Si è presentato a tutti, prima o poi, il pensiero del giudizio finale. È cosa da far tremar le vene e i polsi, come ha scritto qualcuno. Pensiamo ai peccati, che a volte consideriamo imperdonabili; o temiamo di non esserci confessati bene, o di non farlo in tempo, prima di morire. Ci ricordiamo di quando rischiammo di essere bocciati o rimandati, l’angoscia dell’interrogazione, l’altolà della Polstrada che ci ferma per qualche infrazione. O avvertiamo un disagio indefinibile, che ci fa vivere un brutto quarto d’ora.
Ma il giudizio finale non è un terno al lotto, una roulette russa, un “io speriamo che me la cavo”. È noto su che cosa verterà il compito, perché il Vangelo ricorda a chiare lettere la traccia unica proposta in quell’esame: l’amore ricevuto, che eravamo chiamati a custodire e coltivare, e che possiede una natura diffusiva, secondo l’Aquinate: dandogli spazio, finisce col prenderselo tutto. Santa Teresa d’Avila aggiungeva: se accogli Gesù, non te lo togli di torno. È il modo migliore per rapportarci al giudizio universale: pensare all’amore di Dio, così sorprendente da far sentire scolari modello degli asini patentati come noi.
Alberto Bossi
Certo che le tue parole, caro don Fabrizio, aprono come non mai alla speranza. La speranza che l’amore infinito di Dio colmi i vuoti dei nostri egoismi e ricopra tante mancanze, tanti piccoli e grandi peccati. Io personalmente, come ho fatto nei momenti difficili, chiedo a Gesù di tenermi per mano, Tanto più in quel momento supremo sarà importante non presentarsi da soli al Padre. E Gesù saprà farci da avvocato, saprà rendere gemme preziose quei momenti di vero amore che avremo saputo diffondere e restituire ai fratelli.