Mons. Dal Covolo, Per una formazione di base del ministro consacrato

(cfr. Pastores dabo Vobis, nn. 43-45) 

Carissimi confratelli,

in questa meditazione lascio da parte, in una certa misura, la mia competenza teologico-patristica.

Il motivo è che vorrei commentare con voi i paragrafi che nel capitolo quinto di Pastores dabo Vobis (PDV) riguardano la funzione delle virtù umane nella formazione dei pastori e nell’esercizio della loro attività pastorale.

E’ un tema che mi sembra sempre più urgente, e – purtroppo – alquanto trascurato.

Tornano subito alla mente le Lettere del nostro ven. don Giuseppe Quadrio (oggi sarebbe il suo onomastico; ed è anche l’inizio dell’Anno Giuseppino, indetto dal Papa).

L’umanità è per don Quadrio una componente essenziale del sacerdozio. 

Purtroppo – così egli si rammarica con gli ex-allievi del 1960, nel terzo anniversario della loro ordinazione – “ci può essere un sacerdozio disincarnato, in cui il divino non è riuscito ad assumere una vera e completa umanità (docetismo). Abbiamo allora dei preti che non sono uomini autentici, ma larve di umanità; dei ‘marziani’ piovuti dal cielo, disumani ed estranei, incapaci di capire e di farsi capire dagli uomini del proprio tempo e del proprio ambiente. Dimenticano che Cristo, per salvare gli uomini, ‘discese… si incarnò… si fece uomo’, ‘volle diventare in tutto simile a loro, fuorché nel peccato’. Se siamo il ponte fra gli uomini e Dio, bisogna che la testata del ponte sia solidamente poggiata sulla sponda dell’umanità, accessibile per tutti quelli per cui questo ponte fu costruito”.

1. Pastores dabo vobis

Come è noto, l’Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis sulla formazione dei sacri ministri – firmata da san Giovanni Paolo II il 25 marzo 1992 – rimane il documento magisteriale più importante del Postconcilio sulla formazione sacerdotale.

Cerchiamo dunque di comprendere e di approfondire le indicazioni di PDV riguardo alla formazione umana del presbitero, collegandole con i processi sottesi e con il contesto educativo, per noi carismatico nel nome di Don Bosco.

L’affermazione da cui partono le nostre considerazioni si trova al n. 43, ed è la propositio 21 di questo documento postsinodale: «Senza un’opportuna formazione umana l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva del necessario fondamento».

È chiaro che un edificio non consta delle sole fondamenta; tuttavia la sua solidità dipende in buona parte dalle fondamenta stesse: questa “parabola” descrive abbastanza bene la funzione della formazione umana dei pastori.

Il testo di PDV mette in luce le ragioni dell’affermazione sopra riportata, soffermandosi particolarmente sul fatto che varie espressioni di una personalità umanamente ben formata favoriscono l’efficacia dell’attività pastorale.

E’ utile però approfondire anche quegli accenni alla sanità della struttura umana in sé stessa, per meglio comprendere quale debba essere quell’“umanità formata” che dovrebbe caratterizzare il pastore.

Nelle scienze umane, invece di “umanità formata” si parla di “salute mentale” e di “maturità psichica”: il secondo termine connota una certa completezza e perfezione dello stato designato dal primo. Entrambi i termini richiamano, più o meno esplicitamente, un ideale, un “dover-essere” che esula, almeno in parte, dalle competenze dello psicologo, e suppone una concezione generale dell’uomo, dei suoi fini, e perciò dei valori, la cui attuazione rende la persona “sana” e “matura”.

La funzione di “interfaccia” fra le scienze umane e le richieste della formazione sacerdotale può essere espletata in modo adeguato solo da quelle correnti psicologiche che riconoscono l’originalità e la funzione organizzatrice delle intenzioni e dei progetti tesi alla realizzazione di valori che sono centrali nella vocazione sacerdotale.

Così, sebbene la psicanalisi o la psicologia detta “comportamentista” offrano preziosi contributi per comprendere e trattare determinati aspetti della condotta umana, tuttavia l’unilateralità delle loro prospettive non permette di considerarle come punti di avvio per un dialogo generale fra le scienze umane e la formazione sacerdotale.

A questi requisiti corrisponde invece in modo soddisfacente la corrente dei cosiddetti “psicologi umanisti”; così mi è parso opportuno riferirci a questa corrente nel nostro approfondimento.

E’ utile raccogliere i suggerimenti di questa corrente almeno per due concetti fondamentali: la direttività e la partecipazione.

2. La “direttività”

Devo precisare subito in che senso uso il termine “direttività”, che viene impiegato in modo diverso dai trattati di psicologia.

Qui io la intendo, in maniera originale e appropriata alla nostra meditazione, come direzione che orienta decisamente il cuore e la mente del presbitero verso una mèta ben precisa: la configurazione progressiva a Cristo sacerdote e pastore. 

La corrente umanista riconosce due disposizioni fontali della condotta: vi si parla di una disposizione generale “proattiva”, quando il modo fondamentale di agire della persona si può descrivere come una ricerca del bene, un orientamento verso un futuro migliore, un impegno costruttivo, sostenuto dalla fiducia in sé stessi e dalla valutazione positiva della realtà e degli altri, che sono visti come amici e possibili collaboratori. Il tono affettivo di base è caratterizzato dalla gioia di costruire e di espandersi.

L’altra disposizione fontale è quella detta “reattiva”; la persona sente incombere su di sé il male e il fallimento; il suo bisogno centrale è perciò quello dell’autodifesa, che si concretizza in una fuga dal passato e nel bisogno di ripararvi; l’impressione dominante è quella della propria indegnità e incompetenza; ne consegue una difesa ossessiva dalla propria inferiorità, dai propri impulsi e una dipendenza dalle pressioni esteriori o una reazione esagerata alle stesse. Il tono affettivo di base è di ansietà e di rassegnazione.

È ovvio che se predomina la prima disposizione la persona è in grado di assumere impegni in modo responsabile, e gestirli in modo efficiente, mentre nella seconda disposizione più facilmente si avrà la persona rassegnata, il “funzionario” che resta spettatore della vita e rifugge dal coinvolgimento personale.

La “direttività” (nel senso che abbiamo adottato) esprime una componente essenziale della disposizione proattiva, e coincide con un impegno illuminato, forte e costante (non cieco e testardo) con un bene intuito, nel nostro caso con la Persona di Gesù Cristo, e con le persone dei fratelli.

La prima conseguenza della direttività è la capacità di governare sé stessi, e cioè di rimanere fedeli e costanti nella ricerca del bene, superando il richiamo sempre presente degli impulsi, o la tentazione di evitare lo sforzo per crescere. A questo riguardo possiamo richiamare l’interpretazione “umanistica” della sublimazione: il superamento degli impulsi, in una persona governata da ideali, non avviene a malincuore né cercando compensazioni, come direbbe Freud, ma nella gioia di realizzare un bene desiderato, con la forza data dall’amore a questo bene. 

Se dovessimo fare un esempio, potremmo dire che la prima formazione alla castità non è la cura di evitare il peccato, ma la crescita nell’amore personale a Gesù Cristo.

Su questo argomento ci vorrebbe una meditazione ulteriore. In particolare, trovo che l’educazione del consacrato e del presbitero a una sessualità matura è scarsa nei seminari e nei centri di formazione. Viceversa, tenendo conto anche dello sviluppo della tecnologia informatica e dei vari social, bisognerebbe porsi il problema.

Forse si ha paura di parlarne? O forse questo è un argomento di cui si deve parlare solo in foro interno? Francamente, non saprei. Forse è vera l’una e l’altra cosa.

La capacità di governare sé stessi comporta anche l’integrazione della propria emotività, e cioè l’assunzione organica dell’emotività stessa nell’insieme totale della propria vita. 

È vero che una dose di trepidazione è propria di ogni persona che si ponga seriamente di fronte ai compiti della vita; vi possono inoltre essere ragioni pesanti di ansietà nella storia individuale; tuttavia è possibile una fondamentale fiducia di fronte alla vita, sia partendo da esperienze e considerazioni umane della propria competenza e dignità, sia appoggiandosi all’amore del Padre Celeste.

Questa base di sicurezza permette di tollerare senza traumi devastanti le difficoltà e gli inevitabili fallimenti, le incertezze e i rischi del futuro, e permette di ricominciare sempre da capo.

Con questo non si vuol dire che la persona matura non prova sentimenti ed emozioni, ma che abitualmente le gestisce in modo che non intralcino, anzi favoriscano il suo cammino.

Un’altra conseguenza della direttività è la costruttività: la vita della persona matura è governata dal bene che essa si propone. Il passato non la interessa, se non nella misura in cui l’aiuta a realizzare il futuro; vede il male e gli ostacoli, ma non ne resta ipnotizzata, e ricerca abitualmente come realizzare il bene inteso.

Gli psicologi umanisti descrivono bene la “costruttività” esaminando il processo della decisione personale: questa, nella persona matura, risulta come un processo in cui un progetto generale e uno stile personale di vita si incarnano, si precisano e si impongono nell’incontro con le difficoltà della situazione. Si parla, in modo significativo, di “decisioni crescenti”, in cui tutte le componenti della persona sono a poco a poco assunte nella realizzazione di un ideale.

L’unificazione della persona, dei pensieri e dei sentimenti, delle valutazioni e delle operazioni, delle sofferenze, delle vittorie e dei fallimenti, attorno a un’“intenzione cardinale”, è il frutto maturo della direttività.

Bisogna rilevare che questa integrazione non è uno stato che può essere raggiunto una volta per sempre, ma resta un compito per ogni giorno, di fronte a ogni difficoltà, a ogni lavoro, a ogni dolore, a ogni consolazione. 

È qui che si fonda l’esigenza di una “formazione permanente”. Ma di questo, magari, parleremo un’altra volta, cominciando però a dire già qui che la cosiddetta “formazione permanente” deve orientare e guidare la “formazione iniziale” dei consacrati e dei presbiteri. 

3. La “partecipazione” concreta alla direttività

La direttività rappresenta una disposizione centrale della persona matura; questa disposizione ha un oggetto, tende a un “bene”.

Quale debba essere questo “bene” è suggerito dalla natura stessa del processo che lo cerca: un processo che nasce dalla conoscenza e dall’amore, e che perciò tende a incontrare un essere personale, capace di corrispondere con altrettanto (o maggiore) amore e conoscenza. 

La persona matura è diretta verso persone, non solo verso cose o idee.

Nel nostro caso, la prima Persona che va cercata come bene, a cui la vita è diretta, è Dio, il Dio della nostra fede, il Dio di (o che è) Gesù Cristo, sacerdote e pastore. La ricerca e l’incontro con Dio, in una religiosità autentica, hanno una funzione fondante e propulsiva unica, in quanto indirizzano la persona verso il “Tu totale”, con un’apertura verso un futuro di completezza senza confini.

Il significato di questa posizione sta nel mettere in luce che la religiosità autentica, quella in cui Dio è cercato per sé stesso, non è un elemento estraneo e neppure marginale nella crescita umana, ma ne è la forza più potente, e insieme il frutto più completo.

È su questa maturazione umana verso il trascendente (o il “Tu totale”) che si fonda un rapporto autentico con Dio, e l’accoglienza della vocazione a seguire più da vicino Gesù Cristo, collaborando con lui nel ministero pastorale.

Ma oltre al rapporto con il “Tu totale” la persona matura è “diretta” verso le altre persone umane, ed è capace di un incontro costruttivo con esse.

Il primo passo verso l’altro è l’apprezzamento, fondato sulle caratteristiche essenziali, e perciò “profonde”, della persona.

Un apprezzamento profondo verso la persona come tale viene raggiunto estendendo, con l’immaginazione, agli altri le proprie esperienze di vita più elementari e impegnative. Una persona arriva a sapere che tutti i mortali sono nella medesima condizione umana: sono gravati dall’intenso desiderio di sopravvivere e colpiti da impulsi e passioni; incontrano fallimenti e sofferenze, ma in qualche modo tirano avanti. E la fede completa queste considerazioni naturali e ci aiuta a vedere nelle persone umane “dei chiamati” da Dio alla vita eterna e ad essere figli di Dio.

Attraverso una tale percezione dell’altro, il pastore di anime è aiutato a superare gli ostacoli “di superficie”, provenienti da caratteristiche marginali delle persone, come possono essere aspetti fisici, caratteriali, razziali…, per giungere a considerare le persone nelle loro aspirazioni e sofferenze più profonde, e nella luce del piano di Dio su di loro. 

In questo modo si arriva a una più vera conoscenza delle persone.

L’apprezzamento delle persone porta alla loro comprensione empatica.

La comprensione parte dal presupposto, in genere sottinteso, che l’altro merita di essere considerato e rispettato per sé stesso, e consiste nel “mettersi nei panni” dell’interlocutore, per poter avere con lui un contatto autentico. Più precisamente si tratta di tener conto del come l’altro vede e valuta la situazione, in seguito alla sua esperienza, alle sue idee, alla sua formazione; bisogna poi anche considerare i suoi sentimenti, le inclinazioni e repulsioni che prova, e i motivi, coscienti o inconsci, che lo muovono. La capacità di comprensione comporta da una parte una disposizione quasi ascetica di uscire da sé stessi e di considerare come possibili altri punti di vista, oltre il nostro; d’altra parte suppone una conoscenza approfondita dei processi psichici, che abitualmente si acquisisce con apposito studio.

Tener conto della situazione interna dell’interlocutore non significa necessariamente condividere le sue idee, i suoi motivi o i suoi sentimenti; tuttavia, per accompagnare l’interlocutore verso quei valori che egli già ha in germe dentro di sé, occorre partire da quella situazione interna e camminare insieme a lui.

L’atteggiamento di comprensione suppone una personalità in sé stessa solida, con una forte identità, e perciò capace di accostare intimamente gli altri senza la paura – e il pericolo – di essere distolti dal proprio cammino.

L’atteggiamento di comprensione si prolunga nella capacità e nel bisogno di dialogo. L’inclinazione al dialogo si basa sulla fiducia nell’intelligenza e nell’onestà dell’interlocutore, e nasce dal non sentirsi mai “arrivati”; al contrario, coscienti dell’ampiezza del compito di essere uomini e cristiani, si è sempre in ricerca, contenti di condividere con gli altri questo cammino, in uno scambio di dare e ricevere. Si può riconoscere nella disposizione al dialogo, specie nella comunicazione pastorale, il “carattere euristico” del sentimento religioso maturo. 

Il dialogo suppone, e dimostra all’interlocutore, che i valori in cui il pastore crede e che vuole trasmettere non sono invenzioni private, ma beni reali, connaturali anche con il fedele che ascolta. Si crede perciò che egli ne senta naturalmente l’attrazione, purché si trovi nelle condizioni interiori ed esteriori opportune; se si eccettuano le funzioni propriamente sacramentali, il pastore non sarà che la proposta esterna di quanto per natura e per grazia già è radicato nell’interlocutore e attende di svilupparsi.

Mentre il dialogo valorizza l’interlocutore, dà esempio di ricerca volonterosa e onesta, e facilita la comunicazione; l’atteggiamento dogmatico, al contrario, mantiene distanti le persone e favorisce nell’interlocutore una disposizione di rivalsa e di contraddizione.

Anche il pastore d’anime, pur essendo ministro della parola e incaricato di un governo sacro, avrà maggior frutto nel suo apostolato se si considererà non maestro, ma condiscepolo, non sovrano, ma servo, e se farà in modo che così lo percepiscano i fedeli a lui affidati.

Su questa disposizione al dialogo crescono poi le realizzazioni pastorali che coinvolgono con fiducia i fedeli laici, accolgono e favoriscono la loro partecipazione ai compiti della Chiesa, secondo il loro ruolo, nelle forme più svariate di collaborazione.

4. Conclusione

Il quadro di riferimento finora presentato permette di collocare nel loro contesto logico gli aspetti della formazione umana dei pastori ai quali PDV dedica maggiore attenzione.

Al n. 43 il testo parla di «personalità equilibrate, forti e libere».

Ora, un equilibrio interiore non si può immaginare senza un sicuro ancoraggio a scopi e ideali, come si è accennato parlando della caratteristica della “direttività”; la stessa disposizione è alla base della “forza dell’io”; d’altra parte il governo delle emozioni, unito alla chiarezza di una prospettiva aperta a Dio e ai fratelli, rende il pastore psicologicamente e spiritualmente “libero”, e «capace di portare il peso delle responsabilità pastorali» (PDV 43). 

Nello stesso paragrafo l’Esortazione parla della capacità di relazione personale, di comprensione, di dialogo e di collaborazione: di queste disposizioni si sono visti i fondamenti e le articolazioni, parlando della dimensione della “partecipazione”.

Il n. 44 di PDV è in buona parte dedicato all’importante tema della maturazione affettiva, vista come condizione per la donazione generosa a Dio e ai fratelli e per un celibato vissuto con amore gioioso. La maturazione affettiva ha le sue basi nel sentimento vissuto della propria dignità di uomo e di figlio di Dio, e nell’apertura “profonda” agli altri; essa si esprime in un’umile sicurezza nella capacità di incontrare gli altri con fiducia e con rispetto, nel desiderio di condividere quanto vi è di più bello e importante in sé e nelle altre persone. Questa disposizione a crescere insieme (e la fede ci insegna che questo è un crescere verso Dio fino a divenire «a lode della Sua grazia») libera la persona dalla ricerca di soddisfazioni egoistiche. 

La radice di tutto resta ancora la “direttività”, come tensione mai saziata verso “il bene”.

Naturalmente non possiamo pensare a una sorta di “angelismo”. L’affettività fa anche parte di un istinto, quello sessuale, che ha i suoi meccanismi e la sua logica. Resta perciò sempre il compito di purificare le intenzioni, di chiarire il significato di incontri e situazioni, di non ricercare ciò che, per sua natura, può avviare una linea di condotta istintiva che non è in accordo con ciò che il Signore si attende dalla persona consacrata e che la persona stessa persegue sinceramente come intenzione e direttiva centrale della sua vita. 

Di questo abbiamo già fatto cenno. Vi dicevo fra l’altro che su questo argomento ci vorrebbe una meditazione a parte.

Nello stesso n. 44 troviamo la conferma della centralità della “direttività” nella formazione del futuro pastore. Dice infatti il testo che la formazione, soprattutto affettiva, «si configura come obbedienza convinta e cordiale alla “verità” del proprio essere, al “significato” del proprio esistere, ossia al “dono sincero” di sé, quale via fondamentale e contenuto dell’autentica realizzazione di sé».

Questa formazione umana, che rende la persona decisamente diretta al bene, a Dio e ai fratelli, costantemente intesa a costruire, a crescere interiormente, capace di apprezzamento, di comprensione profonda, di dialogo e di collaborazione, è, come ogni crescita umana e cristiana, prodotto di un serio impegno umano e insieme della “chiamata” e della grazia di Dio, e costituisce quella solida base richiesta per la formazione spirituale e pastorale più specifica.

***

Tu, seguimi! 

Questo invito – che un giorno il Signore rivolse a Pietro sulle rive del mar di Galilea – questo invito Gesù lo rivolge oggi a te! 

Seguiamolo, disponendoci coraggiosamente e lealmente a una formazione umana e spirituale autentica.

Nel dono generoso di noi stessi scopriremo la via della santità, la via della vera felicità. Saremo, come don Bosco, «con i giovani, per i giovani»!  

Allora, voltandoci indietro a guardare nel tempo, anche a noi sembrerà di “comprendere tutto”: che cioè il Signore ci guida sempre per mano, con amore infinito, lungo il cammino della nostra vita.

Signore Gesù, ti chiediamo questa grazia incomparabile: che il nostro cuore sia veramente il cuore del buon Pastore, aperto alla misericordia e alla carità, secondo l’esempio di san Giovanni Bosco…

Un intervento su “Mons. Dal Covolo, Per una formazione di base del ministro consacrato

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