Vi racconto un’episodio della mia vita. Preparavo la tesi di laurea e stavo tornando a Spello per intervistare Carlo Carretto. Ero giunto ad una tappa decisiva della mia ricerca di Dio e molto più che mere notizie cercavo Lui. Fratel Carlo era stato di grande aiuto in quel percorso. Circa dieci anni prima avevo letto il suo Il Dio che viene ma solo ora cominciavo ad intuire che in quel libro parlava della capacità del Signore di sposare la persona, facendola innamorare carnalmente, come e mille volte più di quanto si penserebbe che solo una ragazza possa. Andavo dunque da Carretto con quesiti di storia e politica cristiana del secondo dopoguerra ma nel profondo del cuore con una domanda intensissima sull’unione sponsale con Dio. Venivo da Roma col treno e poi a piedi, studente senza una lira, tutto affidato al Signore. Ricordavo le volte precedenti in cui ero stato a Spello e i tanti doni ricevuti ascoltando Carlo. L’ultima ero venuto con due valigione per stare lì alcuni giorni di ritiro spirituale. Salivo a piedi la strada verso l’eremo Giacobbe e raggiunta una curva mi pareva di essere finalmente arrivato ma dopo la svolta appariva più su un’altra svolta e la salita fatta in precedenza sempre in macchina portato da qualcuno ora non finiva mai. E pensavo che così era la mia vita. Ti sembra sempre di giungere alla “Risposta” ma dietro l’angolo vi è sempre un’ulteriore curva. Ma forse ora ero davvero vicino alla meta. Invece giunto all’eremo mi dicono che Carretto è ricoverato all’ospedale di Monteluce a Perugia, in fin di vita. Corro coi pochi soldi rimasti a Perugia e di nuovo a piedi un’altra salita. Che speranza quel nome Monteluce, per Carlo e per me. Arrivo finalmente e davanti alla sua camera vi è solo una donna che l’assiste. Mi dice che posso entrare. Carlo sta morendo ma né lei né lui mi dicono di stare poco, di non stancarlo… Lui mi accoglie con un sorriso sereno, lo saluto soltanto ed esco. Dico alla donna che vorrei portare a Carlo dei dolcetti ma forse non è il caso, forse invece potrei portargli una candela. In un suo libro suggeriva di accendere una candela nella sofferenza, immagine tanto significativa. La donna acconsente ed io, senza una lira, giro a piedi tutti i negozi di Perugia per cercare una candela meravigliosamente decorata. Una preghiera per la guarigione di Carlo ed un segno ora anche per me della felicità sconfinata, anche carnale, che Dio forse può donare. Non trovo questa candela, vedo al più i ceri che indicano la presenza dell’Eucaristia nel tabernacolo. Continuo a cercare. Non risolvendo nulla vengo a sapere di una cereria fuori Perugia. Li contatto per telefono per sapere se hanno quello che cerco. Rispondono positivamente. Ma io non ho una lira, chiedo loro se mi faranno un prestito e spiego perché devo avere subito la candela. Accettano. Corro verso la cereria. Proprio allora ho un’illuminazione: non devo prendere una candela meravigliosa devo prendere quella da tabernacolo. Ho paura della “fregatura”, ossia che Dio non dia la felicità. Ma in qualche modo intuisco che invece quella è la via, nuda, umile e nascosta, della felicità piena. Non ci sarà la delusione. Risalgo correndo verso Monteluce con un dolore per Carlo morente e per quel segno concomitante anche di passaggi non come mi aspettavo ma con una pace, una speranza, una luce, nuove. Per lui e per me. Do la candela alla donna, lui dormiva da solo nella stanza, lo vedo e me ne riparto per Roma. Anni dopo tornando a Spello vicino alla sua tomba trovo una sola candela, da tabernacolo.