Mons. Dal Covolo, Alle radici della libertà civile

LE SFIDE EDUCATIVE DELLA SCUOLA E DELL’UNIVERSITA’

NELLA CRISI DI UNA SOCIETA’ SECOLARIZZATA

+ Enrico dal Covolo

Diciamolo subito.

Non è la complessità, né la crisi di un’epoca, e neppure la secolarizzazione avanzata – molti parlano oggi di una “società postcristiana” –: ebbene, non è questo che ci fa paura. 

Altro ci fa paura: ed è quel nichilismo, di cui parleremo più avanti.

In età moderna e contemporanea – dalle dichiarazioni illuministiche sulla ragione, fino alla demitizzazione del progresso – ci siamo finalmente persuasi che, in effetti, la realtà è complessa, e che la competenza umana è limitata, fallibile, benché sempre perfettibile. 

È questa una conquista della ragione: una conquista che arricchisce di plausibilità ulteriori il senso della Rivelazione, mentre impegna la ragione stessa in un cammino inesausto di ricerca della verità. 

Sia ben chiaro. E’ una conquista che non ha nulla da spartire con il relativismo. Relativismo, infatti, non vuol dire che la ragione umana è limitata, bensì che qualunque posizione ha il medesimo valore di un’altra. 

Così la scelta del relativismo si pone in irrimediabile contrasto con la ricerca autentica della verità.

Diversa è la visione della «liquidità», o della «modernità liquida», espressioni adottate con grande fortuna dal sociologo polacco Zygmunt Bauman, per indicare che la società odierna è fragile e disunita. 

Non ci sono regole forti; si sono indeboliti le comunità religiose e i partiti politici; tutti i rapporti – e non solo quelli di lavoro – sono precari, anche nella famiglia e nella coppia, mentre l’educazione svanisce, e prevale l’impulso immediato. 

Una «società liquida e divisa» è l’esito della statizzazione del diritto naturale, per cui i valori vengono sottoposti al voto e alle decisioni della maggioranza. Conviene approfondire questo argomento, prima di entrare direttamente nel tema in esame. Si tratta forse di una premessa un po’ lunga e articolata, ma indispensabile per le argomentazioni successive. 

1. Educazione e valori

Di fatto, i valori non sono disponibili alle decisioni della maggioranza: per questo stesso motivo, essi non sono affatto negoziabili.

D’altra parte, senza valori condivisi e vissuti, non esiste una convivenza civile. 

Le religioni e la famiglia sono all’origine della convivenza civile: le religioni, perché fanno leva sulla coscienza delle persone, con il riferimento al Trascendente; e la famiglia, perché – fondata sull’amore degli sposi, maschio e femmina – porta con sé gli altri valori: dono, fedeltà, sincerità, lealtà, generosità, sacrificio, collaborazione, e così via. E questo non in forma teorica e astratta, ma nell’esistenza concreta e quotidiana. 

Senza la religione e senza l’amore di chi genera la vita, la convivenza umana non può esistere.

Il concetto medesimo di persona è entrato nella cultura occidentale attraverso una religione, il cristianesimo, in riferimento alle «Persone divine», quali «relazioni sussistenti». 

Le Persone divine sono tra loro in relazione: lo ha chiarito a sufficienza la bimillenaria riflessione teologica sulla Persona di Gesù Cristo, Uomo e Dio. In Lui vi è una sola Persona, e ci sono due nature: un solo centro responsabile, la Persona, oltre alle nature medesime. E tale Persona è relazione sussistente.

Allo stesso modo, la persona umana è relazione, è il punto dal quale scaturisce la responsabilità dinanzi ai valori. Lo ha riconosciuto anche Immanuel Kant, quando affermava che la persona umana è sempre fine, mai mezzo: e ne ha ricavato il conseguente imperativo categorico

La persona è coscienza, interiorità.

D’altra parte, la persona umana non crea se stessa, non è la fonte ultima della responsabilità e dei valori. La persona umana è creata a immagine e somiglianza di Dio.

Purtroppo, quando – in qualunque modo – si distrugge il rapporto con le Persone divine, l’uomo non riesce più a trovare l’origine ultima della propria responsabilità e dei valori, che lo caratterizzano come persona. Si indeboliscono, fino a spezzarsi, le relazioni tra le persone. In questa prospettiva, l’uomo stesso si considera – sempre praticamente: ma, spesso, anche teoricamente – un assoluto, che può disporre della propria responsabilità senza limiti, senza essere più legato ai valori. 

Senza riferimento al Trascendente, la responsabilità non ha più un punto di riferimento né una sanzione, e la libertà diventa un assoluto senza freno.

In verità, la persona umana, in quanto relazione, nasce e si sviluppa lungo tutta la vita all’interno di relazioni: l’amore generante è relazione, e prima ancora lo è l’Amore che crea la persona umana. Relazione significa responsabilità, libertà, valori. E la relazione è originariamente educativa, perché è destinata a far crescere le persone che vi sono coinvolte.

Poiché nessuno di noi è perfetto e pienamente realizzato, ognuno ha un impegno costitutivo di crescere e di migliorare lungo tutto l’arco della vita; e se la persona umana è relazione, noi cresciamo e ci sviluppiamo all’interno di relazioni umane costruite su valori vissuti. L’uomo non è perfetto in sé; l’uomo ha bisogno della relazione, è un essere in relazione. Non è il suo cogito che può cogitare tutta la realtà. Ha bisogno dell’ascolto, dell’ascolto dell’altro… Solo così conosce se stesso, solo così diviene se stesso.

Le relazioni sono necessarie per ogni persona umana: senza di esse non viviamo. La distruzione delle relazioni comporta la perdita dei valori (e viceversa). 

È solo all’interno di relazioni costruite su valori condivisi e vissuti che avviene la nostra realizzazione, attraverso una sussidiarietà che significa scambio continuo e sempre più allargato, in vista della felicità di ognuno: esiste uno scambio di realtà materiali, come esiste uno scambio di realtà spirituali.

Dunque, le relazioni autenticamente umane sono fondate sui valori, e vivono di essi. Questi valori sono garantiti dal diritto (che non è la legge). L’obbligo giuridico «viene a definirsi come giuridico soltanto se ridotto logicamente alla pretesa che gli corrisponde». A questo punto – unicamente in questa situazione relazionale, costitutiva della persona umana – diventa un «tu devi».

Si può rileggere e meditare in tale prospettiva l’ormai celebre Discorso di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino del 22 settembre 2011. Ma già nel suo discorso ai partecipanti al Convegno di studio organizzato dal Pontificio Consiglio per i testi legislativi, in occasione del XXV anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico (25 gennaio 2008), Benedetto ricordava un’espressione «davvero incisiva del beato Antonio Rosmini: “La persona umana è l’essenza del diritto”».

Bisogna riconoscere, in maniera coerente, che qualunque forma di comunità, di associazione o di organizzazione della convivenza è sussidiaria alla persona. La sussidiarietà è costitutiva della convivenza civile, perché permette alle persone di crescere attraverso un apporto reciproco, secondo le proprie competenze. 

Uscire da questo scambio significa allontanarsi dalla convivenza civile e da ogni realizzazione autentica della persona. 

In definitiva, tutte le forme di organizzazione della convivenza e della società civile sono in funzione della realizzazione dei diritti personali, e possono avere esiti positivi solo all’interno di un habitat di valori vissuti e sviluppati dalle famiglie e dalle religioni. Il principio di sussidiarietà intende garantire proprio questo, configurandosi come aiuto e sostegno, affinché non vi siano sovrapposizioni né imposizioni gerarchiche o burocraticne, né, infine, dispotismo in nome della libertà.

Quando, purtroppo, succede che le persone umane vengono espropriate dei loro diritti, ne conseguono due situazioni ugualmente insostenibili: le relazioni umane sono distrutte, e la convivenza civile è paralizzata. 

Non c’è bisogno di rispolverare i catechismi della Rivoluzione Francese, per documentare come gli Stati, per mezzo della scuola, abbiano cercato il consenso dei sudditi. Basti ricordare quanto ha affermato con chiarezza Judith Krug nel 1986: «La questione riguarda quali valori vadano insegnati, quelli dei genitori o quelli dello Stato. Si combatte sempre per le menti dei bambini».

È documentato come moltissimi genitori si siano rifiutati di inviare i propri figli a quel tipo di scuole di Stato. Ciò è avvenuto non solamente in Francia nel 1792; precedentemente era accaduto in Prussia dopo il 1763, quando Federico II aveva imposto la scuola governativa obbligatoria per tutti; ed è accaduto pure nel nostro Risorgimento, benché questi fatti vengano per lo più occultati.

2. La libertà di apprendimento

Se vi sono attività, che devono restare costitutivamente libere, queste sono l’apprendimento e l’insegnamento, impartiti di norma nelle scuole e nelle università. 

La persona umana ha l’obbligo morale di ricercare la verità liberamente, per libera convinzione interiore. La libertà di apprendimento è a fondamento di ogni convivenza civile. Limitarla o manipolarla significa sopprimere i valori.

In sintesi, ricordo quanto affermava Luigi Sturzo nel 1947: «La libertà in un paese è una e indivisibile. Non si meraviglino amici e avversari se io ripeto qui quel che in pubblico e in privato vado scrivendo e dicendo a tutti: finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gl’Italiani saranno liberi; essi saranno servi, servi dello Stato, del partito, delle organizzazioni private o pubbliche di ogni specie, perché il cittadino non ha respirato da bambino e da giovanetto e da giovane che l’aria di una scuola non libera, dove l’insegnante (vesta o no la divisa militare come ai tempi fascisti) è anche lui un salariato, servo dello Stato, che deve ubbidire alle leggi che sono annullate dai regolamenti, e ai regolamenti che vengono modificati dalle circolari, e alle circolari che sono sospese con lettere di autorità…, mentre pesa su di lui lo spettro della carriera che ad ogni passo è resa incerta da nuovi e improvvisi provvedimenti. La scuola vera, libera, gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati nella nobile funzione di educatori, non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale».

In questo modo, Luigi Sturzo indicava un programma di educazione, di cui conviene riprendere le intuizioni centrali.

3. L’ambiente educativo della scuola e dell’università

Partiamo da un’osservazione elementare di pedagogia: è l’ambiente stesso che educa o diseduca; è l’ambiente stesso che suscita il senso dell’appartenenza o del rifiuto

Di qui l’importanza basilare di curare l’ambiente, a cominciare dalla sua pulizia e dal suo decoro, per giungere alla proprietà e all’efficienza di tutti i mezzi e i sussidi a disposizione. Perché, alla fine di tutto, occorre realizzare un ambiente capace di comunicare ciò che vogliamo trasmettere, promuovendo senza cedimenti quella cultura della qualità, che deve caratterizzare lo stile della vita scolastica e universitaria di ogni giorno. 

Da parte sua, nel Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2012 – significativamente intitolato, e sorprendentemente attuale: “Educare i giovani alla giustizia e alla pace” –, ancora il Papa Benedetto scriveva: “Ogni ambiente educativo possa essere luogo di apertura al Trascendente e agli altri; luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i fratelli”.

 Il punto di appoggio di simili ambienti sono le relazioni educative. Solamente all’interno di tali relazioni può avvenire la crescita delle persone.

3.1. La relazione docente-studente è educativa quando è finalizzata effettivamente alla realizzazione del giovane. Una relazione tra persone porta sempre allo sviluppo delle persone che interagiscono, quando si svolge all’interno di un habitat di valori che provengono dall’interiorità, dalla coscienza degli attori della relazione. Nel caso specifico di una relazione educativa, nel significato profondo del termine, l’habitat di valori è finalizzato appunto alla realizzazione del giovane. 

Evidentemente vi è un apporto di realizzazione anche per l’educatore. Tuttavia l’educatore è tale solo nella misura in cui accompagna il giovane nella sua realizzazione. Tale accompagnamento consiste nel discernere e nell’aiutare la vocazione del giovane. In definitiva, l’educatore deve aiutare il giovane a scoprire le proprie attitudini, a individuare le sue aspirazioni, in vista della realizzazione di esse. Mai l’educatore deve imporre i propri schemi alla crescita del giovane. Quando il giovane scopre che l’educatore vuole il suo bene, gli corrisponde con impegno e amore, perché constata che l’educatore è al suo fianco per questo. 

Questa relazione, fondata non su fragili emozioni, ma sull’amore umano profondo, è una relazione effettivamente educativa, e sta alla base di un ambiente educativo come l’università e la scuola. 

3.2. Anche le relazioni tra gli studenti devono essere costruite sul riconoscimento reciproco dei doni che ognuno porta con sé, nell’onorare tali doni, nell’amore, nella solidarietà, nell’aiuto reciproco.

Bisogna avere il coraggio e l’energia di (far) uscire da comportamenti, che si configurano come espressioni di invidia, di superficialità, di uno scherzo che porta al misconoscimento dell’altro: il giovane educa il giovane.

3.3. L’organizzazione dell’ambiente deve essere centrata su questa tipologia di relazioni, tenendo presente che quanto si dice dei giovani vale anche per le relazioni tra gli educatori. Essi devono stimarsi, collaborare, riunendosi pure spesso, per far emergere gli aspetti eventualmente negativi e positivi dell’andamento accademico, per sviluppare questi e superare quelli, senza lasciarsi dominare da tentazioni meschine di guadagno, di successo e di potere.

La scuola e l’università sono ambienti educativi quando tutte le attività che si svolgono in esse sono così ordinate. Il docente è un vero educatore quando cerca la realizzazione dei giovani, secondo la loro autentica vocazione. 

4. La mia esperienza di docente e di formatore

Ci siamo intrattenuti finora su quel munus educativum, che la scuola e l’università devono assumere per la crescita integrale della persona umana. E’ precisamente questa l’autentica sfida educativa da affrontare in una società secolarizzata e quanto mai complessa. 

Ma adesso desidero esprimere alcune convinzioni che ho maturato nella mia esperienza cinquantennale di docente e di educatore salesiano, chiamato per lunghi anni al ministero di Rettore della cosiddetta “Università del Papa”, l’Università Lateranense di Roma.

4.1. Come docente salesiano ho avuto la gioia e la grazia di incontrare moltissimi giovani. Tra di loro sono tanti coloro che ci autorizzano, con ragionevole speranza, alla possibilità di educare a una vita buona. Ho avuto la rara possibilità di stringere rapporti e convenzioni con centri di studio, tra i più importanti dei cinque continenti.

 Ho incontrato nei miei lunghi anni di docenza nella scuola e nell’università giovani che hanno ideali alti e nobili da purificare, da liberare, da maturare. 

4.2. C’è naturalmente una riflessione complementare da svolgere. Non poche volte si incontrano educatori scoraggiati dagli insuccessi. Ci sono infatti fenomeni che fanno pensare: ragazzi sfiduciati e depressi, oppure giovani schiavi di dipendenze nocive, dall’alcool all’erotismo. Cito solo alcuni titoli di studi seri e aggiornati della sociologia giovanile, che cercano di ritrarre quello che sta capitando: Perché siamo infelici; L’epoca delle passioni tristi; Fragile e spavaldo, ritratto dell’adolescente di oggi. Un altro titolo eloquente è quello del saggio di Umberto Galimberti: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani.  

Che cos’è il nichilismo? Non c’è niente per cui valga la pena vivere e morire, combattere e lavorare, sperare e soffrire. Di qui l’insaziabilità del desiderio e la ricerca di evasioni sempre più depravate, la mancanza di senso spirituale, l’analfabetismo emotivo, fino al suicidio. Non apro il discorso sulle ricadute dell’uso dei personal media e dei social network, che con la strada sono ormai diventati luoghi dove incontrare i giovani, e magari stabilire con loro una relazione educativa. Così come non lo apro sul bullismo scolastico. 

Di fronte a questo quadro, che sembra indurci al pessimismo, allo scoraggiamento, all’inazione, entra con forza l’invito alla speranza, una virtù che non deve mai mancare al vero educatore.

4.3. Questo invito a coltivare la speranza in campo educativo non è ingenuo, pressappochistico, superficiale. Ce lo assicura quel grande genio della pedagogia, san Giovanni Bosco, il mio fondatore. Egli ha elaborato una metodologia educativa, nota come «sistema preventivo», che invita l’educatore a sviluppare le risorse di ragione, di religione e di amore che ogni giovane, anzi ogni uomo, porta con sé, magari soltanto in uno stato embrionale, scarsamente avvertito e coltivato. 

5. Conclusione

Concludo con un ultimo riferimento personale. 

Per alcuni anni, i Superiori religiosi mi hanno affidato l’incarico di Postulatore delle cause dei santi della Famiglia Salesiana. Ho avuto così la grazia di poter meglio conoscere quell’universo umano di splendide figure, che sono i santi. 

Tra loro vorrei ricordare un collega, Giorgio La Pira, professore di Diritto romano all’Università di Firenze, dotato di una straordinaria competenza nella sua disciplina, educatore eccellente sempre ricercato dai giovani, con i quali intratteneva un dialogo vivo e attento alle loro esigenze, pronto, quando le circostanze lo richiedevano, ad assumere gravi responsabilità civili e politiche, che svolse con quell’incidenza profetica che tutti, amici ed avversari, gli riconobbero. 

Perché lo ricordo oggi? 

Perché voglio dire agli educatori che operano nell’ambiente dell’università che l’esercizio della professione è la nostra vocazione per diventare santi, e per educare allievi ben preparati e onesti: purché – proprio come il professor Giorgio La Pira – sappiamo assumere quelle competenze e quelle responsabilità educative, che fanno di un professore un uomo o una donna pensosi e operosi, sempre consacrati al bene. 

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