Difficile impresa? Senza dubbio. Ma questa è l’impresa; questa la vostra nobilissima impresa”. 

E finalmente giunge il grido di pace di Papa Montini: “Non più gli uni contro gli altri, non più, non mai!… Ascoltate le parole di un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: ‘L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità’… Non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità”.

“Dicendo queste parole”, prosegue più avanti il Papa, “Ci accorgiamo di far eco a un altro principio costitutivo di questo Organismo, cioè il suo vertice positivo: non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri… Voi promuovete la collaborazione fraterna dei Popoli. Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l’appoggio concorde e ordinato di tutta la famiglia dei Popoli, per il bene comune e per il bene dei singoli”.

Appare così evidente la sintonia profonda con cui il Papa guarda ai principi costitutivi dei due organismi a cui ci riferiamo, assumendo come “chiave ermeneutica” l’Enciclica Ecclesiam suam: le parole di san Paolo VI valgono per l’Organizzazione delle Nazioni Unite come per i Rotary Clubs, nelle rispettive competenze degli organismi stessi.

5. Non possiamo concludere, tuttavia, senza rilevare che a tutte e due le organizzazioni il Papa volle portare esplicitamente l’annuncio di Cristo, pur rispettando la laicità di entrambe. Anche nel profondo rispetto della “sana laicità” dei valori intramondani, a san Paolo VI urge pur sempre richiamare l’Assoluto, la pienezza del bene. I Padri della Chiesa, a lui tanto cari, parlerebbero a questo proposito dei “semi” del Verbo di verità, sparsi in qualunque cosa vi sia di buono e di autenticamente umano. Ma solo il Verbo di verità – Gesù Cristo Signore – porta a maturazione questi medesimi “semi”, che lo Spirito sparge nel mondo.

    Come Paolo VI ammoniva i Rotariani perché non fosse a loro “del tutto forestiero il Maestro dell’umanità, Cristo Signore”, così nel suo Discorso alle Nazioni Unite il Papa conclude con un messaggio altrettanto chiaro: “L’edificio della moderna civiltà”, afferma con decisione, “deve reggersi su principi spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principi di superiore sapienza, essi non possono che fondarsi sulla fede in Dio. Il Dio ignoto, di cui discorreva nell’areopago san Paolo agli Ateniesi? Ignoto a loro, che pur senza avvedersene lo cercavano e lo avevano vicino, come capita a tanti uomini del nostro secolo? Per noi, in ogni caso, e per quanti accolgono la Rivelazione ineffabile, che Cristo di Lui ci ha fatta, è il Dio vivente, il Padre di tutti gli uomini”.

    6. Siamo giunti così al punto di arrivo. 

In ogni suo intervento, Paolo VI – che pure ha sempre dichiarato il suo rispetto profondo, sinceramente aperto al dialogo, verso i non credenti e verso i credenti di altre religioni, verso gli Ebrei e i fratelli cristiani separati – non ha mai cessato di mettere al centro dei vari cerchi del dialogo Gesù Cristo e la sua Chiesa.

    Si deve parlare anzi del cristocentrismo – non certo di un preteso, quanto errato, “ecclesiocentrismo” – di san Paolo VI. La parola di sant’Ambrogio risuonava sempre nella mente e nel cuore di questo Arcivescovo di Milano, divenuto Papa e santo: Omnia Christus est nobis!

    “Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivo!” – egli avrebbe confessato, con accenti appassionati, il 29 novembre 1970 a Manila, cinque anni dopo l’incontro con i Rotariani –. “Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l’amico della nostra vita… Gesù, il Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra!”.

    Inseguendo la spiritualità del cuore di Papa    Montini, nella linea giovannea e agostiniana della sua dottrina, possiamo affermare che la vera conoscenza viene dalla fede e dall’amore; invece, quando la ragione si avvita su sé stessa, non è più in grado di approdare alla percezione del mistero.

    Questa affermazione – che ho appena fatto, e che riecheggia intenzionalmente il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI – trova un anticipo ricco di significati nelle parole, che ora cito, di un grande amico ed estimatore di Paolo VI, mons. Pietro Rossano. Lo ricordo, anche perché egli fu tra i miei predecessori nella guida dell’Università Lateranense. Queste parole hanno un sapore indubbiamente “montiniano”: “Solo la conoscenza accompagnata da affetto raggiunge la verità; la parola senza amore è menzogna. E’ questo il mio principio per il dialogo con le religioni”.

    Ecco: la centralità affettuosa – senza proselitismo alcuno – di Cristo, Parola del Dio vivente, ha illuminato costantemente la vita e l’insegnamento di Paolo VI, in piena consonanza con il magistero conciliare: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo”, dichiara la Costituzione Gaudium et Spes; e prosegue, poco più avanti: “Ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia” (n. 22). 

E mons. Rossano – un biblista attento, che i vicini e i lontani chiamavano con ammirazione, e forse con una punta di invidia, Monsignor Dialogo – aggiungeva ancora: “I valori esterni della cultura sfumano in un silenzio, che sarebbe infinito e mortale, se non ci fosse la Parola di Dio”, anche quando essa è collocata “nel chiaroscuro in cui la contiene la Bibbia”. 

“Gesù Cristo!”, proseguiva da parte sua Paolo VI a Manila, “tu sei il rivelatore del Dio invisibile, tu sei la via, la verità, la vita!”.

    Immersi nel chiaroscuro dell’esistenza terrena, noi restiamo pur sempre di fronte all’interrogativo cruciale, posto duemila anni fa dallo stesso Gesù di Nazaret: “Voi, chi dite che io sia?”.

    La risposta a questa domanda – la risposta che stava nel cuore di Paolo VI, mentre si rivolgeva ai Clubs del Rotary, come pure all’Assemblea delle Nazioni Unite – la conosciamo molto bene. E’ la risposta definitiva dell’apostolo Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”.   

La rada

C’è una spiaggia lungo la rada

dove un tiepido sole splende

triste in questo novembre.

Lì tu celi e riveli il tuo mistero

e domandi sempre e non cerchi

più risposte. Solo guardi il mare

che brilla e si perde nella foschia

lontana e non hai più domande

e domandi sempre.

Poesia tratta da: https://gpcentofanti.altervista.org/piccolo-magnificat-un-canto-di-tanti-canti/

Franca Giansoldati: Francesco, lasciarsi portare oltre

di Franca Giansoldati, Il Messaggero

Città del Vaticano – L’Epifania come chiave per migliorare se stessi alla luce della fede. Papa Francesco torna a celebrare a San Pietro, dopo la sciatalgia che lo aveva costretto a rinunciare ai riti del 31 dicembre e di Capodanno, per far rivivere il racconto evangelico della adorazione dei Magi a Betlemme. Nella omelia che pronuncia in una basilica praticamente deserta a causa delle restrizioni anti Covid, affronta il grande tema dell’affidamento a Dio. «Per adorare il Signore bisogna “vedere” oltre il velo del visibile, che spesso si rivela ingannevole. Erode e i notabili di Gerusalemme rappresentano la mondanità, perennemente schiava dell’apparenza e in cerca di attrattive» dice Francesco sottolineando che l’apparenza «dà valore soltanto alle cose sensazionali, alle cose che attirano l’attenzione dei più. D’altro canto, nei Magi vediamo un atteggiamento diverso, che potremmo definire realismo teologale: esso percepisce con oggettività la realtà delle cose, giungendo finalmente alla comprensione che Dio rifugge da ogni ostentazione».
La fede spiega che va declinata in un cammino esistenziale capace di modificare dal di dentro le persone e renderle migliori. «Si diventa adoratori del Signore mediante un cammino graduale. L’esperienza ci insegna, ad esempio, che una persona a cinquant’anni vive l’adorazione con uno spirito diverso rispetto a quando ne aveva trenta. Chi si lascia modellare dalla grazia, solitamente, col passare del tempo migliora: l’uomo esteriore invecchia – dice San Paolo –, mentre l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno disponendosi sempre meglio ad adorare il Signore».
Da questo punto di vista, i fallimenti, le crisi, gli errori possono diventare esperienze istruttive, spiega il Papa, visto che «non di rado servono a renderci consapevoli che (…) col passare del tempo, le prove e le fatiche della vita – vissute nella fede – contribuiscono a purificare il cuore, a renderlo più umile e quindi più disponibile ad aprirsi a Dio. Come i Magi, anche noi dobbiamo lasciarci istruire dal cammino della vita, segnato dalle inevitabili difficoltà del viaggio. Non permettiamo che le stanchezze, le cadute e i fallimenti ci gettino nello scoraggiamento. Riconoscendoli invece con umiltà, dobbiamo farne occasione per progredire verso il Signore Gesù. La vita non è una dimostrazione di abilità, ma un viaggio verso Colui che ci ama: guardando al Signore, troveremo la forza per proseguire con gioia rinnovata»

Consiglio episcopale diocesi di Roma: La domenica della Parola

http://www.diocesidiroma.it/larte-dellascolto-il-messaggio-del-consiglio-episcopale-in-occasione-della-domenica-della-parola/

Movimento dei focolari

https://www.focolare.org/chi-siamo/

Maria Immacolata e il cammino dei neocatecumenali

https://neocatechumenaleiter.org/it/messaggio-di-kiko-in-occasione-del-61-mo-anniversario-della-apparizione-della-vergine-maria-solennita-dellimmacolata-concezione-madrid-8-dicembre-2020/

Il pellegrinaggio della Vergine della Medaglia miracolosa giunge a Napoli

https://www.acistampa.com/story/il-pellegrinaggio-della-vergine-della-medaglia-miracolosa-prosegue-in-campania-15980

Madonna del Divino Amore

O bella Verigine Immacolata MAria, Madre di Dio e Madre nostra, o Madonna del Divino Amore, a te rivolgiamo la nostra fiduciosa preghiera per le grazie di cui abbiamo bisogno. Tutto tu ci puoi ottenere, tu che mieritasti di sentirti salutare dall’angelo di Dio: Ave, gratia plena!.
S’, o Maria, veramente tu sei piena di grazia, perchè il tuo celeste Sposo, lo Spirito Santo, col Suo divino amore, fin dalla tua concezione è venuto in te, ti ha preservata dalla colpa e conservata immacolata; è ritornato sopra di te nell’Annunciazione e t’ha resa Madre di Gesù lasciando intatta la tua verginità; su te si è posato ancora nel giorno della Pentecoste, riempiendoti dei suo sette doni, sicchè Tu sei tesoriera e fonte delle divine grazie.
Tu, dungue, Madre dolcissima del Divino Amore, ascolta le nostre suppliche: grazia Madonna!
Assicura all’Italia e al mondo la pace, fa trionfare il tuo amore, proteggi il Papa, raduna nell’unità perfetta voluta dal tuo divin Figlio tutti i cristiani, illumina con la luce del Santo Vangelo coloro che ancora non credono, converti a Dio i poveri peccatori, dona anche a noi la forza per piangere i nostri peccati e vincere d’ora in poi le tentazioni, rischiaraci la mente per seguire sempre la via del bene, aprici alfine, o Maria, quando Dio ci chiamerà, la porta del cielo.
Ed intanto, tu che ci vedi gementi e piangenti in questa valle di lacrime, soccorrici nelle nostre miserie, conservaci la rassegnazione nelle inevitabili croci della vita, guarisci, o Madre di grazia, le nostre infermità, ridona la salute ai malati che a te ricorrono.
Solleva o Maria, e libera dalle loro pene le anime sante del Purgatorio, specialmente quelle affidate all’Opera dei Suffragi del Santuario e le vittime di tutte le guerre.
Guarda maternamente e proteggi le opere del tuo Santuario del Divino Amore, e a noi tuoi figli, concedi, dolcissima Madre, di poterti sempre lodare, e che il nostro cuore sia tanto acceso del Divino Amore in vita, da poterne godere in eterno nel Cielo. Amen.

Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.

Ave Maria, grazia!

http://www.santuariodivinoamore.it/

Guido Oldani, La chiamata (II Domenica del Tempo ordinario, anno B)

Gv 1,35-42
Videro dove dimorava e rimasero con lui.
Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

giovanni è la campana dell’annuncio

ai due, già incuriositi dall’agnello

nella terra d’ulivo e dell’arancio.

si aggiungerà il fratello pescatore

ed il figlio dell’uomo poi lo arruola

e subito gli dice tu sei pietro

che in effetti a vederlo sembra un sasso,

fra la gente di niente, quasi vetro.

Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto

Bob Dylan, Knockin’ on heaven’s door

Bussando, Bussando, alle porte del paradiso. Ecco, sempre più, la vita del cristiano.

Francesco Marabotti, Questo momento storico

http://www.darsipace.it/2021/01/11/9349/

Le donne possono accedere all’accolitato

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-01/papa-francesco-motu-proprio-lettorato-accolitato-aperti-donne.html

Carlo Carretto: Racconti di un pellegrino russo, presentazione

Card. Ladaria: Oeconomicae et pecuniariae quaestiones

Carlo Carretto, L’eucaristia

https://youtu.be/x-8eSkRzb4M 

Il Triduo pasquale, un’unica celebrazione

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2019-04/giovedi-santo-apertura-triduo-pasquale.html

Carlo Carretto, Che bello, grazie

Vi racconto un’episodio della mia vita. Preparavo la tesi di laurea e stavo tornando a Spello per intervistare Carlo Carretto. Ero giunto ad una tappa decisiva della mia ricerca di Dio e molto più che mere notizie cercavo Lui. Fratel Carlo era stato di grande aiuto in quel percorso. Circa dieci anni prima avevo letto il suo Il Dio che viene ma solo ora cominciavo ad intuire che in quel libro parlava della capacità del Signore di sposare la persona, facendola innamorare carnalmente, come e mille volte più di quanto si penserebbe che solo una ragazza possa. Andavo dunque da Carretto con quesiti di storia e politica cristiana del secondo dopoguerra ma nel profondo del cuore con una domanda intensissima sull’unione sponsale con Dio. Venivo da Roma col treno e poi a piedi, studente senza una lira, tutto affidato al Signore. Ricordavo le volte precedenti in cui ero stato a Spello e i tanti doni ricevuti ascoltando Carlo. L’ultima ero venuto con due valigione per stare lì alcuni giorni di ritiro spirituale. Salivo a piedi la strada verso l’eremo Giacobbe e raggiunta una curva mi pareva di essere finalmente arrivato ma dopo la svolta appariva più su un’altra svolta e la salita fatta in precedenza sempre in macchina portato da qualcuno ora non finiva mai. E pensavo che così era la mia vita. Ti sembra sempre di giungere alla “Risposta” ma dietro l’angolo vi è sempre un’ulteriore curva. Ma forse ora ero davvero vicino alla meta. Invece giunto all’eremo mi dicono che Carretto è ricoverato all’ospedale di Monteluce a Perugia, in fin di vita. Corro coi pochi soldi rimasti a Perugia e di nuovo a piedi un’altra salita. Che speranza quel nome Monteluce, per Carlo e per me. Arrivo finalmente e davanti alla sua camera vi è solo una donna che l’assiste. Mi dice che posso entrare. Carlo sta morendo ma né lei né lui mi dicono di stare poco, di non stancarlo… Lui mi accoglie con un sorriso sereno, lo saluto soltanto ed esco. Dico alla donna che vorrei portare a Carlo dei dolcetti ma forse non è il caso, forse invece potrei portargli una candela. In un suo libro suggeriva di accendere una candela nella sofferenza, immagine tanto significativa. La donna acconsente ed io, senza una lira, giro a piedi tutti i negozi di Perugia per cercare una candela meravigliosamente decorata. Una preghiera per la guarigione di Carlo ed un segno ora anche per me della felicità sconfinata, anche carnale, che Dio forse può donare. Non trovo questa candela, vedo al più i ceri che indicano la presenza dell’Eucaristia nel tabernacolo. Continuo a cercare. Non risolvendo nulla vengo a sapere di una cereria fuori Perugia. Li contatto per telefono per sapere se hanno quello che cerco. Rispondono positivamente. Ma io non ho una lira, chiedo loro se mi faranno un prestito e spiego perché devo avere subito la candela. Accettano. Corro verso la cereria. Proprio allora ho un’illuminazione: non devo prendere una candela meravigliosa devo prendere quella da tabernacolo. Ho paura della “fregatura”, ossia che Dio non dia la felicità. Ma in qualche modo intuisco che invece quella è la via, nuda, umile e nascosta, della felicità piena. Non ci sarà la delusione. Risalgo correndo verso Monteluce con un dolore per Carlo morente e per quel segno concomitante anche di passaggi non come mi aspettavo ma con una pace, una speranza, una luce, nuove. Per lui e per me. Do la candela alla donna, lui dormiva da solo nella stanza, lo vedo e me ne riparto per Roma. Anni dopo tornando a Spello vicino alla sua tomba trovo una sola candela, da tabernacolo.

Enrico Dal Covolo, Origene e il Magnificat

L’interpretazione origeniana dell’opera di Luca1
rimane documentata da 39
omelie, a noi pervenute nella traduzione latina di Girolamo. Il testo originale, in
lingua greca, è andato perduto. In ogni caso, la traduzione geronimiana rap-
presenta il più antico commento del terzo Vangelo giunto fino a noi – per
quanto, come vedremo, in maniera assai lacunosa. È andato perduto anche il
Commento origeniano a Luca, composto in 15 libri e menzionato dallo stesso
Girolamo, mentre delle 17 omelie sugli Atti degli apostoli resta solo un fram-
mento della quarta.
H. Crouzel, F. Fournier e P. Périchon, sulla scorta dell’edizione berolinense
di M. Rauer (19592
), hanno curato per le Sources Chrétiennes (1962; 19982
) il
testo delle 39 omelie2
, aggiungendo 91 frammenti greci provenienti da antichi
commenti e catene. Qui interessano i frammenti 25-28, dei quali ci occuperemo,
almeno in parte3
. Prima di iniziare questa lectio del commento origeniano al Magnificat di
Maria, conviene premettere qualche notizia essenziale sulla datazione del ciclo
delle omelie lucane, come pure sulla traduzione latina di Girolamo4
.
Ebbene, non esiste alcuna certezza circa una datazione precisa: tanto per
esemplificare, P. Nautin assegna le omelie al triennio 239-241, mentre F.
Fournier le colloca fra il 233 e il 234. In verità, non siamo neppure certi che il testo a noi pervenuto – mediamente assai più stringato rispetto alle omelie ori-
geniane che noi conosciamo – corrisponda alle omelie effettivamente pronun-
ciate dall’Alessandrino. Potrebbe trattarsi semplicemente di appunti e di note a
uso del predicatore (così soprattutto H.-J. Sieben) 5
. Quanto alla traduzione
geronimiana, è nota la circostanza a cui essa si riconduce.
Nel 391, pochi anni prima di morire, Ambrogio pubblica le sue omelie su
Luca, che dipendono evidentemente dal testo origeniano. Girolamo lo viene a
sapere mentre si trova a Betlemme con Paola e Eustochio, che lo hanno seguito
nel suo ritiro. Sollecitato dalla richiesta delle due donne, si mette a tradurre (con
scarso entusiasmo, egli dice: ma forse questo è semplicemente un tópos retorico)
il testo di Origene, certo per smascherare quello che egli ritiene essere «il plagio
ambrosiano», ma soprattutto per offrire qualche cosa di meglio rispetto alle
omelie di Ambrogio, che – a suo dire – «giocava con le parole, mentre le idee
dormivano»6
.
Il confronto con i frammenti greci pervenuti – dove ciò sia possibile –
attesta che si tratta di una versione sostanzialmente fedele, nonostante le riserve
espresse da Rufino7
.
Il commento al cosiddetto Vangelo dell’infanzia e ai due capitoli successivi
del terzo Vangelo, fino al discorso programmatico di Nazaret (Luca 1,1-4, 27),
occupa la sezione più cospicua delle omelie a noi pervenute: addirittura 33 su 39!
Tuttavia non mancano lacune neanche in questa sezione superstite.
In particolare, per quanto riguarda il Magnificat di Maria, possediamo solo
il commento alla prima parte, da: L’anima mia magnifica il Signore (1, 46), fino
a: Ha spiegato la potenza del suo braccio (1, 51)8
.
Procediamo finalmente alla nostra lectio, riportando integralmente la breve
omelia a noi pervenuta, e accompagnandola via via con un sobrio commento su
alcuni temi principali evocati dal testo.
I temi principali sono i seguenti: il parallelismo antitipico Eva-Maria;
l’antropologia origeniana e l’anima dell’uomo, «immagine dell’immagine»; la
corruzione dell’immagine e il «bestiario» di Origene; l’umiltà e la grandezza di
Maria. Il parallelismo antitipico Eva-Maria9
.Prima di Giovanni profetizza Elisabetta, prima della nascita del Signore e Salvatore
profetizza Maria. E come il peccato ha cominciato dalla donna e poi giunse fino
all’uomo, così pure il principio della salvezza ha preso inizio dalle donne, affinché
anche le altre donne, messa da parte la debolezza del sesso, imitassero la vita e la
condotta delle sante, soprattutto quelle che sono descritte ora nel Vangelo10
.
Nei Padri del secondo-terzo secolo è ricorrente il parallelismo antitipico tra
Adamo ed Eva, da una parte, e Gesù e Maria, dall’altra. «Il nodo della disob-
bedienza di Eva», scrive in particolare Ireneo nel terzo libro Contro le eresie, «ha
avuto la sua soluzione con l’obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva aveva
legato con la sua incredulità, la vergine Maria l’ha sciolto con la sua fede»11. Il
vescovo di Lione ritorna sullo stesso tema anche nel quinto libro della medesima
opera, là dove – volendo esplicitare in massimo grado la corrispondenza
antitetica tra la disobbedienza di Adamo e l’obbedienza di Cristo – ridisegna,
dopo Giustino e prima di Tertulliano e di Origene, i termini fondamentali del
confronto antitipico Eva-Maria. «Il Cristo», egli scrive, «annullò la seduzione
con la quale era stata malamente sedotta Eva… E come Eva fu sedotta dal
discorso di un angelo, a tal punto da allontanarsi da Dio trasgredendo la sua
parola, così Maria fu istruita dall’annuncio di un angelo, a tal punto da portare
nel grembo Dio, obbedendo alla sua parola. E come quella si lasciò sedurre e
disobbedì a Dio, questa si lasciò persuadere a ubbidire a Dio, affinché la vergine
Maria divenisse l’avvocata della vergine Eva»12
.
Così – nello stesso modo in cui il vescovo di Lione parla della ‘rica-
pitolazione’ di tutti in Cristo, rispetto a Adamo – egli parla anche della ‘ricirco-
lazione’ (cioè della ‘rimessa in circolo’) della storia della salvezza in Maria,
rispetto a Eva13
.
Come si può vedere, già in Ireneo il parallelismo antitipico Eva-Maria
appare definitivamente strutturato nelle sue componenti fondamentali. Integrato dal successivo apporto tertullianeo14
, esso si presenta secondo
questo schema sintetico:
Eva Maria
vergine vergine
crede al demonio; crede a Gabriele;
accoglie in sé accoglie in sé
il verbum diaboli il verbum Dei
aedificatorium mortis; structorium vitae;
reca perdizione; reca salvezza;
concepisce concepisce
Caino, Cristo,
malus frater. bonus frater.
L’allusione di Origene al parallelismo antitipico, che pure rientra in questo
alveo tradizionale, si sviluppa qui in maniera autonoma, approdando a un’esor-
tazione morale rivolta alle ‘altre donne’, le quali – sexus fragilitate deposita,
secondo il tópos ben noto della debolezza femminile15
– dovranno imitare la vita
e la condotta di Maria e di Elisabetta.

  1. Appunti di antropologia origeniana: l’anima dell’uomo, ‘immagine dell’im-
    magine’.
    Riprendiamo a questo punto la lettura dell’omelia dal suo primo paragrafo.
  2. (…) Vediamo dunque la profezia della Vergine. Dice: Magnifica l’anima mia il
    Signore, e ha esultato il mio spirito in Dio mio salvatore. Due cose, l’anima e lo
    spirito, compiono una duplice lode. L’anima celebra il Signore, lo spirito celebra Dio:
    non perché la lode del Signore sia diversa da quella di Dio, perché colui che è Dio è
    anche Signore, e colui che è Signore è anche Dio.
  3. Ci si domanda in che modo l’anima possa magnificare il Signore. Se infatti il
    Signore non può ricevere né accrescimento né diminuzione, e ciò che è è, per qual
    motivo ora Maria dice: “Magnifica l’anima mia il Signore”?
    Se io considero che il Signore e Salvatore “è l’immagine di Dio invisibile”, e se vedo che
    la mia anima è fatta “a immagine del Creatore” per essere l’immagine dell’immagine
    (infatti la mia anima non è proprio l’immagine di Dio, ma è stata creata a
    somiglianza della prima immagine), potrò allora capire in questi termini: alla maniera

di coloro che dipingono immagini e, per esempio, una volta scelto il volto di un re,
rivolgono la loro abilità artistica ad esprimere la somiglianza con il modello scelto; così
ciascuno di noi, formando secondo l’immagine di Cristo la propria anima, fa
l’immagine più grande o più piccola, e talvolta la fa trascurata e sporca, talaltra chiara
e luminosa, e rispondente all’effigie del modello originale.
Quando dunque avrò fatto grande l’immagine dell’immagine, cioè la mia anima, e
l’avrò resa grande con le opere, con il pensiero, con la parola, allora l’immagine di Dio
è resa grande, e lo stesso Signore, di cui l’anima è immagine, è magnificato nella nostra
anima. E come il Signore cresce nella nostra immagine, così, se saremo stati peccatori,
egli diminuisce e decresce16
.
Come si vede, riprendendo la distinzione lucana tra anima e spirito,
Origene si limita a precisare che si tratta di una duplice lode – anima praedicat
Dominum, spiritus Deum –, che però non differisce nella sostanza: infatti essa è
rivolta allo stesso Signore e Dio. Personalmente, non colgo in questa enuncia-
zione origeniana nessuna allusione – che invece alcuni commentatori intrave-
dono – al progresso tra anima e spirito17
.
Più complesso è il discorso che occupa per intero il secondo paragrafo
dell’omelia, nel quale l’Alessandrino intende rispondere a una classica quaestio:
in che modo – egli si chiede – un’anima può ‘magnificare’, cioè ‘rendere grande’
il Signore? Di per sé, infatti, Dio non può essere né aumentato né diminuito.
L’obiezione consente a Origene di richiamare la celebre ‘dottrina dell’im-
magine’ e, più in generale, i fondamenti della sua concezione antropologica,
secondo cui l’anima dell’uomo è ‘immagine dell’immagine’.
La dottrina è ben nota18
. In questo paragrafo dell’omelia la ritroviamo
esposta in sintesi efficace. Ne vengono poi esplicitate (soprattutto nel paragrafo
successivo) le conseguenze morali.
Propriamente parlando, afferma Origene, l’immagine del Dio invisibile è
soltanto il Signore e Salvatore. L’anima dell’uomo, che è fatta a immagine del
Creatore, è solo «immagine dell’immagine», perché è creata a immagine della
prima immagine, che è appunto il Verbo di Dio. Questa immagine del Verbo
cresce nell’anima del credente, o diminuisce, a seconda del suo comportamento
morale. Quanto più il credente, praticando le virtù, fa crescere la propria

somiglianza con Cristo – che è «la Virtù tutta intera, animata e vivente
(émpsuchos kaì zôsa)
19
» –, tanto più l’immagine si ingrandisce; e viceversa.
Capita la stessa cosa a un pittore, quando dipinge – tanto per fare un
esempio – il ritratto di un re. A seconda della sua capacità, l’artista può realiz-
zarne il volto in maniera più o meno somigliante. Così il credente, che forma la
sua anima a immagine di Cristo, può fare più grande o più piccola l’immagine;
addirittura, può farla slavata e sporca, oppure – al contrario – chiara, luminosa,
in tutto corrispondente al suo Modello.
Quando igitur grandem fecero imaginem imaginis, id est animam meam,
conclude perentoriamente Origene, tunc imago Dei grandis efficitur, et ipse
Dominus, cuius imago est, in nostra anima magnificatur. Et quomodo crescit
Dominus in nostra imagine, sic, si peccatores fuerimus, minuitur atque decrescit20
.

  1. La corruzione dell’immagine: il ‘bestiario’ di Origene.
    Il discorso prosegue – declinato soprattutto ‘in negativo’ – nel seguente
    paragrafo, il terzo dell’omelia. Leggiamo:
  2. Detto in altri termini, il Signore certamente non diminuisce né decresce, ma siamo noi
    che, invece di indossare l’immagine del Salvatore, ci rivestiamo di altre immagini; al posto
    dell’immagine del Verbo, della sapienza, della giustizia e di tutte le altre virtù, assumiamo
    la forma del diavolo, tanto che si può dire di noi: “Serpenti, generazione di vipere”. Ma
    indossiamo anche la maschera del leone, del drago e delle volpi quando siamo velenosi,
    crudeli, astuti; e anche quella del caprone, quando siamo alquanto proni alla libidine.
    Mi ricordo di aver detto un giorno – spiegando il Deuteronomio in quel passo, in cui
    sta scritto: “Non fate alcun ritratto di uomo o di donna, nessun ritratto di animale”,
    perché la legge è spirituale – che alcuni formano un’immagine di uomo, altri di donna;
    alcuni si rendono simili agli uccelli, altri ai rettili e ai serpenti; altri finalmente
    coltivano la loro somiglianza con Dio. Chi ha letto anche quella spiegazione compren-
    derà in qual modo debbano essere comprese queste parole21
    .
    Si trova qui enunciata una dottrina che ricorre spesso nelle opere del-
    l’Alessandrino: secondo il pensiero di Origene, i peccati danno all’anima l’imma-
    gine di una bestia sgradevole.
    Qui e altrove egli fornisce una ricca tipologia, nella quale a un certo tipo di
    vizio corrisponde un certo genere di animale: così nell’anima del peccatore
    l’immagine di quell’animale prende il posto dell’immagine del Verbo22
    .

Al contrario, afferma Origene nella sua terza omelia Su Ezechiele, «se noi
siamo buoni e mansueti, raddoppiamo il nome dell’uomo, in modo che egli non
è più semplicemente un uomo, ma un uomo-uomo. Quando un uomo è uomo
solo all’esterno, perché al suo interno è un uomo-serpente, allora non c’è tra noi
un uomo-uomo, ma soltanto un uomo. Quando invece, in verità, anche l’uomo
interiore si conserva secondo l’immagine del Creatore, allora nasce un (vero)
uomo, e in questo modo avviene che un uomo è due volte uomo, secondo
l’immagine esteriore e secondo quella interiore»23
.
L’aspetto originale di HLc 8 consiste in un più esplicito raccordo tra le varie
immagini bestiali e l’immagine del diavolo. In qualche maniera – sembra dire
qui Origene – la forma diaboli presiede al ‘bestiario’, e si incarna via via nelle
fiere successivamente elencate. Tale raccordo è espresso in questi termini:
Diaboli formam assumimus, ut dicatur de nobis: serpentes, generatio viperarum. Sed
et leonis personam induimus et draconis et vulpium…24
.
Quanto poi all’autocitazione di Origene, con riferimento all’esegesi di
Deuteronomio 4,16-17 (Ne faciatis omnem similitudinem…), si tratta di un
commentario perduto, come perdute sono le 13 omelie sul Deuteronomio
menzionate da Girolamo.

  1. L’umiltà di Maria.
    Esaurita finalmente la risposta alla quaestio affacciata – cioè per quale
    motivo Maria possa dire: ‘Magnifica l’anima mia il Signore’ –, Origene ritorna al
    commento puntuale della pericope. E scrive:
  2. In primo luogo l’anima di Maria magnifica il Signore; in secondo luogo il suo spirito
    esulta in Dio. Infatti, se prima non siamo cresciuti, non possiamo esultare.
    “Perché ha guardato”, dice, “all’umiltà della sua serva”. A quale umiltà di Maria ha
    guardato il Signore? Che cosa aveva la madre del Signore di umile e di basso, lei, che
    portava nel suo grembo il Figlio di Dio? Perché quando dice: “Ha guardato all’umiltà
    della sua serva”, è come se dicesse: “Ha guardato alla giustizia della sua serva, ha
    guardato alla temperanza, ha guardato alla sua fortezza e alla sua sapienza”. È giusto
    infatti che Dio guardi alle sue virtù. Qualcuno potrebbe rispondere e dire: “Capisco che
    Dio guardi alla giustizia e alla sapienza della sua serva; ma non è sufficientemente
    chiaro perché guardi proprio all’umiltà”.
    Chi domanda queste cose consideri che proprio nelle Scritture l’umiltà è considerata
    una delle virtù.
  1. Dice il Salvatore: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo
    per le anime vostre”. E se vuoi sapere il nome di questa virtù, cioè come essa è
    chiamata anche dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella
    stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótes. Noi possiamo peraltro
    definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si
    abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, “nella condanna del diavolo”
    – il quale appunto ha cominciato con il gonfiarsi di superbia –; l’Apostolo dice: “Per
    non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo”.
    “Ha guardato l’umiltà della sua ancella”: Dio mi ha guardato – dice Maria – perché
    sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento25
    .
    La nuova quaestio che Origene affronta lascia capire tutta la resistenza della
    mentalità ellenica ad accogliere l’umiltà come una virtù. Le quattro virtù
    cardinali riconosciute dai Greci erano la giustizia, la temperanza, la fortezza e la
    prudenza, chiamata qui sapientia (phrónesis o sophía nel testo originale? Non lo
    sappiamo).
    Perché dunque lo sguardo di Dio si rivolge proprio a una virtù, che non è
    contemplata nel catalogo cardinale dei Greci?
    Origene ha buon gioco a richiamare il Vangelo, e in ispecie la figura stessa
    di Gesù. Il discernimento delle virtù autentiche, infatti, non va condotto con i
    criteri della sapienza mondana, bensì con Colui che è la Virtù tutta intera,26 e che
    ha detto: Discite a me, quia mansuetus sum et humilis corde27
    .
    Peraltro, l’umiltà dei Vangeli trova il suo corrispondente anche in una virtù
    che non è certo cardinale, ma che è pur sempre apprezzata dalle filosofie
    sapienziali ellenistiche, in modo particolare dagli stoici: l’atyphía – esatto con-
    trario della hybris (si noti l’alfa privativa rispetto alla radice del verbo typhóo, che
    significa ‘gonfiare’ e ‘far inorgoglire’) –, ovvero la metriótes, o metriopátheia, che
    indica la moderazione e l’equilibrio delle passioni28
    .
    Così la virtù dell’umiltà caratterizza in modo speciale la figura di Maria in
    Origene. La sua esemplarità per ogni anima credente resta indubbiamente legata
    al progresso in questa virtù.29 Si veda al riguardo il frammento greco 26 delle

HLc: «Chi sono io per una simile opera?», si interroga Maria stessa. E risponde:
«È lui che mi ha guardata, non io che mi sono proposta: infatti, io ero umile
(tapeiné) e rigettata. Ora trascorro dalla terra al cielo, e sono attratta in un
disegno di salvezza ineffabile»30
.

  1. La grandezza di Maria.
    Siamo giunti così alla conclusione della nostra lectio.
    Si tratta degli ultimi due paragrafi – il sesto e il settimo – dell’omelia.
  2. “Ecco infatti che sin d’ora tutte le generazioni mi chiameranno beata”.
    Se intendo “tutte le generazioni” secondo il più semplice significato, ritengo che si
    faccia allusione ai credenti. Ma se cerco di vedere il significato più profondo, capirò
    quanto sia vantaggioso aggiungere: “Perché fece grandi cose per me colui che è potente”.
    Proprio perché “chiunque si umilia sarà esaltato”, Dio ha guardato l’umiltà della
    beata Maria; per questo ha fatto per lei grandi cose colui che è potente, e il cui nome è
    santo.
    “E la sua misericordia si estende di generazione in generazione”. Non è su una
    generazione, né su due, né su tre, e neppure su cinque che si estende “la misericordia”
    di Dio; essa si estende eternamente “di generazione in generazione”.
    “Per coloro che lo temono ha spiegato la potenza del suo braccio”. Anche se sei debole,
    se tu ti accosti al Signore, se avrai timore di lui, potrai udire la promessa che il Signore
    ti fa, per il timore che nutri verso di lui.
  3. Qual è questa promessa? Dice: “Per coloro che lo temono si è fatto potenza”. La forza
    o il potere è attributo regale. Infatti la parola krátos, che noi possiamo tradurre con
    imperium, si applica a colui che impera, oppure a colui che tiene tutto in suo potere.
    Ebbene, se tu temi il Signore, egli ti comunica la sua forza e il suo imperium; egli ti dà
    il suo regno, affinché tu, assoggettato al “re dei re”, possieda il “regno dei cieli” in Gesù
    Cristo, “al quale appartengono la gloria e l’imperium nei secoli. Amen”31
    .
    L’elemento più interessante e originale di questa conclusione è il seguente:
    chi è che proclama Maria beata?
    A un primo livello di interpretazione (simpliciter), afferma Origene, sono
    senz’altro i credenti (omnes generationes); ma a un livello più profondo e più
    vero (altius) è Dio stesso, la cui misericordia si estende di generazione in
    generazione.
    Qui entra la grandezza, e insieme l’esemplarità di Maria: chi – come lei –
    coltiva l’umiltà e il santo timore di Dio, esperimenta efficacemente la potenza
    dell’Altissimo. Si ergo timueris Dominum – così conclude Origene, e così conclu

diamo anche noi –, dat tibi fortitudinem sive imperium, dat regnum, ut factus sub
rege regum possideas regnum caelorum in Christo Iesu: cui est gloria et imperium in
saecula saeculorum32
.

Note

1 Riprendo così, aggiornandolo in parte, un mio precedente studio, pubblicato in M.
Maritano – E. dal Covolo (edd.), Omelie sul Vangelo di Luca. Lettura origeniana, Roma 2011.
Non risultano sul tema ulteriori contributi scientifici. Mi sembra chiaro il motivo per cui
dedico ora all’amico Lucio de Giovanni questo contributo: in molti momenti della nostra vita
abbiamo vissuto insieme il Magnificat di Maria.
2
È questa l’edizione che seguiremo: cfr. Origene, Omelia sul Vangelo di Luca 8, edd. H.
Crouzel – F. Fournier – P. Périchon, SC 87, Paris 1962, pp. 164-173 (d’ora in poi HLc, seguito
dall’indicazione del passo e della pagina). Per la traduzione mi riferisco a S. Aliquò, Origene.
Commento al Vangelo di Luca, Roma 1974, pp. 79-83, rielaborandola però in maniera
sostanziale.
3
Ibidem, pp. 480-483.
4 Riassumo per questo la voce di C. Gianotto, «Luca (scritti esegetici su)», in A. Monaci
Castagno (ed.), Origene. Dizionario. La cultura, il pensiero, le opere, Roma 2000, pp. 243-245.
Alla bibliografia ivi citata aggiungo almeno C. Corsato, Letture patristiche della Scrittura,
Padova 2004, che dedica il primo capitolo del libro a «Origene interprete del Vangelo di Luca
nelle omelie», pp. 18-64.

5 Cfr. F. Fournier, «Les Homélies sur Luc et leur traduction par saint Jerome», in SC 87,
pp. 65-92.
6 HLc Praefatio, p. 94.
7 Cfr. F. Fournier, «Les Homélies», cit.
8 Vedi però il frammento greco 28, relativo a Luca 1, 54 (Ha soccorso Israele, suo servo…).
A questo riguardo, Origene spiega che il riferimento di Maria a Israele può essere interpretato
sia katà sárka, cioè materialmente, sia noetôs, cioè spiritualmente. In questa seconda
interpretazione, afferma Origene, si parla di noi: siamo noi infatti l’Israele spirituale, «noi che
abbiamo creduto, convertendoci dai pagani» (HLc framm. 28, p. 482).

9
Sul tema, dopo L. Cignelli, Maria nuova Eva nella Patristica greca, Assisi 1966, vedi,
più complessivamente, E. Peretto, «Maria nell’area culturale greca», in E. dal Covolo – A. Serra
(edd.), Storia della mariologia, 1. Dal modello biblico al modello letterario, Roma 2009, soprat-
tutto le pp. 263-271.
10 HLc 8, 1, p. 164.
11 Ireneo, Contro le eresie 3, 22, 4, edd. A. Rousseau – L. Doutrelau, SC 211, Paris 1974,
pp. 442-444.
12 ibidem 5, 19, 1, edd. A. Rousseau et alii, SC 153, Paris 1969, p. 248.
13 Cfr. A Orbe, «La “recirculación” de la Virgen María en San Ireneo (Adv. Haer.
III,22,4,71)», in S. Felici (ed.), La mariologia nella catechesi dei Padri (età prenicena), Roma
1989, pp. 101-120.

14 Cfr. Tertulliano, Sulla carne di Cristo 17, 3-6, ed. J.-P. Mahé, SC 217, Paris 1975, pp.
280-282 (vedi nel commento dello stesso Mahé, SC 217, Paris 1975, pp. 401-406, la sinossi dei
testi paralleli di Giustino e di Ireneo); E. dal Covolo, «Riferimenti mariologici in Tertulliano»,
in S. Felici (ed.), La mariologia, cit., pp. 121-132.
15 Vedi al riguardo l’equilibrata disamina di E. Prinzivalli, «Origene», in E. dal Covolo
(ed.), Donna e matrimonio alle origini della Chiesa, Roma 1996, pp. 63-82.

16 HLc 8, 1-2, pp. 164-166.
17 Non mi pare infatti che Origene voglia impegnarsi in questa direzione. Nel
frammento greco 25 egli giunge a dire che, in questo caso, «alcuni affermano che pnéuma e
psyché sono la stessa cosa» (HLc framm. 25, p. 480). A meno che – cosa che è pure possibile, e
che qualche sconnessione del periodo lascia sospettare – il testo non ci sia pervenuto integro.
18 Rimane classico, al riguardo, H. Crouzel, Théologie de l’image de Dieu chez Origène,
Toulouse 1956. HLc 8 vi è citata molte volte: cfr. pp. 157-158, 191, 197-198, 208, 224. Dello
stesso, vedi ancora Origene, Roma 1986, pp. 136-144. Con riferimento specifico al nostro
passo, vedi infine F. Cocchini, «Maria in Origene. Osservazioni storico-dottrinali», in S. Felici
(ed.), La mariologia, cit., pp. 133-140, soprattutto p. 138.

19 Origene, Commento a Giovanni 32, 127, ed. C. Blanc, SC 385, Paris 1992, p. 242.
20 HLc 8, 2, p. 166.
21 HLc 8, 3, pp. 166-168. Cfr. M. P. Ciccarese (ed.), Animali simbolici. Alle origini del
bestiario cristiano, 1. Agnello – Gufo, Bologna 2002, p. 276.
22 Cfr. ancora H. Crouzel, Théologie de l’image…, pp. 197-206: «Images bestiales».

23 Origene, Omelia su Ezechiele 3, 8, ed. M. Borret, SC 352, Paris 1989, pp. 142-144.
24 HLc 8, 3, p. 166.

25 HLc 8, 4-5, pp. 168-170.
26 Cfr. supra, nota 19 e suo contesto.
27 Matteo 11, 29.
28 Com’è noto, è proprio questo uno dei tratti che separa Origene da Clemente
Alessandrino, il quale preferisce parlare dell’apátheia, piuttosto che della metriopátheia, come
virtù.
29 Cfr. H. Crouzel, «La Théologie mariale d’Origène», in SC 87, Paris 1962, pp. 11-64; C.
Gianotto, «Maria», in A. Monaci Castagno (ed.), Origene…, pp. 263-266; M. I. Danieli,
«Maria “terra di profeti viventi”. Profezie mariane in Origene», in Theotokos 10, 2002, pp. 43-
52; R. Scognamiglio, «La fisionomia “teologica” di Maria. Maternità e verginità», ibidem, pp.
53-69; F. Cocchini, «Maria “modello del cristiano” nell’interpretazione origeniana», ibidem,
pp. 71-85, soprattutto 80-82.

30 HLc framm. 26, p. 482.
31 HLc 8, 6-7, pp. 170-172.

32 HLc 8, 7, p. 172.

Guido Oldani, Battesimo di Gesù (Battesimo del Signore, anno B)


Mc 1,7-11

In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

LA DOCCIA DIVINA

il giordano occasione di turismo,

sempre incoraggia il male di saccoccia

ma il battesimo è storia d’altre facce.

giovanni, che ha la testa in spalla ancora

esita, poi battezza il nazareno

e si apre una botola del cielo,

c’è un piede grande come il vaticano

e un grido calmo, sembra un’autostrada:

“lui è d’acciaio, roba del mio seno.”

IL BATTESIMO

giovanni è ancora prima della scure,

gesù ha mani e piedi senza buchi

e il padreterno se ne prende cura.

e il giordano non è di certo il gange,

per questo non occorrono bagnini

e nascerà così la religione

ma i nemici, tagliole più che spade

versano fango, cercano assassini.

Don Tonino Bello, Omelia dell’ultimo giovedì santo

M. Rupnik e l’arte

Davidia Zucchelli, Le rimesse dei migranti e il covid

DZ – Munera, gennaio 2021

Calano le rimesse dei migranti, ma non solo a causa del Covid-19

Il Covid-19 ha inciso pesantemente anche sulle rimesse – le somme che i migranti inviano periodicamente alle famiglie di origine – con significative conseguenze per le economie dei paesi a cui sono destinate. L’analisi dell’andamento di questa importante voce della bilancia dei pagamenti offre molti spunti di riflessione, con riferimento alle condizioni economiche e finanziarie internazionali, all’inclusione finanziaria ed ai flussi migratori.

I dati pubblicati dalla World Bank (WB) evidenziavano già a fine 2019 un sensibile rallentamento a livello internazionale e le stime per il 2020 e il 2021 mostrano un ulteriore peggioramento. La grave crisi economica nei principali paesi che ospitano i migranti – USA, Europa e paesi del Golfo – è alla base del calo stimato nel 2020 (-7,2% per un ammontare pari a 508 miliardi di dollari), a cui è attesa seguire un’ulteriore flessione del 7,5% pari a 470 miliardi nel 2021. Si tratta delle più marcate riduzioni fino ad ora registrate, più profonde anche di quelle del 2009, in tutte le principali aree geografiche, ma in modo particolare nell’ECA (Europe Central Asia), secondo la ripartizione adottata dalla World Bank (-16% nel 2020). 

Rimesse (var % a/a, 2020, ripartizione per area geografica)

Nota: ECA (Europe Central Asia), EAP (East Asia Pacific), LAC (Latin America Caribbean), MENA (Middle East and North Africa), SA (South Asia), SSA (Sub-Saharan Africa. Fonte: World Bank-KNOMAD

La flessione delle rimesse registrata nei paesi dell’est Europa è da ricollegare alla crisi che ha colpito l’Europa occidentale, dove tali flussi vengono in gran parte originati. In particolare, nei paesi CEE (Central Eastern Europe) dopo una flessione del 4,4% nel 2019, la WB stima in -12,1% la variazione nel 2020, da imputare soprattutto alla Polonia (-15,5% da -8,6% nell’anno precedente), visto il peso economico che questo paese ha nell’area. Nei paesi SEE (South Eastern Europe), inoltre, si stima che le rimesse, generate in gran parte in Italia, registrino un calo medio del 20% (-23% in Romania). 

Nel resto del mondo, i flussi più consistenti in valore assoluto sono inviati in India, Cina, Messico, nelle Filippine e in Egitto (-9% in quest’ultimo paese, dove con 24,4 miliardi di dollari, pari al 6,7% del PIL, le rimesse assumono tradizionalmente un peso molto significativo), e risultano anch’essi tutti in diminuzione. 

Le rimesse rappresentano una importante risorsa finanziaria per i paesi emergenti, come evidenzia la loro incidenza sul PIL nazionale. Se consideriamo questo indicatore, i principali paesi riceventi risultano essere ovviamente economie di dimensioni minori quali Tonga, Haiti, Libano, Sud Sudan e Tajikistan, fra i primi cinque, ma non mancano paesi di dimensioni significative come le Filippine. Nei paesi europei più vicini a noi, fra i SEE, le rimesse ammontano a circa il 6,8% del PIL, in un range che va dal 2% circa in Romania al 9% sia in Albania sia in Bosnia. Molto più bassa è l’incidenza delle rimesse in entrata rispetto al PIL nazionale nei paesi CEE, che si colloca fra l’1% in Slovenia e Polonia, e il 2,5% in Ungheria, paesi con un minor tasso di emigrazione.  

Il tema ha rilevanti implicazioni, economiche e sociali. Le rimesse rappresentano come detto una risorsa finanziaria, hanno sostenuto la crescita macroeconomica del paese destinatario e ridotto la povertà. Tuttavia, come in genere per le forme di sussidio pubblico, sono condivisibili i timori che esse possano generare nel contempo un’azione di freno allo sviluppo (la cosiddetta trappola delle rimesse), disincentivando la popolazione alla partecipazione attiva alla crescita nazionale.

Rimesse – Flussi in entrata Paesi con % sul PIL uguali o superiori al 9% (stime 2020)
Fonte: World Bank-KNOMAD

Con riferimento invece ai flussi in uscita, le rimesse inviate all’estero dall’Italia erano pari a circa 9 miliardi di dollari ovvero lo 0.5% del PIL nel 2019, una incidenza analoga a quella delle altre maggiori economie del mondo (0.6% in Francia e Germania, 0.4% in UK e 0.3% negli USA), effetto delle crescenti interconnessioni internazionali.  

Numerosi sono i fattori che incidono sull’entità delle rimesse. Essendo almeno in parte una forma di trasferimento a fini di sostegno dei redditi e dei consumi delle famiglie e di accantonamento di risparmio o di investimento (ad esempio se destinate alla costruzione di una casa nel paese d’origine spesso collegata ad un progetto di rientro del migrante), l’entità delle rimesse dovrebbe essere sostenuta da motivi prudenziali, a fronte di minori consumi dei lavoratori nei paesi dove esse vengono generate. Un ulteriore fattore di supporto dei flussi inviati potrebbe derivare anche dalla volontà di aiutare le famiglie in condizioni economiche e finanziarie viste in peggioramento. Tuttavia, le difficoltà del mercato del lavoro da parte di coloro che inviano tali fondi nei paesi d’origine e quindi la loro minore disponibilità di reddito sembrano prevalere, poiché, come abbiamo visto, le attese sono per una flessione delle rimesse nel 2020 e nel 2021. 

Il Covid ha accentuato il trend in rallentamento che si stava realizzando già da tempo per il concorso di vari fattori. Occorre dapprima considerare i canali utilizzati per il loro trasferimento. Le rimesse vengono inviate solitamente, ma con minore frequenza negli ultimi anni, tramite banca, per essere trasferite su conti di deposito all’estero. Il minor utilizzo del canale bancario può essere ricondotto in parte alla flessione del numero di banche corrispondenti. Si tratta di un processo di de-risking, registrato a livello internazionale nell’ultimo decennio, specie verso operatori money transfer in molti paesi, per il timore di essere coinvolti in operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Fra il 2011 e il 2018, infatti, il numero di posizioni è diminuito del 20%, secondo quanto indicato dalla stessa WB, rendendo più difficile l’invio di denaro, specie se di modesta entità.  

Al fine di ridurre il rischio di operazioni illecite e consentire maggiore trasparenza e una più rapida tracciabilità, le autorità monetarie internazionali auspicano, come noto, un maggior utilizzo dei pagamenti digitali. È di queste settimane nel nostro paese l’incentivazione ai pagamenti digitali tramite il cashback. I canali alternativi (intermediari finanziari non bancari o canali informali) vengono utilizzati in misura crescente anche nel trasferimento delle rimesse, ma in molti paesi l’accesso a questa modalità rimane difficile, specie per alcuni segmenti della popolazione (per le donne, ad esempio), come evidenzia un grado di inclusione finanziaria ancora molto modesto.   

I dati della WB forniscono inoltre il costo dell’invio delle rimesse, un indicatore significativo che può spiegare, non tanto la diminuzione dei flussi – poiché i costi vanno diminuendo – quanto, almeno in parte, la scelta di utilizzo dei vari canali di trasferimento. Il costo medio per l’invio di 200 dollari verso un low-middle income country è stato del 6,8% nel terzo trimestre 2020, in graduale diminuzione negli ultimi anni, ma ancora ben oltre il doppio dell’obiettivo limite del 3%, fissato nel Sustainable Development Goal (SDG) dalla stessa WB, per il 2030. Le banche rappresentano il canale più costoso per l’invio delle rimesse con una media del 10,9% nel terzo trimestre 2020 – che si spiega in parte con i maggiori oneri di controllo e di gestione dettati dalla normativa vigente, a fronte però di una maggiore sicurezza – mentre le poste hanno segnato un costo medio dell’8,6% (da 8,1% nel 2019), gli operatori money transfer il 5,8% (in leggero calo da 6,1% nell’anno precedente) e gli operatori mobile solo il 2,8% (in riduzione da 3,4% nel 2019). 

È significativo infine – ed è questo l’aspetto che volevo evidenziare in questa breve riflessione – che fra i principali fattori che sottostanno alla riduzione delle rimesse vi è anche – sempre secondo le rilevazioni e previsioni della WB – l’intensificarsi dei flussi di ritorno verso i paesi di origine, sostenuto dal peggioramento delle prospettive future nei paesi ad economia matura, ma anche dal generale miglioramento, seppur modesto, delle condizioni economiche e sociali in molti paesi d’origine. Forse anche questo è un segnale dei grandi cambiamenti che ci aspettano nell’era post-Covid. 

I miracoli sono molti anche dopo che Gesù è risorto?

https://gpcentofanti.altervista.org/gesu-compiva-piu-miracoli-allora-che-oggi/

Anno giubilare per l’VIII centenario della morte di San Domenico di Guzman

L’anno giubilare è iniziato il 6 gennnaio 2021 e durerà per tutto l’anno.

Visualizza immagine di origine

Molte grazie si testimoniano ricevute pregando questa immagine che un racconto vuole di origine celeste, cioè come donata, il 15 settembre 1530, ad un frate dalla Madonna, da santa Maria Maddalena e da santa Caterina martire.L’immagine si trova a Soriano, in provincia di Vibo Valentia, in Calabria.

(3) Miracolosa Immagine di San Domenico in Soriano – Soriano Calabro (VV) – YouTube

O spem miram, preghiera a san Domenico:

O meravigliosa speranza,
che tu hai donato a coloro che piangono nell’ora della morte e ai tuoi fratelli per il futuro dopo la morte.

• Adempi, o Padre,
quanto promettesti,
aiutandoci con le preghiere.
(TP. Alleluja)

Tu che risplendesti per tanti miracoli compiuti
a favore degli infermi, rafforza la nostra debolezza, offrendoci l’aiuto di Cristo.

• Adempi, o Padre,
quanto promettesti,
aiutandoci con le preghiere.
(TP. Alleluja)

Gloria al Padre e al Figlio
e allo Spirito Santo.

• Adempi, o Padre,
quanto promettesti,
aiutandoci con le preghiere.
(TP. Alleluja)

 Prega per noi, Santo Padre Domenico.
 E saremo degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
O Dio che hai fatto risplendere la tua chiesa con le opere e la predicazione di san Domenico nostro Padre,  dona ai suoi figli di crescere nell’umile servizio della verità. Per Cristo nostro Signore.

 Amen


O Spem miram
quam dedisti
mortis hora te flentibus,
dum post mortem
promisisti
te pro futurum fratribus:

• Imple Pater quod dixisti,
nos tuis juvans precibus.
(TP. Alleluja)

Qui tot signis claruisti
in aegrorum corporibus,
nobis opem ferens Christi,
aegris medére moribus.

• Imple Pater quod dixisti,
nos tuis juvans precibus.
(TP. Alleluja)

 Gloria Patri, et Filio,
et Spiritui Sancto.

• Imple Pater quod dixisti,
nos tuis juvans precibus.
(TP. Alleluja)

 Ora pro nobis, Beate pater Dominice
 Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus
Deus, quei Ecclesiam tuam beati Dominici confessoris tui Patris nostri, illuminare dignatus es meritis et doctrinis: concede, ut eius intercessione temporalibus non destituatur auxiliis et spiritualibus semper proficiat incrementis. Per Christum Dominum nostrum.

 Amen                                                                                

ecco il link: (3) O spem miram – YouTube

Popolo della Famiglia e pensiero unico. Intervista a Mario Adinolfi

D: Mario Adinolfi, presidente nazionale del Popolo della Famiglia, viviamo in un’epoca in cui si direbbe che un pensiero unico cerca di teleguidare le persone attraverso il potere della formazione e dell’informazione. Sembra tutt’al più di vedere il “bianco” del sistema e il “nero” di frange altrettanto ideologizzate. Per le sfumature di ricerca autentica del vero pare talora lo spazio sia esiguo.

R: Il pensiero unico può diventare un alibi. Vi è sempre stato un conformismo verso il potere dominante.

D: Vi sono state epoche, come negli anni ’70, in cui vi era una maggiore varietà e originalità di espressioni? Ciò era dovuto anche all’esistenza di due blocchi dominanti contrapposti, USA e URSS?

R: A quell’epoca per una serie di motivi storico-culturali vi era più pensiero, questo sì. Ma i due blocchi costringevano anch’essi in gabbie.

D: Perché parlavi di alibi?

R: Perché ci si può arrendere al conformismo invece di avere il coraggio di sviluppare vie alternative.

D: Vi sono ostacoli profondi allo sviluppo di vie alternative? La scuola del pensiero falsamente neutro, di una inesistente razionalità astratta, non ha sradicato da tanti la fede così diffusa e sentita? Al punto che sempre meno giovani credono?

R: Appunto certamente si sarebbe potuto porre attenzione a ciò e con più coraggio. Forse anche sviluppando nei seminari una preparazione di maggiore spessore.

D: Oggi gli spazi di libertà sembrano angusti. Il crollo delle ideologie, ossia di filosofie della ragione astratta, ha condotto al nichilismo ed ora ad un filantropismo del mero fare, tecnicista, omologante. Ossia una parabola della ragione astratta, che al fondo resta. Persone che cercavano più giustizia e uguaglianza sono dunque passate senza avvedersene ad approvare tale visione che parla di solidarietà ma nega alle persone di maturare sin dalla scuola alla luce di ciò in cui crede e dunque anche di un solo allora autentico scambio.

R: La fede può sviluppare luci profonde. Il Popolo della Famiglia, il quotidiano La Croce, cercano di animare percorsi vivi, partecipati. Qualcuno le considera minoranze ma duecentomila e oltre voti, qualche migliaio di lettori, sono una minoranza?

D: E poi le persone motivate stimolano tanti. Ma senza l’appoggio della Chiesa è più difficile. Vi è questo appoggio o per ora i numeri sono esigui per poter venire presi in considerazione?

R: Non credo sia questione di numeri. Sono un cristiano obbediente. Al tempo stesso il Popolo della Famiglia segue alcune piste…

Guido Oldani, Epifania

I MAGI

è un megafono quest’epifania,

costruita dai tre senza binari

venuti dall’oriente e andati via.

hanno visto quel bimbo che è ben altro,

loro che, non avari, fanno doni

e non credono a chi tesse gl’inganni

poi seguendo la via dei continenti

lui esclamano, come già giovanni.

6 gennaio

la sabbia è la casa del silenzio

e le zampe che sembrano coperchi

di pignatte, scalfiscono le dune,

perché i re magi sono giunti insieme.

di notte il freddo gela mani e piedi,

e le grosse borracce i tre cammelli

paiono una catena d’appennino

ed hanno musi poco perspicaci

ma giungono alla fine dal bambino.

Gianluca Giorgio: Clemente Rebora

https://www.acistampa.com/story/litinerario-religioso-e-poetico-di-clemente-rebora-15891

La Croce, quotidiano: Manifesto del cuore divino e umano di Gesù

http://www.lacrocequotidiano.it/articolo/2020/11/24/chiesa/manifesto-del-cuore-divino-e-umano-di-gesu

F. Giansoldati, Il Vaticano e il vaccino

di Franca Giansoldati, Il Messaggero, 4 gennaio 2021

Città del Vaticano – Conto alla rovescia. Tra qualche giorno inizieranno le vaccinazioni all’ombra del Cupolone. «Anche io mi vaccinerò, è l’unico modo che abbiamo per uscire da questa tragedia globale» dice il professore Andrea Arcangeli, direttore del Fondo Assistenza Sanitaria, l’organismo vaticano dal quale dipendono i servizi medici e ambulatoriali. E’ lui che ha predisposto e coordinato il piano per immunizzare cardinali, suore, vescovi e sacerdoti. Anche il Papa dovrebbe sottoporsi al vaccino. «Immagino che lo farà, penso sia scontato, ma non essendo il medico del Santo Padre non posso dire nulla a proposito, non dipende da me». In queste ultime ore è stato acquistato anche un grande frigorifero capace di mantenere a bassissime temperature i vaccini. 

Mancano solo i vaccini che però dovrebbero arrivare la settimana prossima…

«Li stiamo aspettando. E’ questione di qualche giorno, in ogni caso da noi è tutto predisposto per far partire immediatamente la campagna». 

Che criteri seguirete?

«Abbiamo adottato le linee guida stabilite a livello internazionale, quelle che – per intenderci – sta seguendo anche l’Italia. Si prevedono prima le categorie in prima linea come i medici e il personale sanitario, seguite dal personale di pubblica utilità, poi ci saranno i cittadini vaticani che soffrono di patologie particolari o invalidanti, poi gli anziani e fragili e via via tutti gli altri». 

Vaccinerete anche i familiari di coloro che lavorano in curia?

«E’ stato deciso che saranno inclusi anche loro. I figli dei dipendenti a carico del FAS fino alla fine delle scuole e poi anche i coniugi». 

Quante dosi avete ordinato considerando che in Vaticano ci sono circa 500 residenti e 4000 dipendenti, la metà dei quali con famiglia: la cifra potrebbe essere attorno alle 10 mila dosi?

«Siamo attorno a questo numero. Sono sufficienti a coprire il nostro fabbisogno interno. Vediamo se ce li manderanno tutti».

Perchè avete scelto Pfeizer?

«Praticamente era una scelta obbligata visto che per ora si tratta dell’unico vaccino approvato e disponibile. Successivamente se ci saranno necessità potremo ricorrere anche ad altri vaccini, ma per ora aspettiamo Pfeizer. Non ci sono motivi particolari. E’ solo una questione di tempistica che ci ha portato a questo vaccino». 

Lei si vaccinerà?

«Assolutamente si. Senza alcun indugio». 

Papa Francesco si vaccinerà?

«Immagino che lo farà, ma io non ho una diretta responsabilità sanitaria sul pontefice».

Sarebbe però bizzarro che il Papa che predica sui vaccini non si vaccinasse.. 

«Non ho alcuna autorità per parlare di questo, mi creda. Immagino che lo farà ma non ho alcuna informazione diretta e non posso dunque dire nulla». 

In queste ore cresce la marea dei no-vax, basta andare a vedere sui social quello che scrivono. Lei che ha alle spalle un lungo percorso di ricerca al Gemelli cosa può dire alle persone che nutrono timori sui vaccini anti Covid?

«Che sono l’unica possibilità che abbiamo. L’unica arma a disposizione per tener sotto controllo questa pandemia. Possiamo dire che i vaccini sono stati sperimentati ampiamente, che la sperimentazione è durata meno tempo del previsto, rispetto agli altri farmaci, ma che grazie agli investimenti che sono stati fatti da tutti gli Stati le sperimentazioni si sono potute effettuare in modo più veloce. Un tempo richiedevano diversi anni, stavolta è stato fatto in un anno. Personalmente ho molta fiducia nella scienza e sono più che convinto che i vaccini a disposizione sono sicuri e non comportano rischi. La fine della tragedia che stiamo vivendo dipende dalla diffusione dei vaccini». 

Perché i negazionisti secondo lei sono così refrattari?

«Purtroppo le loro posizioni sono il frutto della disinformazione. I social amplificano le parole di persone che non hanno alcuna competenza per poter fare affermazioni scientifiche e questo finisce per seminare paure irrazionali».

Card. Czerny, In cammino verso la sinodalità concreta

https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-12/czerny-sinodalita-chiesa-identita-ecclesiale.html

https://gpcentofanti.altervista.org/maria-e-la-storia-della-salvezza/

S. Magister: Un punto decisivo

https://gpcentofanti.altervista.org/domande-a-magister/

E. Galli della Loggia – B. Forte: dialogo sulla sinodalità

Il Sismografo: ItaliaBruno Forte: “Il bisogno e la ricerca di Dio restano sempre vivi e presenti”. / Ernesto Galli della Loggia: “Ma il futuro della Chiesa è solo tra le plebi?”

Franca Giansoldati, La donna nella Chiesa

Dal minuto -18,12

La cultura e la geopolitica

https://gpcentofanti.altervista.org/il-potere-oggi/

Le virtù e san Francesco

Saluto alle virtu’

[256] Ave, regina sapienza,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa, pura semplicità.

Signora santa povertà,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa umiltà.

Signora santa carità,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa obbedienza.

Santissime virtù,
voi tutte salvi il Signore
dal quale venite e procedete.



[257] Non c’è proprio nessuno in tutto il mondo,
che possa avere una sola di voi,
se prima non muore [a se stesso].

Chi ne possiede una e le altre non offende,
le possiede tutte,
e chi una sola ne offende
non ne possiede alcuna e le offende tutte.
E ciascuna confonde i vizi e i peccati.


[258] La santa sapienza
confonde Satana e tutte le sue malizie.

La pura santa semplicità
confonde ogni sapienza di questo mondo
e la sapienza della carne.

La santa povertà
confonde la cupidigia e l’avarizia
e le preoccupazioni del secolo presente.

La santa umiltà
confonde la superbia
e tutti gli uomini che sono nel mondo,
e similmente tutte le cose che sono nel mondo.

La santa carità
confonde tutte le tentazioni diaboliche e carnali
e tutti i timori della carne.
La santa obbedienza
confonde ogni volontà propria
corporale e carnale,
e tiene il corpo di ciascuno
mortificato per l’obbedienza allo spirito
e per l’obbedienza al proprio fratello;
e allora egli è suddito e sottomesso
a tutti gli uomini che sono nel mondo,
e non soltanto ai soli uomini,
ma anche a tutte le bestie e alle fiere,
così che possano fare di lui quello che vogliono,
per quanto sara` loro concesso dall’alto dal Signore.

P. Gabriele Morra: San Giovanni della Croce

Un racconto: Il conclave e lo Spirito Santo

https://gpcentofanti.altervista.org/un-racconto-breve-habemus-papam/

Una grazia nuova

https://gpcentofanti.altervista.org/il-crollo-del-tecnicismo-e-il-germogliare-della-grazia-divina-e-umana/

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