Enrico Dal Covolo, La teologia: una sfida per le altre scienze nell’Europa secolarizzata

La teologia:

una sfida per le altre scienze

nell’Europa secolarizzata

+ Enrico dal Covolo *

Entriamo nel discorso ponendoci una domanda generica, quasi ingenua: «Che cos’è la teologia (cristiana)?». Per rispondere a questa domanda è indispensabile una precisazione sulla teologia stessa come scienza e sul suo metodo proprio.

1. La teologia (cattolica): questioni essenziali di scienza e di metodo

Il dibattito sul tema e la relativa bibliografia sono pressoché sconfinati. Da parte mia, sarebbe presuntuoso il tentativo di liquidare la questione in poche battute. Di solito, con gli studenti mi limito a evocare l’immagine del “treppiede”. La sacra doctrina – dico a loro – è come un tavolino, che per stare in piedi ha bisogno almeno di tre gambe (che poi possono diventare quattro, a seconda di come si vedono le cose): il primo piede è la rivelazione biblica, il secondo è la tradizione, il terzo è il magistero della Chiesa, al quale rimane intimamente connesso l’eventuale quarto piede, cioè le sollecitazioni di ogni genere (culturali, filosofiche, sociali, morali…), che vengono dal momento presente.

Quando uno solo di questi elementi costitutivi fosse trascurato, allora non si dovrebbe più parlare di teologia cristiana autentica. «Sarà un’altra cosa, magari anche validissima», mi affretto subito ad aggiungere, «ma non si tratta certo di teologia della Chiesa». Tuttavia, nel contesto di questo contributo scientifico, mi pare opportuno aggiungere qualche cosa di più.

Gli studi recenti – diciamo da cinquant’anni a questa parte – che si occupano dello statuto della teologia, fanno riferimento più o meno esplicito al n. 16 del Decreto Optatam Totius del Concilio Vaticano II, là dove i Padri conciliari auspicavano che le discipline teologiche fossero «rinnovate per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza». Proprio da qui, da Optatam totius, n. 16, ho ricavato l’immagine del “treppiede”. Di fatto, in questo denso paragrafo è delineato un approccio scientifico al dato di fede articolato in tre momenti fra loro distinti, ma ermeneuticamente complementari. Possiamo riepilogarli così, in maniera estremamente sintetica, rielaborando appena un poco l’immagine del “treppiede”.  

C’è anzitutto il momento fondante della Scrittura, «universae theologiae veluti anima».

C’è poi il momento normante della tradizione ecclesiale, che comprende sia il contributo privilegiato della patristica orientale e occidentale – per cui spesso questo passaggio viene riduttivamente denominato “momento patristico” –, sia i pronunciamenti conciliari e magisteriali, nonché le elaborazioni teologiche particolarmente esemplari. 

C’è, infine, il momento sistematico dell’organizzazione e della sistemazione del dato di fede, da comunicare in modo sempre più appropriato nel momento presente. 

I primi due momenti rappresentano l’auditus fidei, che include così il vaglio del dato biblico e quello della tradizione ecclesiale. Il terzo momento rappresenta invece l’intellectus fidei, cioè la riflessione sapienziale e l’organizzazione sistematica degli elementi essenziali del dato rivelato, come annuncio sempre attualizzato della fede. 

Stando così le cose, è evidente che la teologia è scienza solo ad alcune condizioni. Se la scienza è uno scire iuxta principia propria (conoscere secondo i propri principi), ebbene: la teologia non è affatto scienza in questo senso, poiché i principi, da cui essa procede, appartengono all’auditus fidei. Sono principi rivelati, che – in ultima analisi – provengono da Dio stesso. «La ricerca teologica», recita in modo perentorio la Costituzione conciliare Gaudium et Spes, «prosegue nella conoscenza profonda della verità rivelata».

Se invece si considera l’intellectus fidei, allora si può dire che la teologia, fornita di contenuti e di metodo peculiari, è scienza a pieno diritto, e sempre di più si è costituita e affermata come tale, lungo i secoli della sua storia.

Ho riletto l’edizione ampliata delle Memorie e digressioni di Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, ormai scomparso. Il cardinale – un ottimo teologo – si poneva questa stessa domanda: «Che cos’è la teologia?». E subito rispondeva:

«È, come dice il nome, scientia Dei, nel senso che il suo oggetto proprio è Dio in quanto si è rivelato ed è principio e fine della comunicazione della sua vita; e nel senso che essa è una certa partecipazione al conoscere divino: quaedam impressio divinae scientiae (Summa Theologiae I, q.1, a.3, ad 2um). Poi è scientia Christi, dal momento che ogni effusione ad extra della vita trinitaria e ogni rivelazione avviene per mezzo di Cristo, dal momento che “piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza” (Col 1,19). Anzi, la comprensione che Gesù ha del disegno salvifico e della realtà intera (da noi partecipata nell’atto di fede) è il principio soggettivo del teologare: egli è il primo, il massimo e l’unico vero ed esauriente “teologo”, al quale il cultore della sacra doctrina cerca di assimilarsi (per quel che gli riesce). Infine è scientia Ecclesiae».

In definitiva, «la teologia è autocoscienza del Christus totus, che va crescendo sotto l’influsso dello Spirito Santo e mediante il lavoro di indagine, di penetrazione, di contemplazione ammirata da parte dei credenti che pensano».

Qualche anno fa – durante la consegna dei riconoscimenti ai tre vincitori della prima edizione del Premio Ratzinger – Benedetto XVI ha ripreso in maniera essenziale i termini della questione. Il Papa emerito si chiedeva che cosa fosse veramente la teologia, poiché, «se la teologia è scienza della fede […], sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza, quando è ordinata o subordinata alla fede?».

Come si vede, la domanda sulla teologia come scienza rimane sempre attuale: «Tali questioni», riconosceva infatti Benedetto, «che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione». 

Al di là delle argomentazioni successive – che il Papa emerito sviluppava da pari suo –, a noi qui interessa soprattutto la conclusione del discorso, là dove si legge:

«Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta alla questione circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia. Tuttavia è proprio di questa sfida che l’uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio».

2. La sfida della teologia in un’Europa secolarizzata,

che rischia di smarrire l’idea autentica di universitas studiorum

In effetti, dalle sue peculiari (e per certi aspetti paradossali) caratteristiche epistemologiche la teologia ricava la propria forza di provocazione e di sfida nei confronti delle altre scienze, che appaiono oggi sempre più specializzate nel metodo e nei contenuti, quanto più frammentate nell’universo del sapere. Il fatto che la teologia non proceda iuxta principia propria, ma dalla Parola rivelata, la spinge – con motivazioni e risorse che non appartengono alle altre scienze dell’universitas studiorum – verso quella mèta ultima e complessiva di verità, a cui essa anela. Certo, a questa stessa mèta concorrono in vario modo tutte le scienze, nella misura in cui esse sono – come dovrebbero essere – ministrae veritatis. Ma la teologia – se è vera teologia, cioè fedele alla sua epistemologia autentica – possiede un’istanza veritativa ulteriore, trasversale alle altre scienze, e ultimativa nel suo traguardo proprio. 

Questo appare evidente, quando si considera che l’oggetto primario e onnicomprensivo della teologia non è una serie di enunciati o di “noumeni” astratti, bensì la Res, alla quale essa punta, cioè Dio. «L’atto di fede», scriveva già san Tommaso, «non ha come punto di riferimento ciò che può essere enunciato, ma la Res», la Cosa in se stessa. Proprio questo realismo della fede guida la ricerca teologica verso la Verità tutta intera.

La teologia, infatti, è ben consapevole che la Cosa a cui puntare è in definitiva la partecipazione per grazia alla conoscenza che il Figlio incarnato, crocifisso e risorto, ha del Padre suo, nella comunione dello Spirito Santo. «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra», prorompe Gesù Cristo stesso nel suo Magnificat, «perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,25-27). 

Nella tradizione della Chiesa, la teologia, quale fede in cerca di comprendersi (fides quaerens intellectum), pur nella pluralità delle sue espressioni storiche, si configura come quell’esercizio dell’intelligenza che nasce dall’esperienza della fede, di essa si nutre e all’accrescimento di essa è destinato. «Ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto per fede», afferma sant’Agostino a proposito del mistero centrale della Rivelazione, la santissima Trinità. 

La visione, a cui anela il desiderio che mette in moto l’intelligenza del mistero rivelato, è una penetrazione sempre più piena e una partecipazione sempre più viva a quella Verità, che è Cristo stesso (cf. Gv 14,6). La fede vi aderisce intimamente, nella certa speranza del suo compimento eccedente e inesauribile nel Regno dei cieli: «Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Cor 13,12). Da questa intima natura della teologia deriva la forma peculiare della sua scientificità. La teologia, infatti, è scientia precisamente nel senso che è misurata rigorosamente, nella sua intenzionalità e nel suo esercizio, dall’Oggetto che le è offerto dalla Rivelazione: Dio in Cristo.

In quell’“aureo libretto”, che è stato tradotto dal tedesco con il titolo di Piccola guida per i cristiani, Hans Urs von Balthasar scriveva:

«Non c’è scienza che possa dirsi libera nei confronti del proprio oggetto; solo grazie all’oggetto essa è una disciplina ben determinata, che si affianca a pieno diritto alle altre. Una disciplina è anzi scientifica solo se il suo metodo d’indagine corrisponde alla particolare natura dell’oggetto. Oggetto della teologia in quanto scienza è la fede cristiana, con tutte le particolarità che ineriscono alla sua natura. La fede ha la sua origine nella storia, ma nel medesimo tempo essa avanza “la pretesa” di svelare il senso onnicomprensivo della storia, dal suo inizio alla sua fine: l’Agnello dell’Apocalisse spezza i sette sigilli della storia universale».

Conviene riprendere a questo punto la celebre massima di san Tommaso: la teologia è scientia «in quanto procede da principi noti con il lume di una scienza superiore, che è la scienza di Dio e dei beati». In tal modo, l’Aquinate collega organicamente il procedimento argomentativo della teologia scolastica, in quanto scientia, con la prospettiva neotestamentaria e patristica che vede nella fede e nella conoscenza, che da essa procede, la partecipazione di grazia alla conoscenza del Padre: ne gode anzitutto, per natura, il Verbo incarnato, ed essa si compie per gli uomini nella visio beatifica dei santi. In definitiva, la teologia è scientia solo in quanto sviluppo della scientia Dei, cioè della conoscenza (non si dimentichi il senso biblico, e in definitiva mistico del verbo conoscere) che Dio ha di sé, e che egli stesso ha ritenuto partecipare (rivelare) a noi.

Scriveva nel 1988 il cardinale Joseph Ratzinger, parafrasando S. Tommaso:

«La teologia non vede né prova le sue ragioni ultime. È come sospesa alla “scienza dei santi”, alla loro visione, che è il punto di riferimento del pensiero teologico e ne garantisce la legittimità […]. Senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà in questione, la teologia diventa un gioco intellettuale vuoto e perde pure il suo carattere scientifico».

3. Conclusione

Dentro a queste prospettive epistemologiche (e solo quando esse sono realmente salvate) la teologia conserva il suo valore di sfida di fronte alle altre scienze dell’universitas studiorum, non soltanto per il credente, ma anche per il non credente.

È illuminante, a questo riguardo, un’altra riflessione di Joseph Ratzinger, all’epoca professore di Teologia dogmatica nell’Università di Tubinga, quando – all’indomani del Concilio Vaticano II – l’Europa era percorsa dai venti scomposti della contestazione, che sembravano scuotere le fondamenta stesse della verità.

«La forma in cui l’uomo è tenuto ad affrontare la verità dell’essere», scriveva nel 1968 il futuro Pontefice in Introduzione al cristianesimo, un libro oggi più che mai attuale; la forma, dunque, «non è la scienza, bensì la comprensione, il comprendere il senso della realtà […]. Penso sia precisamente questo l’esatto significato dell’idea che ci facciamo del comprendere: che noi impariamo ad afferrare il terreno su cui ci siamo posti, intendendolo come senso della realtà e della verità».

Ebbene,

«la scienza che si propone di rendere funzionale il mondo», concludeva Ratzinger, «come ci viene oggi pomposamente comunicata dal pensiero tecnico-scientifico, non accorda ancora alcuna vera comprensione del mondo e dell’essere. La teologia, pertanto, intesa come discorso comprensivo, logico (=rationalis, intellettivo-razionale) vertente su Dio, sarà sempre un compito originario e precipuo della fede cristiana. Sì, perché il comprendere scaturisce solo dalla fede».

In maniera coerente, la teologia – precisamente in quanto fides quaerens intellectum – si propone come “il luogo” della sintesi veritativa tra le scienze umane e la “scienza di Dio”, a fronte della frammentarietà dei saperi. Ed ecco – in ultima analisi – la grande sfida della teologia nei confronti delle Università, dinanzi alla dittatura del “pensiero unico” e del tecnologismo economico e informatico: la sfida consiste nel coordinare, in maniera plausibile, la ragione e l’apertura al trascendente.

In varie occasioni ho avuto modo di illustrare alcuni capitoli fondamentali di questo urgente “rinnovamento teologico” proposto da papa Benedetto, e coerentemente proseguito dal magistero di Papa Francesco, da Lumen fidei fino al Discorso Alla Comunità dell’Università Cattolica Portoghese del 26 ottobre 2017. Di quest’ultimo Discorso di Papa Francesco cito un passaggio illuminante: «Si potrebbe obiettare», ha detto il Papa, «che una docenza universitaria di questo tipo trae le sue conclusioni dalla fede, e non può pertanto pretendere che quanti non condividono tale fede accettino la validità delle stesse. Ma, anche se è certo che non condividono la fede, possono sì riconoscere la ragione etica che viene loro proposta […], un tesoro di conoscenza e di esperienza etica, che si rivela importante per tutta l’umanità».

In definitiva, il “rinnovamento teologico” che ci interpella, in vista di un dialogo aperto e fecondo con l’universitas studiorum, riguarda anzitutto i seguenti capitoli: l’allargamento della ragione alle dimensioni della fede e dell’amore; il realismo della fede e la testimonianza della vita; più in generale – appunto – l’urgenza di una nuova sintesi di pensiero, di fronte alle divaricazioni secolarizzanti tra religione e ragione; tra teologia, filosofia e altri saperi; tra teologia razionale e dimensione contemplativa; tra esegesi cosiddetta accademica e lectio divina; tra ortodossia e ortoprassi.

Un simile “rinnovamento” – ne sono certo – renderà sempre più propositiva e feconda la sfida della teologia nei confronti delle Università, dinanzi al fenomeno pressoché globalizzato della secolarizzazione, nell’Europa e nel mondo.

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