Di d Giampaolo Centofanti, gennaio 2020

Da qualche mese ho conosciuto da vicino Luigi Accattoli, vaticanista di lungo corso: prima alla “Repubblica” e poi al “Corriere della Sera”. Dal 1973 scrive sulla rivista “Il Regno”. Oltre a vari volumi sui Papi e sul Vaticano, ha pubblicato tre testi intitolati “Cerco fatti di Vangelo”: uno per la Sei e due per la EDB. Da 14 anni coordina il blog www.luigiaccattoli.it e anche in esso ha una pagina intitolata “Cerco fatti di Vangelo”. L’ultima pubblicazione, curata insieme a Ciro Fusco, è intitolata “C’era un vecchio gesuita furbaccione. 110 parabole di Papa Francesco” (Paoline 2019). Vive a Roma, ha cinque figli. Fa conferenze per l’Italia ed è attivo in parrocchia.

Luigi mi hai detto che la tua avventura di giornalista inizia in un luogo e una data cruciali: università la Sapienza, 1968, presidenza nazionale della Fuci. Che è stato per te il ‘68?

Sono stati anni importanti per l’acquisizione di una certa idea di impegno civile, quello che viene detto cattolico-democratico, nel quale poi sempre mi sono riconosciuto. Ma non sono stati gli anni più importanti: metto prima quelli di bambino in una famiglia contadina delle Marche che mi hanno insegnato la serietà della vita e quelli del matrimonio e della nascita dei figli, dove ho imparato la dedizione e l’umiltà. 

Gli anni del tuo incarico fucino coincidono con la scelta religiosa dell’Aci di Vittorio Bachelet. Che ricordo hai di quel periodo?

Da giovane ero contrario alla scelta religiosa ma oggi so che mi sbagliavo. Mi appariva come una scelta timida e avrei voluto uno schieramento netto con i poveri e i paesi poveri, in nome di don Milani e del vescovo Camara. Fu un periodo di grande travaglio, ma – direi – né più né meno che l’attuale. 

Se dovessi trovare un aggettivo per ciascuna delle stagioni ecclesiali che hai attraversato, quali sceglieresti?

Vado sui Papi e dedico un ossimoro a ciascuno. Montini: dolente e magnifico. Luciani: ridente e fuggitivo. Wojtyla: eroico e giocoso. Ratzinger: mite e fermo. Francesco: severo e misericordioso.

Su Francesco si dicono molte cose. Qual è l’aspetto che più ti colpisce?

“La riforma della Chiesa in uscita missionaria” (n. 17 della “Evangelii gaudium”), che è il cuore della sua predicazione. Sono convinto che la vera novità del Papa argentino sia qui e oso affermare che se non obbediamo a quella chiamata vanifichiamo l’intera dote – o dono – che da lui ci viene e che tutta è in funzione della chiamata all’uscita.

Quali sono gli orizzonti di questa Chiesa dell’uscita?

Sono quelli – epocali – del passaggio dal modello di Chiesa costituita della tradizione europea alla forma più agile di una Chiesa missionaria adeguata all’epoca post moderna, caratterizzata da un processo globale di secolarizzazione. Se non l’aiuteremo a compiere questo passaggio, che lui chiama uscita; se non usciamo con lui, Francesco resterà un Papa simpatico, estroverso, che ha alleggerito i conflitti con la modernità e che ha semplificato l’immagine e il linguaggio, ma che non avrà ottenuto quello per cui è stato eletto, in accoglienza – si direbbe – al monito ch’egli stesso aveva rivolto ai confratelli cardinali alla vigilia del Conclave: la chiamata della Chiesa a uscire da se stessa per evangelizzare. La Chiesa in uscita va oltre l’ovile, le mura, la pedagogia, l’anagrafe, il linguaggio della Chiesa costituita, che sono stati grandi, gloriosi, ma non sono più in grado di parlare all’umanità circostante. La Chiesa costituita si curava innanzitutto dei “fedeli”, la Chiesa in uscita cerca per primi i non credenti.

Come hai affrontato la sfida di raccontare la Chiesa dalle pagine dei quotidiani laici?

Come piccola parte della sfida complessiva che i credenti si trovano oggi ad affrontare di fronte al mondo della non credenza. Se ti trovi a un ricevimento o dal barbiere e c’è chi irride al matrimonio cristiano non sei in una posizione diversa rispetto al giornalista che scrive sui giornali laici. 

Quali sono i pregiudizi dell’informazione laica verso il mondo cattolico? 

Intendono la Chiesa come gerarchia e la vedono come una realtà politica che tende al governo temporale, diretto o indiretto, da perseguire per via religiosa. Dovremmo tener un maggior conto di questo pregiudizio. Per esempio quando noi stessi identifichiamo la voce della Chiesa con quella dei vescovi, o quando riduciamo i vescovi al solo Papa.

Che linguaggio bisognerebbe adottare per l’informazione religiosa?

La lingua media comprensibile a tutti, che è regola del giornalismo in generale, con l’avvertenza specifica della necessità di tradurre in essa il linguaggio della fede. Tutto ciò arricchito dal linguaggio dei segni e delle storie di vita: dall’eloquenza dei gesti, come dice Papa Francesco. Nel mercato dell’informazione, la notizia forte (cioè suscettibile di un uso concorrenziale) scaccia quella debole; e la notizia religiosa rischia di risultare debolissima ogni volta che si riduce a messaggio verbale, o a segnalazione di avvenimenti interni alla comunità ecclesiale. Essa invece può esser forte quando veicola un gesto o una storia di vita. 

Sei conosciuto come un narratore di storie di vita che chiami “fatti di Vangelo”: com’è nata questa passione? 

Ho iniziato a raccoglierli nel marzo 1993, su impulso di Tonino Bello, il vescovo della diocesi di Molfetta: egli era morente e io ero andato a fargli visita; e mi chiese di aiutarlo a trovare ‘segni di speranza’ per l’omelia del Giovedì Santo che fu la sua ultima. Don Tonino morì due settimane dopo e io mi dissi: quello che mi ha chiesto questo caro vescovo morente io voglio farlo come opera della mia vita. 

Oggi questi “fatti” si trovano ancora? 

Essi ci sono ovunque due o tre si riuniscono ‘nel suo nome’. Persone che amano fino a dare la vita, che perdonano gli uccisori dei parenti, che inventano ogni forma di nuova carità per i nuovi bisogni, che accettano la malattia, la vecchiaia e la morte in attesa della risurrezione. I fatti di Vangelo ci sono sempre nella Chiesa: è la loro comunicazione che risulta generalmente inferiore alla loro consistenza. 

Che giudizio dai delle comunità cristiane del nostro Paese, che continui a visitare con la tua attività di conferenziere? 

Ottimo quanto a carità vissuta. Dubbioso quanto a capacità di attestare in parole la fede. Comunque non sono pessimista. E’ in crisi l’organizzazione ecclesiastica e la permanenza della religione tradizionale, non la presenza del Vangelo nella vita delle persone.

Di che ha bisogno la Chiesa oggi? In quale direzione i credenti dovrebbero impegnarsi di più?

Nell’attestazione in parole e opere del mistero di amore che professiamo, come ci stimola a fare Francesco e come già predicava Benedetto. Ma è una domanda superiore alle mie vedute. Dal mio punto di osservazione mi auguro la crescita di una reale tolleranza interna che permetta qualche riforma e una ripresa di iniziativa nel campo ecumenico e in quello della pace. Per la vita e il raggio d’azione dei cristiani comuni, spero che cresca il confronto sugli impegni storici. Non mi auguro il ritorno di un partito cattolico o di indicazioni elettorali da parte dei vescovi, ma la creazione di ambiti e momenti nei quali tutti i cristiani impegnati nella vita pubblica, non solo politica, possano discutere le loro esperienze e maturare indicazioni condivise. 

Da anni hai un blog d’autore e da qualche mese sei in Instagram. Perché hai scelto di sperimentare una presenza cristiana nella Rete? 

I cristiani debbono essere ovunque e ognuno deve contribuire a questa presenza secondo le proprie competenze. Vedo che anche i nuovi media sono attratti dalla diatriba e io in questo accanimento vorrei portare un germe di tolleranza, di accettazione del diverso. Di simpatia per l’universo, in definitiva. E di carità cristiana. Ma l’idea di partenza era di dedicarmi alla ricerca dei fatti di Vangelo per le vie della Rete, passando dalla raccolta in volume allo strumento più agile, più veloce e più capiente di un sito internet.

E di Instagram che dici? 

Ci sono entrato per una scommessa: quella di imparare un nuovo linguaggio. Mi affascina la sua comunicazione veloce e per immagini. Cerco di usarlo mescolando alle immagini le parole. Ma soprattutto mi applico ad apprendere in esso la comunicazione dei giovani e dei giovanissimi. 

Sei anche attivo in parrocchia: i nuovi media possono essere d’aiuto alla vita parrocchiale?

In parrocchia do una mano in attività del tutto tradizionali: quelle caritative e quelle culturali. Ma vorrei aiutare la comunità a passare dal cartaceo al digitale e da un sito Internet bacheca a un sito interattivo. Dove cioè i visitatori possano fare domande e dire la loro. Il sito parrocchiale, questo sconosciuto: che farne, oltre a metterci gli orari delle messe e il calendario degli appuntamenti? Qui le nostre comunità sono indietro sui tempi che corrono. Penso che potrei aiutare la mia parrocchia a realizzare un indirizzario digitale che permetta di raggiungere con sufficiente sicurezza, per posta elettronica e attraverso la messaggistica scritta e vocale, l’insieme della popolazione. Lo vedo come un primo minimo passo – ma adeguato ai tempi – della Chiesa in uscita.