Davidia Zucchelli, Volontari dentro e fuori il carcere

Davidia Zucchelli *

Volontari dentro e fuori il carcere

Riflessioni da una esperienza

L’attività di volontariato in carcere è condotta da numerose associazioni laiche e religiose, alcune a livello nazionale, altre attive solo in alcuni istituti. Secondo la normativa che regola l’accesso ai penitenziari, in Italia il volontariato è di tre tipi[1]: volontariato di singoli, la forma più tradizionale ma oggi la meno diffusa, volontariato di singole associazioni e volontariato di gruppi di associazioni coordinate da una più ampia organizzazione. L’autorizzazione per l’accesso in istituto è comunque nominativa, rilasciata ai singoli volontari, ed è disciplinata dagli articoli 17 e 78 dell’ordinamento penitenziario (L. 354/1975). L’art. 17 di tale ordinamento consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che «avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera». L’art. 78 disciplina un’attività di volontariato più specifica e comprende la collaborazione con gli operatori istituzionali nelle attività trattamentali e risocializzanti. Oltre che entrare in carcere, i volontari ex art. 78 possono anche collaborare con gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (U.E.P.E) nell’esecuzione delle misure alternative alla detenzione e per l’assistenza a coloro che escono dopo aver scontato la pena e alle loro famiglie.

* Economista, è il referente-coordinatore del gruppo Carcere della Parrocchia S. Francesco al Fopponino di Milano che svolge attività di volontariato presso la Casa Circondariale F. Di Cataldo – San Vittore. Membro della redazione di «Munera».

Dossier: Il carcere oggi Munera, 3/2019, pp. 77-86

78 ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ Davidia Zucchelli

In altre parole, lo scopo di questi due articoli è quello di consentire alla società civile di partecipare alla risocializzazione dei detenuti attraverso attività di vario genere che hanno come fine il rafforzamento dei contatti fra il carcere e la società libera, anche in vista di un futuro reinserimento nella società. Sulla base dell’esperienza vissuta nel carcere di San Vittore di Milano, in queste brevi note vorrei richiamare l’importanza dell’attività svolta dai volontari, sottolineando talune peculiarità che meritano particolare attenzione e alcune criticità.

1.​ ​ ​ ​Un piccolo esercito

Il Ministero della Giustizia fornisce numerose statistiche sulle at-tività svolte nelle carceri. In particolare, dai dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP)[2] emerge che nel 2018, in tutto il territorio nazionale, i volontari ex art. 17 superavano le 15.500 unità, sostanzialmente stabili rispetto al 2017 (15.594); mentre i volontari ex art. 78 sono leggermente aumentati, per un totale di 1.301 persone (1.248 nell’anno precedente), invertendo il trend degli ultimi anni. Il totale dei volontari è pertanto rimasto sostanzialmente stabile rispetto al 2017: 16.838 rispetto ai 16.842 dell’anno precedente. Il 40% (6.214 in valore assoluto) delle attività in cui i volontari ex art. 17 sono coinvolti sono soprattutto sportive, ricreative e culturali, al secondo posto con il 28% (4.346) si trova il sostegno alla persona e alle famiglie, seguono le attività religiose (23.5%, in aumento dal 19% del 2017) e di formazione e lavoro (8.6% rispetto al 9%). Invece, fra i volontari ex art. 78, con percentuali stabili rispetto all’anno precedente, il 63% (818) opera nel settore del sostegno alla persona e alle famiglie. La più elevata percentuale rispetto ai volontari ex art. 17 è da ricollegare semplicemente alla specifica funzione di collaborazione esterna svolta da questi volontari. Seguono le attività sportive, ricreative e culturali (19%) e quelle religiose (15%). Il restante 3.5% è occupato in attività di formazione e lavoro.

79 ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ V olontari dentro e fuori il carcere. Riflessioni da una esperienza

Tabella 1.

Fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Dalle rilevazioni del Ministero della Giustizia emerge inoltre che gran parte dei volontari appartiene a un’associazione. Le associazioni di volontariato sono numerose,[3] alcune specializzate, altre svolgono attività diversificate. Numerosi tuttavia (oltre il 20% del totale dei volontari a fine 2018) sono i volontari individuali che si avvicinano a una realtà tanto complessa quale quella del carcere anche senza avere competenze specifiche.[4] Il numero complessivo dei volontari nelle nostre carceri è costantemente aumentato nell’ultimo decennio, raddoppiando da più di 8000 a oltre 16.000 unità. Purtroppo però sfuggono alle rilevazioni statistiche ufficiali coloro che operano al di fuori delle carceri, e sono numerosi. Si tratta di persone di ogni estrazione sociale, spesso pro-fessionisti in pensione, e molte sono le donne.

80 ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ Davidia Zucchelli

Grafico 1. Volontari nelle carceri italiane (migliaia)

Fonte: ns. elaborazione su dati DAP.

2. Un ruolo strategico

I volontari, inutile dirlo, svolgono un ruolo centrale. Ma chi può aiutare il cammino di rieducazione dei carcerati? A questo proposito, il Cardinale Martini, che tanta attenzione dedicò a San Vittore, scrisse: «La persona educa la persona. Voglio dire che ogni azione educativa o rieducativa avviene attraverso il coinvolgimento di almeno un’altra persona. Chi è detenu to e si perde per depressione o per aggressività, deve sapere che c’è una persona che si interessa a lui seriamente e di cui lui stesso può interessarsi».[5] Diventare volontario è semplice, ma molte associazioni chiedono di seguire un corso di formazione. Se è assolutamente vero che non vi sono esperienze professionali più utili di altre, né sono richieste abilità particolari, è anche vero che il volontario del carcere è un po’ speciale: non è psicologo, non è medico, non è insegnante, ma è un po’ di tutto questo insieme. Il volontario deve avere, prima di tutto, piena consapevolezza del fatto che, per quanto utile e indispensabile, è “ospite” in una struttura che ha regole molto precise, ben chiare, che devono essere rispettate, sempre, anche per evitare di perdere l’autorizzazione all’accesso.

È chiesto quindi – questo sì – un grande sforzo di umiltà, di pazienza e di servizio, di rispetto e di riservatezza. Se ciò è intuitivo, forse non lo è un altro requisito essenziale: l’equilibrio interiore e la “sicurezza” di potersi impegnare per un tempo relativamente lungo. La presenza in carcere infatti genera l’attesa dell’incontro, il detenuto aspetta, in lui/lei spesso nasce il bisogno di ritrovarsi, di rivedersi, il bisogno di continuità. E i tempi in carcere sono lunghi; il tempo trascorre con lentezza, si dilata, occorrono minuti solo per aprire e chiudere una porta dietro di sé.

Entrare in carcere da volontari è complicato non solo per le disposizioni di sicurezza, ma soprattutto per le implicazioni psicologiche. È naturale essere assaliti dalla brutta sensazione di “andare a vedere”, quasi di “curiosare”, o persino di “sentirsi orgogliosi di sé stessi/gratificati per il bel gesto compiuto”, ed è una reazione del tutto comprensibile. Occorre semplicemente scacciare questi pensieri. Occorre piuttosto trasmettere il desiderio e il piacere di partecipare, con la disponibilità a un’apertura verso persone che sono in difficoltà, cercando di trasmettere loro, direttamente con la propria presenza, un po’ di considerazione piuttosto che indifferenza.

Con riferimento al proprio credo religioso, la fede non è ovviamente un requisito necessario, non certo nel senso di dover essere battezzati, ma è anche vero che nei fatti chi crede trasmette serenità, sicurezza, stabilità, equilibrio; quelle qualità che sono essenziali per poter mantenere un impegno complesso nel tempo.[6] Può essere difficile altrimenti riuscire a superare piccoli o grandi segni di ingratitudine, di mancanza di rispetto, sgarbi o altro, che, inevitabilmente, in contesti di forte tensione e dolore, possono colpire, anzi per certo colpiscono il volontario.[7]

82 ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ Davidia Zucchelli

Il carcere ha bisogno di tutto e ogni cosa va organizzata con cura, come fosse un’azienda, un quartiere fra gli altri quartieri della città. Qualche anno fa, l’Italia è stata condannata perché le sue carceri non garantivano una permanenza dignitosa ai detenuti, ovvero per trattamento degradante, e quindi si decisero le dimensioni minime della cella (circa 3 mq per persona). Va da sé che non è un problema di quantità ma di qualità, perché “custodire” non è questione di spazio ma vuol dire prendersi cura delle persone a prescindere da quello che hanno compiuto, solo per il fatto che sono “persone”. «E si può cambiare! Possono cambiare anche i mafiosi» – come ci hanno testimoniato numerosi operatori di grande esperienza – ma questo richiede tempo, esige un lungo percorso di elaborazione interiore. Certo, in un carcere come San Vittore i tempi di permanenza sono talmente brevi che non si può pensare che la persona “cambi”, che possa prendere coscienza di quello che ha fatto e maturare una consapevolezza del male compiuto, tuttavia è convinzione diffusa che occorre intervenire tempestivamente. Rispetto ad altre sedi, infatti, San Vittore è propriamente una casa circondariale dove arrivano gli imputati in attesa di giudizio che rimangono in media più o meno tre mesi, quindi per un periodo molto limitato. Questo incide molto sul loro atteggiamento: l’imputato per definizione si dichiara “innocente”, e fa di tutto per dimostrare di esserlo; raramente confessa (altrimenti si autocondanna) e, per una reazione psicologica facilmente comprensibile, non è disposto a mettersi in discussione, non si preoccupa delle vittime e del male che ha fatto e nei confronti degli agenti si pone nell’atteggiamento di chi vuole “tutto e subito”. L’imputato peraltro vive in una condizione paradossale: mentre il condannato può beneficiare di una serie di provvedimenti e di misure cautelari alternative (ad es. i cosiddetti “domiciliari”), per l’imputato vi sono meno strumenti agevolativi e risulta di fatto “punito”. Gran parte dei detenuti sono stranieri extracomunitari che vengono catapultati in un altro mondo, in un contesto culturale radicalmente diverso, con abitudini alimentari e comportamentali lontane dalle nostre e spesso con una limitata capacità di comprensione e di confronto.

​ Il volontario del carcere è un po’ speciale: non è psicologo, non è medico, non è insegnante, ma è un po’ di tutto questo insieme.

83 ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ Volontari dentro e fuori il carcere. Riflessioni da una esperienza

Il ruolo dei volontari è strategico anche per gli agenti. Negli istituti dove la presenza di volontari e contatti con l’esterno è bassa risulta più difficile il lavoro del personale interno alla struttura, su cui ricadono tutte le fragilità e frustrazioni che i detenuti non riescono o non possono esprimere attraverso le attività e i contatti con il mondo esterno.[8]

Nel rapporto con i detenuti, mentre gli agenti rappresentano l’Istituzione, che è il “nemico da combattere”,[9] ciò che rende i volontari insostituibili è proprio il loro disinteresse, il fatto di operare gratuitamente: chi opera senza alcun tornaconto personale, chi decide di investire il suo tempo, solo costui “buca”, riesce cioè a entrare “in relazione” con i detenuti, a ottenere da loro più facilmente fiducia e rispetto. Certo il volontario non può “giudicare”, deve occuparsi del detenuto indipendentemente da quello che ha commesso, con l’unico obiettivo di aiutarlo a fare un percorso di vita nuova. Però, anche quando i tempi brevi di permanenza, come ho già ricordato, lo rendono difficile, occorre aiutare i detenuti a prendere in mano la propria vita per farne un’altra storia.

Sotto il profilo organizzativo, è molto importante tenere presente che i volontari entrano a far parte – con gli agenti, i medici, la cappellania – di una rete di operatori che devono tra loro interagire: ognuno rappresenta un tassello del puzzle che ha come fine ultimo il sostegno al detenuto, attraverso la condivisione delle informazioni (come eventuali disturbi fisici o particolari problemi familiari) e il confronto continuo. La rete deve essere compatta per evitare che si creino legami diretti fra i singoli volontari e i detenuti, poiché il servizio – questo deve restare – deve essere percepito come offerto da un’organizzazione sociale coesa. Non si tratta di violare la privacy ovviamente, tutt’altro, significa operare tutti insieme per il bene delle persone.

Molto è stato fatto, ma molto si può ancora pensare e realizzare. Entrare in carcere significa offrire un servizio alla persona, che può

84​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​​ Davidia Zucchelli

comprendere molte cose, all’interno del carcere, ma anche dopo, fuori dal carcere. E quando i detenuti vengono coinvolti in attività pensate per loro, non succede nulla di pericoloso, perché essi non possono tradire la fiducia di chi li tratta con rispetto, di chi li tratta come “persone”. La realizzazione di ogni progetto deve avvenire sempre sotto la supervisione e il coordinamento degli organi interni (la direzione, in primo luogo, e gli educatori), al fine di ottenere il miglior contributo di tutte le parti coinvolte. Non di rado infatti l’operato dei molti volontari va guidato per affinare il loro intervento verso una crescente professionalità, evitando che essi si sostituiscano allo Stato, richiedendo piuttosto l’intervento di quest’ultimo quando esso è tenuto ad agire in adempimento degli obblighi previsti dalla legge.[10] I volontari non si devono sostituire alle istituzioni, piuttosto si affiancano alle realtà che si occupano del carcere.

3. Una nuova consapevolezza

La recente esperienza condotta in San Vittore[11] mi porta a concludere questo articolo sottolineando un ulteriore importante ruolo svolto dai volontari: favorire la diffusione di una consapevolezza nuova fra chi sta fuori del carcere.

Partiti con obiettivi molto modesti (essenzialmente la distribuzione di vestiario e la preghiera dall’antica chiesetta al Fopponino, preziosa per il suo valore storico fin dai tempi della peste del Manzoni, rivolta proprio verso il carcere),[12]​ ci siamo resi conto ben presto che

La presenza in carcere genera l’attesa dell’incontro.

85 ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ Volontari dentro e fuori il carcere. Riflessioni da una esperienza

un fine altrettanto meritevole era la necessità di far sapere cosa fosse veramente il carcere. E i risultati sono stati significativi: le iniziative sono cresciute rapidamente[13] e con esse il numero delle persone interessate.

Non è affatto scontato, anche noi non lo sapevamo e lo abbiamo imparato progetto dopo progetto. Per capirlo davvero occorre aprire la nostra mente, fare un salto di comprensione e di compassione. Occorre entrare. E capire che il carcere è diventato di fatto un luogo di «detenzione sociale».[14] Non è cioè la dimora di delinquenti incalliti, ma un luogo dove spesso paradossalmente trovano rifugio persone che “svernano”, senza una casa, disadattati, soli, persi in un mondo complicato. Vi è chi ha rigettato gli arresti domiciliari perché sapeva che fuori sarebbe tornato a delinquere oppure chi – e sono molti – agli arresti domiciliari non ci può andare, perché non ha un domicilio.

86 ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ ​ Davidia Zucchelli

Per la stragrande maggioranza, per gli ultimi della catena sociale, gli esclusi, per i quali la società non riesce a trovare un posto, il carcere è diventato ospedale, casa di riposo, rifugio. E il loro numero continua a crescere, soprattutto dopo la pesante crisi economica del decennio passato: persone senza lavoro, con malattie mentali o doppia dipendenza, segnate da traumi che portano devastazioni non solo a loro, ma all’intera famiglia a cui appartengono.

Particolare attenzione infine va rivolta al “dopo” carcere, al reinserimento sociale. È questo forse il momento più delicato della detenzione. Spesso, infatti, il suicidio fra i detenuti avviene proprio pochi giorni prima dell’uscita: un drammatico paradosso, che testimonia del vuoto intorno, della paura del nulla, di un mondo esterno dove i reclusi devono tornare a vivere, trovare casa, lavoro, costruirsi nuove relazioni… Non sempre la società è disposta a offrire una nuova opportunità.

In questo articolo, ho cercato di spiegare l’importanza del lavoro svolto da tutti coloro che operano nelle nostre carceri, ma il lavoro davvero impegnativo è quello dentro di noi, tutti noi, per riuscire a essere autenticamente aperti nel prendere coscienza del disagio di altri e ritrovare la volontà di partecipare alla costruzione di un mondo migliore.

“Custodire” non è questione di spazio ma vuol dire prendersi cura delle persone.


[1] Cfr. L. 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (GU n. 212 del 9-8-1975 – Suppl. Ordinario).

[2] Si veda il sito del Ministero della Giustizia, Attività trattamentali, Volontaria-to, vari anni:[inrete]https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.page?facetNode_1=0_2&frame10_item=1&selectedNode=0_2_6. Tutti i siti citati in questo articolo sono stati consultati per l’ultima volta in data 1 settembre 2019.

[3] Ricordo fra le molte associazioni: Antigone, Caritas, Mario Cuminetti, Sesta Opera San Fedele, Il Girasole. Un dato significativo è il rapporto detenuti/volontari, ma le rilevazioni appaiono discordanti: secondo l’Osservatorio di Antigone, tale rapporto è pari a 7, vale a dire 1 volontario ogni 7 detenuti a fronte di 1 volontario ogni 3,5 detenuti secondo i dati del DAP.

[4] Fra le molte testimonianze scritte da volontari, segnalo Teresa Michiara, Viaggio in un carcere italiano, San Paolo, Milano 2003, fuori commercio, disponibile sul sito di Sesta Opera.

[5] Come riportato sul sito di Sesta Opera: [in rete] http://www.sestaopera.it/ attivita-intramuraria/.

[6] Molti volontari organizzano la messa domenicale, specie nei tempi forti. Considerando il graduale processo di apertura (uno degli obiettivi sempre più diffusamente perseguiti dalle direzioni carcerarie è proprio quello di “aprire” il carcere all’esterno, favorendo incontri quali servizi di ristorazione e spettacolo) e pur con tutte le ragioni di prudenza e di tutela necessarie, ovviamente, forse non è utopistico pensare che un giorno si possa poter scegliere di andare a messa in carcere con “libertà”, come se fosse una chiesa qualunque, per partecipare alla messa assieme a persone, i detenuti, che si trovano in una condizione particolare; partecipare quindi in condizioni di “quasi normalità”. Anche questo potrebbe costituire un passo verso una maggiore integrazione.

[7] In carcere operano volontari appartenenti prevalentemente alla Chiesa cattolica, ma significativa e in aumento è la presenza di volontari appartenenti ad altre confessioni, in particolare le Chiese evangeliche. Si veda lo speciale di Confronti, Uscire Dentro. Carceri e fedi, settembre 2018.

[8] Cfr. i materiali presenti sul sito dell’associazione Antigone: [in rete] www.antigone.it.

[9] La posizione degli agenti non va trascurata. Essi svolgono un ruolo estremamente delicato e stressante, tanto che il numero dei suicidi fra loro risulta lo stesso di quello dei detenuti. Molti, come ci hanno testimoniato, passano dalle celle dei detenuti alle loro stanze, certo riservate e più confortevoli, ma ciò di cui lamentano la mancanza è un adeguato inserimento nella città.

[10] Sull’importanza del ruolo dello stato nella “ricostruzione” dei detenuti, per la conquista di nuova fiducia e autostima, cfr. G. Siciliano, Il recupero vero? È uso del tempo e la dignità della persona, «Corriere della Sera», 21 maggio 2019.

[11] Faccio riferimento al Progetto Carcere della parrocchia San Francesco al Fopponino, confinante con San Vittore, un unicum nella diocesi di Milano. Il gruppo dei volontari, di cui sono il referente-coordinatore, si compone di circa 30 persone. Il progetto ha seguito alcuni passaggi fondamentali negli ultimi anni: dapprima la conoscenza della realtà carceraria, nonché la preghiera, la promozione di gesti concreti di solidarietà e la definizione di forme continuative di sostegno, con uno sguardo al futuro, per favorire il reinserimento sociale dei detenuti.

[12] Ogni venerdì pomeriggio, alle 15:00, le campane suonano per i detenuti, accompagnate dalle preghiere dei parrocchiani e con i detenuti riuniti in gruppi di preghiera, con l’aiuto della cappellania. Quelle stesse campane che hanno fatto compagnia alla beata Enrichetta Alfieri, suora della carità dal maggio 1923 al novembre 1951, e figura di riferimento in carcere per tanti anni, alla quale è dedicata una lapide all’ingresso di San Vittore: «Passò come un Angelo, pianse come una Mamma nel tacito eroismo di ogni dì. Veramente e sempre Suora di Carità». Certo gran parte dei reclusi è di altra fede, soprattutto musulmana, ma, a quanto ci riferiscono dalla cappellania, la preghiera è un momento vissuto con rispetto e tolleranza da tutti.

[13] Il progetto tuttavia non vuole comprendere tanto una serie di iniziative, ma un vero e proprio cammino di solidarietà, un “gemellaggio”, un percorso di crescita umana e spirituale. Fra i vari programmi che abbiamo seguito, ricordo in particolare l’installazione di una cella-tipo all’interno della chiesa, a cura della Caritas Ambrosiana, denominata Extrema Ratio, espressione usata dal cardinale Martini per indicare che il carcere deve essere la soluzione ultima per chi commette un reato, da impartire solo quando non vi sia alcuna alternativa. Nonché la cena di carnevale, preparata con un gruppo di ragazzi, alcuni figli dei detenuti, che frequentano una scuola professionale di cucina e turismo per far loro guadagnare qualche credito a scuola e un po’ di attenzione dalla città. I giovani meritano una cura speciale e noi dobbiamo contribuire a spezzare la catena del destino che li proietta, con elevata probabilità, a seguire le orme dei padri. Ricordo infine il corso estivo di alfabetizzazione, guidato da un gruppo di giovani universitari e rivolto a circa 30 studenti di diversa nazionalità, tenuto in un periodo in cui la scuola interna era chiusa.

[14] Come ci ha spiegato Gloria Manzelli, ex-direttrice del carcere di San Vittore, in un incontro in parrocchia tenuto nel gennaio 2018. La direttrice non ci è sembrata affatto buonista: «Ci sono quelli che è giusto che scontino la pena in carcere, ma sono pochi, davvero molto pochi», ha precisato.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.