Mons. Dal Covolo, Omelia per la XXIV Domenica del Tempo ordinario, anno A

UN PROGETTO DI EDUCAZIONE

Omelia per la XXIV domenica del tempo ordinario

Il Vangelo di oggi ci ricorda la conclusione del discorso di Gesù alle guide della comunità. E’ un discorso che ci riguarda da vicino, perché tutti noi, impegnati nel campo non facile dell’educazione (nella famiglia, anzitutto; ma anche nella scuola, nell’università, nella parrocchia e nell’oratorio, e in generale nei vari gruppi associativi) siamo guide nella comunità.

In verità il discorso di Gesù si svolge in due parti: la seconda è quella che abbiamo letto, e riguarda la legge assoluta del perdono; la prima riguarda l’attenzione privilegiata ai piccoli, agli ultimi. Le due parti risultano sostanzialmente simmetriche tra loro. Infatti ognuna di esse contiene una domanda dei discepoli (18,1 e 18,21) e una risposta di Gesù, che include anche una parabola.

1. La domanda della prima parte del capitolo è espressa dai discepoli in questi termini: «Chi è il più grande nel regno dei cieli?». Allora Gesù prende un bambino, e spiega che, se non si faranno piccoli così, non entreranno nel Regno. Poi sposta il discorso sullo scandalo. Guai a voi, dice, se scandalizzerete una di queste persone semplici… E conclude con una breve parabola, quella della pecorella smarrita, riportata anche in Luca 15. Ma qui, in Matteo, la parabola della pecorella smarrita ha un senso un po’ diverso: in Luca è la parabola di Dio misericordioso, padre del figlio prodigo, che lascia le novantanove pecore per cercare quella che si era perduta; in Matteo è piuttosto la parabola di ogni cristiano, che non può «perdere di vista» le pecorelle più deboli. In Luca l’accento va sulla misericordia di Dio; in Matteo, invece, l’accento va sull’impegno – sempre di Dio, ma anche dell’educatore – affinché nessuna pecorella vada perduta.

Che cosa significa questo per noi?

Per non scandalizzare, per non perdere di vista la pecorella più debole, per essere «grande in senso evangelico», per ritrovare sé stesso secondo il progetto di Gesù, il discepolo impegnato nella guida, nell’educazione, dev’essere realmente «sbilanciato» dalla parte di chi ha più bisogno, capace di condivisione fino al sacrificio supremo…

2. Lo stesso discorso prosegue nella seconda parte del capitolo. Qui la domanda è di Pietro – l’abbiamo sentita –, che si avvicina a Gesù e gli chiede: «Maestro, quante volte dovrò perdonare? Fino a sette volte?». Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». E racconta la parabola del re misericordioso e del servo spietato, concludendo in modo estremamente impegnativo: infatti Gesù intende dire che il comportamento dell’uomo di fede dev’essere simile al comportamento di Dio. Nel caso specifico del perdono, occorre perdonare con la stessa misura con cui Dio perdona a noi: vale a dire, senza misura.

Ne consegue un insegnamento molto importante, che possiamo applicare a noi e alle nostre comunità educatrici: quella «condivisione con il piccolo» e quell’«amore ricco di misericordia» – di cui parlano le due parti del capitolo 18 di Matteo – restano dei valori irrinunciabili per ogni comunità e per tutti gli educatori, chiamati a diventare «segno» profetico di solidarietà, precisamente nella direzione indicata da Matteo: la linea dell’attenzione privilegiata al piccolo, e del perdono reciproco senza condizioni.

Conviene ribadirlo: per essere «segno di condivisione», ogni credente, e soprattutto ogni educatore, deve perdonare senza misura, sbilanciandosi dalla parte degli  ultimi. 

Ma non si rischia così di mortificare chi è più ricco di doti? Una simile condivisione non rischia di «appiattire» scuole e comunità? Risponde D. Bonhoeffer, che aveva meditato a lungo sul capitolo 18 di Matteo, prima dell’esecuzione capitale nel carcere di Flossenburg: «Ogni comunità cristiana deve sapere che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, ma anche i forti non possono fare a meno dei deboli. L’esclusione dei deboli è la morte della comunità» (La vita comune, trad. it., Brescia 1969, pp. 143-144).

E’ questo l’itinerario della croce e del servizio, quello perseguito da Gesù e da Maria fino al Calvario. Chi è più grande? E’ più grande colui che si fa piccolo, chi – per servire – da ricco si fa povero, e nulla considera un privilegio per sé. Chi ritrova se stesso? Solo colui che «butta» la sua vita per gli altri…

3. Concludo con un riferimento personale. 

Per alcuni anni, i Superiori religiosi mi hanno affidato l’incarico di Postulatore delle cause dei santi della Famiglia Salesiana. Ho avuto così la grazia di poter conoscere meglio quell’universo umano di splendide figure che sono i santi. Tra loro vorrei ricordare un collega, Giorgio La Pira, professore di Diritto romano all’Università di Firenze, dotato di una straordinaria competenza nella sua disciplina, educatore eccellente sempre ricercato dai giovani, con i quali intratteneva un dialogo vivo e attento alle loro esigenze, pronto, quando le circostanze lo richiedevano, ad assumere gravi responsabilità civili e politiche, che svolse con quell’incidenza profetica che tutti, amici ed avversari, gli riconobbero. 

Perché lo ricordo oggi? Perché voglio dire agli educatori che l’esercizio della missione educativa che ci è affidata è la nostra vocazione per diventare santi, e per educare giovani santi: purché – proprio come il professor Giorgio La Pira – sappiamo assumere quelle competenze e quelle responsabilità, che fanno di un educatore un uomo e una donna pensosi e operosi, sempre consacrati al bene. 

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