Mons. Dal Covolo, I Padri della Chiesa e la cultura dell’Europa unita

I PADRI DELLA CHIESA E LA CULTURA DELL’EUROPA UNITA

+ Enrico dal Covolo

Il significato del ricorso ai Padri per una cultura dell’Europa unita

Inizio con una domanda, che ci porta direttamente al cuore del nostro tema: qual è il senso e la portata del ricorso ai Padri della Chiesa per una cultura dell’Europa unita?
Ma forse, per chiarire meglio questa domanda, devo farne prima un’altra: chi sono esattamente i Padri della Chiesa?
Tali sono ritenuti quegli scrittori ecclesiastici dei primi secoli che, distintisi per la santità della vita, l’eccellenza e l’ortodossia della dottrina, meritarono di essere insigniti dalla Chiesa del titolo pregnante di padre. Di conseguenza, a chi si compromise con l’eresia non fu assegnato il titolo di padre, ma – genericamente – quello di scrittore ecclesiastico.
Noi qui ci riferiamo agli uni e agli altri scrittori, e cioè adopereremo l’appellativo di Padri della Chiesa in modo piuttosto ampio, intendendo abbracciare tutta intera l’antica letteratura cristiana.
Una questione non secondaria riguarda poi la cronologia dei Padri, o meglio chi si debba considerare come “l’ultimo dei Padri”. Per l’Occidente, la manualistica di solito chiude con Isidoro di Siviglia, morto nel 636. Oggi però alcuni studiosi convengono con me che converrebbe spostare più avanti questo punto d’arrivo, e che bisognerebbe considerare piuttosto Bernardo di Chiaravalle (+ 1153) come “l’ultimo dei Padri”.
Ma che rapporto esiste tra questa letteratura patristica e una “cultura dell’Europa unita”?
Al riguardo, risulta spontaneo citare alcune parole scritte da Ireneo verso la fine del II secolo: “La Chiesa”, egli scrive, “benché disseminata in tutto il mondo, custodisce con cura il messaggio e la fede ricevuti, come se abitasse una sola casa. Le lingue del mondo sono diverse, ma la Tradizione è unica e la stessa. Né le Chiese fondate nelle Germanie hanno ricevuto o trasmettono una fede diversa, né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in Libia o nel centro del mondo”.
Così Ireneo, guardando alla diffusione della Chiesa nell’ecumene, estende lo sguardo da Roma, “centro del mondo”, verso i quattro punti cardinali, descrivendo un’Europa “allargata”, ormai invasa dal Vangelo e dalla sua potenza unificatrice.
Grazie a questo atteggiamento, con cui la Chiesa dei Padri “in pieno accordo proclama, insegna e trasmette le verità ricevute, come se avesse una sola bocca” – per riprendere qualche altra parola del Vescovo di Lione –, l’insegnamento dei Padri diventa un fondamento ineludibile per l’identità culturale dell’Europa.

Bisogna introdurre tuttavia qualche precisazione.
In primo luogo dobbiamo ammettere che le espressioni di Ireneo si riferiscono a un’area geografica che non coincide con l’Europa attuale e che, per comodità, abbiamo chiamato “Europa allargata”. Non possiamo infatti parlare dei Padri senza citare Origene e Agostino, che sono africani, o i grandi Vescovi cappadoci (Basilio e i due Gregori), originari dell’Asia minore; dobbiamo quindi ricordare che la civiltà di quei secoli si sviluppa, più che all’interno del continente europeo, nell’area che si affaccia sul Mediterraneo, intessendo contatti tra quelle che oggi conosciamo come località appartenenti a diversi continenti: tra Roma e Alessandria, tra Antiochia e Costantinopoli, tra Smirne e Lione, tra Milano e Ippona, e così via. Ma non possiamo dimenticare che molto di quelle culture “extraeuropee” è passato, lungo i secoli, proprio nel cuore e nella vita del nostro continente; non potremmo infatti parlare del medioevo occidentale senza riferirci all’africano Agostino, né possiamo comprendere il mondo slavo dell’Europa orientale – dalla penisola balcanica fino a Kiev e a Mosca, la “terza Roma” –, se non tornando alla “seconda Roma”, cioè a Costantinopoli, che dall’estremo Oriente meridionale dell’Europa simbolicamente raccoglie tutto quanto proviene dall’Oriente vicino e lontano.
In secondo luogo, se i Padri vedevano nell’identica fede l’elemento unificante e universalistico del nuovo mondo che veniva creandosi con la propagazione del Vangelo, allo stesso tempo essi diventavano eredi e portatori di una sapienza antica, anch’essa europeo-mediterranea. Grazie a loro, anzi, quella cultura veniva salvata da una decadenza inarrestabile e reimmessa in un nuovo circolo vitale. Come è noto, infatti, numerosi Padri hanno ricevuto un’ottima formazione nelle discipline dell’antica cultura greca e romana, dalla quale mutuarono le alte conquiste civili e spirituali. Essi, imprimendo all’antica humanitas classica il sigillo cristiano, sono stati i primi a gettare il ponte tra il Vangelo e la cultura profana, tracciando per la Chiesa e per la società europea un ricco e impegnativo programma culturale, che ha profondamente influenzato i secoli successivi, e dal quale oggi non si può in alcun modo prescindere.
Proprio qui si radica l’invito pressante – rivolto soprattutto ai giovani e agli uomini di cultura della nostra Europa –, affinché, leggendo le opere dei Padri, si alimentino alle stesse radici della cultura cristiana, e comprendano meglio i propri compiti culturali nel mondo di oggi.

Il magistero della storia

Vorrei richiamarmi ora a quel grande biblista e studioso dei Padri, che fu il cardinale Carlo M. Martini.
Alla domanda: “Il messaggio degli antichi autori cristiani è davvero attuale per la cultura europea d’oggi?”, egli ha risposto: “Sicuramente. Essi ci sono vicini soprattutto nella riflessione sulle radici della nostra cultura. Essi hanno contribuito decisamente a diffondere il messaggio del Vangelo, e il loro studio non è un puro ritorno alle origini, ma è in continuità con i problemi della cultura e della società di oggi. In definitiva, appare doveroso e urgente impegnarsi per una scoperta ulteriore degli antichi scrittori cristiani nella formazione intellettuale, culturale e spirituale, a cominciare dai giovani che frequentano la scuola e l’università. Ritengo infatti che valgano per tutti le parole con cui san Benedetto, patrono d’Europa, concludeva la sua Regola, invitando i monaci alla lettura dei Padri, poiché – spiegava – ‘gli insegnamenti dei santi Padri possono condurre l’uomo al grado più alto della perfezione'”.

Occorre dunque investire generosamente nel campo dell’educazione giovanile, perché la cultura di questa vecchia Europa (troppo spesso “sazia e disperata”) possa trovare una linfa nuova.
Naturalmente, per poter accostare in modo fecondo gli scritti dei Padri, occorre guardarsi da due rischi estremi, fra loro contrapposti. C’è da una parte il rischio di chi pretende di rintracciare nella memoria del passato formule idealizzate o ricette immediatamente utilizzabili nel nostro oggi. Nelle mie ricerche ho studiato con particolare interesse i primi tre secoli della Chiesa. Mi è parso chiaro che in questo periodo i cristiani si trovarono ad essere autentici soggetti di “nuova cultura”, nel confronto ravvicinato tra eredità classica e messaggio evangelico. Ma le soluzioni patristiche del dialogo fede-cultura non furono certo univoche: talvolta nella stessa persona si riscontrano atteggiamenti intolleranti, e viceversa posizioni aperte e possibiliste. In ogni caso queste soluzioni vanno valutate come “realizzazioni storiche”, che non possiedono, come tali, altro magistero, se non quello – altissimo tuttavia per se stesso – della storia.
L’altro rischio è quello di chi non è disposto ad accettare il “carisma” della tradizione. Da parte mia sono convinto che lo studio delle antiche testimonianze è sorgente di discernimento per l’uomo di ogni tempo. Per un credente, poi, il periodo delle origini cristiane – di cui Nicea (325) rappresenta per molti aspetti un traguardo oggettivo – conserva un valore tutto speciale. E’ il momento in cui il deposito della fede apostolica si consolida nella tradizione della Chiesa. Per stare all’esempio appena citato, l’impostazione dell’incontro tra cristianesimo e cultura diede frutti decisivi – tali da non poter essere mai più dimenticati – sui piani del linguaggio, del recupero delle diverse culture e della storia intera, dell’individuazione di una comune “anima cristiana” nel mondo e della formulazione di nuove proposte di convivenza umana.
Da questo punto di vista il ricorso attento e vigile all’antica letteratura cristiana è utile, e addirittura necessario, per comprendere e interpretare il nostro presente. Ritengo che tale ricorso sia particolarmente valido dinanzi ad alcune questioni, che forse oggi più di ieri appassionano l’uomo, e in particolare la cultura europea (per esempio la questione sociale, la questione femminile, il rapporto fede-mondo, il dialogo tra le religioni e le nazioni, la pace nel mondo…), perché in ciascuna di esse il magistero della storia può contribuire decisamente ad illuminare problemi e soluzioni.
Porto come esempio il caso di Tertulliano, e la sua celebre affermazione che “la nostra anima è naturaliter cristiana” (qui l’Africano evoca la perenne attualità degli autentici valori umani e cristiani); e anche l’altra sua riflessione, mutuata dal Vangelo, secondo cui “il cristiano non può odiare nemmeno i propri nemici” (dove il risvolto morale, ineludibile, della scelta di fede, propone la “non violenza” come regola di vita: e non è chi non veda la drammatica attualità di questo insegnamento, anche alla luce della tragica crisi che stiamo attraversando).

Svolgo infine una riflessione conclusiva. La nostra vecchia Europa vive quella che è stata definita la “cultura della (post)globalizzazione”. E’ una cultura che in verità conosce numerose contraddizioni, esposta com’è al rischio ricorrente di dolorose frammentazioni. In ogni caso, è una cultura che comporta gravi pericoli, che sono anzitutto quelli dell'”appiattimento” culturale, e – al limite – di una dolorosa perdita dell’identità propria di ciascuno. Ebbene, l’itinerario storico, copiosamente illustrato dalle letterature classica e cristiana antica, continua a insegnare qualche cosa di decisivo sul mistero della persona umana e sui suoi irripetibili drammi esistenziali, sul rapporto “non globalizzabile” dell’uomo con Dio, con gli altri, con il mondo circostante, sui diversi cammini dei popoli alla ricerca della loro identità e della pace.
E’ ben noto il celebre asserto, divenuto proverbiale: Historia magistra vitae. Certo, la storia è maestra di vita, a patto però che essa trovi discepoli disposti ad ascoltarla: diversamente, senza scolari, la storia rimane una povera maestra di vita.
Viene da chiedersi se noi – uomini e donne di questa Europa – siamo veri discepoli della storia. Evidentemente non ne abbiamo ancora imparato una delle lezioni più importanti: che con la guerra tutto può essere perduto, mentre la pace è la condizione indispensabile per edificare una città a misura d’uomo.

Ci auguriamo tutti che il ricorso generoso alla letteratura dei nostri Padri contribuisca a renderci discepoli attenti della storia, per costruire un’Europa unita, autenticamente umana, in cui ogni uomo è un fratello da amare e da servire, fino al dono della propria vita.

+ Enrico dal Covolo