Per i Padri orientali la tristezza è un peccato. Questo ci solleva, perché vuol dire che è un problema da cui dobbiamo liberarci, essendo sempre auspicabile disfarsi del peccato. E come sempre, la liberazione dal peccato è frutto di una sinergia fra la grazia di Dio e la nostra adesione. Perché siamo tristi? Chiedendocelo, siamo a metà dell’opera: spesso la tristezza è uno stato d’animo passivo, rischia di diventare un’abitudine, e delle abitudini non ci chiediamo più il perché. Più scaviamo in noi stessi, più la tristezza perde consistenza: la profondità è un antidoto infallibile, perché più vado verso il centro di me stesso, più mi avvicino a Dio. La tristezza spadroneggia nella periferia della persona, là dove abbiamo meno consapevolezza, meno dominio su noi stessi. Non a caso accidia e tristezza sono spesso imparentate: l’ozio, la pigrizia, sono un vagare alla superficie di sé, uno staccarsi dalle energie interiori, dal senso delle cose. La tristezza nasce dal non senso.
I vizi inducono tristezza: sono il bene, la virtù, a lasciar emergere la vitalità della persona, le motivazioni radicate nel DNA della creazione, nell’amore, che è il segno della partecipazione alla vita di Dio.
Se sono triste, dunque, devo innanzitutto chiedermi perché. Poi scavare, fino ad approdare a una sfera più profonda e ricca di energie. Poi riconoscere che il mio essere sta dentro un progetto più grande, l’amore di Dio che si comunica a ciò che Lui ha creato.
Compiendo questi passi, non sarò triste neanche sforzandomi di esserlo di nuovo.
PAPI PIO
L’ottavo vizio…come si passa alla virtù? Alla gioia? Dando una risposta a se stessi e cioè al ritorno al Padre. Forse è necessario fare certe esperienze, importante che il fine…