Mons. Dal Covolo per il Natale di Roma

LIBERTA’ RELIGIOSA E PRINCIPIO DI LAICITA’

Dai primi cristiani all’oggi della Chiesa

    1. Premessa

Entriamo in questa riflessione con molta cautela. Il tema che ci accingiamo ad affrontare, infatti, è delicato e complesso: potrebbe condurre a discussioni interminabili, e a un dibattito fin troppo acceso.

    A scanso di equivoci, preciso che il mio approccio è quello del teologo e dello storico della Chiesa antica. Del resto – come tutti sappiamo – la storia è “maestra di vita”, e il ricorso alla tradizione è imprescindibile per un corretto avvio della nostra ricerca.

2. Religio

Tentiamo anzitutto di precisare – quasi in forma di explicatio del termine – la nozione di religio. 

Dobbiamo riconoscere subito che il ricorso all’etimologia non è decisivo per la nostra indagine. Si tratta in effetti di un’etimologia controversa. Secondo alcuni, il vocabolo va connesso con religere/relegere (“raccogliere di nuovo”, “rileggere”); secondo altri, si riallaccia invece a religare (“riunire”, “legare”, “riannodare”). Ma è un fatto che, a prescindere dalla questione dell’etimo, il modo di intendere la religione nel mondo antico si accorda di più con l’orientazione semantica di religere/relegere, piuttosto che con quella di religare.

“Ricominciare una scelta già fatta (retractare, dice Cicerone), rivedere la decisione che ne risulta, tale è il senso proprio di religio. Indica una disposizione interiore, e non una proprietà oggettiva di certe cose, o un insieme di fede e di pratiche”: così afferma É. Benvéniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee. A suo dire, “religio è un’esitazione che trattiene, uno scrupolo, e non un sentimento che dirige verso un’azione, o che incita a praticare il culto”.

Così nell’età classica religio indica anzitutto un atteggiamento fatto di scrupoloso rispetto verso le istituzioni, ed è questo il senso che mantiene lungo il tragitto della latinità. In rapporto all’identità del cittadino, impegnato per la sua stessa sopravvivenza a conservare le istituzioni della polis, religio è ciò che dà loro forza, e ne garantisce la durata.

3. La tradizione classica

Depositario coerente di tali convinzioni è Costantino il Grande (+ 337). Come già Diocleziano e Galerio, e come tutti gli imperatori prima di loro, egli vede nella religione l’unica garanzia della prosperità dell’impero e della sua unità. Costantino però – a differenza dei suoi predecessori – si rese conto lucidamente che, per diversi motivi, la religio tradizionale non era più in grado di assolvere il suo compito, e che occorreva “sostituire” gli dei dell’Olimpo con il Deus Christianorum, senza però toccare minimamente il nodo saldo che univa tra loro religione e politica. In questa prospettiva si comprende come la “svolta costantiniana” sia nella realtà assai meno rivoluzionaria di quanto molto spesso si voglia credere, e si capisce anche il grave equivoco con cui la nuova religione venne accolta e riconosciuta fra le istituzioni dell’impero. Da Costantino, infatti, essa fu compresa anzitutto come un’etica: per lui, Gesù Cristo non era tanto il Logos, quanto piuttosto il Nomos, e la religione dei cristiani aveva essenzialmente lo scopo di propiziare, mediante un culto esatto, il favore della Divinità, senza la quale era impossibile la sopravvivenza e la prosperità dell’impero. La differenza è che – mentre prima il giusto culto della divinità sembrava esigere necessariamente la repressione della religione cristiana, non integrabile nel culto tradizionale – ora la Divinità da cui si attendeva protezione, l’unica capace di garantire l’unità e la durata dell’impero, era quella dei cristiani.

4. Il principio di laicità

A questo punto, è necessario richiamare la ben nota raccomandazione di non giudicare con gli occhi di oggi le realtà di ieri. Anche se – espressa in questo modo, la raccomandazione sembra paradossale (nessuno storico di oggi ha gli occhi di ieri!) – essa contiene tuttavia un’anima di verità. Mette in guardia, se non altro, dai troppo facili anacronismi. Giusto per fare un esempio, l’emotività antica del sentire religioso – che da sempre ha segnato, e continua segnare, il rapporto della persona con il Divino – solo con molte riserve può essere misurata con le moderne analisi della psiche, di cui oggi noi ci avvaliamo, grazie allo sviluppo delle scienze umane.

Pure il concetto di laicità va accostato con molta cautela. Il termine non ricorre formalmente nei testi patristici, anche se vi è presente nella sostanza. Essenzialmente, il termine laicità, e il principio che ne deriva, indicano un atteggiamento di rispetto delle realtà naturali, e un coerente rifiuto di sovrapporre ad esse un valore sacrale a quello loro proprio già in radice. 

Ma per quanto riguarda la politica (che è una realtà prettamente laicale, orientata al bene della società civile), il legame con la religione e con il sacro, sia tra i pagani, sia tra i cristiani dei primi secoli era praticamente indissolubile. Così uno sgarro nella religione poteva essere giudicato e punito come sedizione e rivolta contro l’istituzione civile. 

E veniamo al concetto di “libertà e di tolleranza religiosa”. Essa è di chiaro sapore illuministico. Per esempio, parlare di “tolleranza religiosa” – come la intendiamo noi oggi – ai tempi di sant’Ambrogio è un classico anacronismo.

Solo con il Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica si è affrancata appieno dalla concezione di una “religione politica”, che affonda le sue radici nella cultura greco-romana (e prima ancora), e che è poi trascorsa nella Chiesa – più a lungo e saldamente nelle Chiese di Oriente – con la cosiddetta “svolta costantiniana”.

5. La “pretesa veritativa” del Vangelo

Un’altra osservazione, collegata con la precedente, induce ad affermare che il vero scontro tra le religioni – che fu segnato da momenti di grave tensione e violenza, anche da parte cristiana – trova il suo fondamento nella questione della vera religio e nella “pretesa veritativa” del Vangelo: Ego sum via et veritas et vita, ha detto Gesù (Gv 14,6). 

6. La “svolta conciliare”

Ma ci sono voluti duemila anni prima che la Chiesa riuscisse a superare le ambiguità della cosiddetta “svolta costantiniana” e ad interpretare correttamente l’affermazione evangelica: Ego (cioè: Solo Io) sum via et veritas et vita. Vale a dire, quell’affermazione a cui si contrapponeva inesorabilmente il celebra aforisma di Simmaco: Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum.

Al riguardo, mi limito a citare il Discorso di san Paolo VI all’Organizzazione delle Nazioni Unite (4 ottobre 1965), alla vigilia ormai della celebre Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa che – ormai alla conclusione del Concilio stesso – sanciva in maniera irreversibile il nuovo cammino della Chiesa. Una conferma recente e autorevole è rappresentata dal Documento sulla Fratellanza umana firmato dal Papa Francesco e dal Gran Imam il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi. Il Documento è scritto “in nome di Dio, che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace”. 

Insieme alla sollecitudine sincera per il dialogo con le nazioni del mondo e le loro religioni, nel suo Discorso alla Nazioni Unite Paolo VI non volle comunque rinunciare all’esplicito annuncio di Cristo, pur rispettando la laicità dell’istituzione. Anche nel profondo rispetto della “sana laicità” dei valori intramondani, a Paolo VI urgeva pur sempre richiamare l’Assoluto, la pienezza del bene. I Padri della Chiesa, a lui tanto cari, parlerebbero a questo proposito dei “semi” del Verbo di verità, sparsi in qualunque cosa vi sia di buono e di autenticamente umano. Ma solo il Verbo di verità – Gesù Cristo Signore – porta a maturazione questi medesimi “semi”, che lo Spirito sparge nel mondo.

    Così nel suo Discorso alle Nazioni Unite il Papa concludeva con un chiaro annuncio: “L’edificio della moderna civiltà”, affermò con decisione, “deve reggersi su principi spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principi di superiore sapienza, essi non possono che fondarsi sulla fede in Dio. Il Dio ignoto, di cui discorreva nell’areopago san Paolo agli Ateniesi? Ignoto a loro, che pur senza avvedersene lo cercavano e lo avevano vicino, come capita a tanti uomini del nostro secolo? Per noi, in ogni caso, e per quanti accolgono la Rivelazione ineffabile, che Cristo di Lui ci ha fatta, è il Dio vivente, il Padre di tutti gli uomini”.

7. Siamo giunti così a un punto decisivo 

In ogni suo intervento, Paolo VI – che pure ha sempre dichiarato il suo rispetto profondo, sinceramente aperto al dialogo, verso i non credenti e verso i credenti di altre religioni, verso gli Ebrei e i fratelli cristiani separati – non ha mai cessato di mettere al centro dei vari cerchi del dialogo (ecco perché “concentrici”) l’annuncio di Gesù Cristo e della sua Chiesa.

    Si deve parlare anzi del cristocentrismo – non certo di un preteso, quanto errato, “ecclesiocentrismo” – di Paolo VI. La parola di sant’Ambrogio risuonava sempre nella mente e nel cuore di questo Arcivescovo di Milano, divenuto Papa e santo: Omnia Christus est nobis!

    “Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivo!” – egli avrebbe confessato, con accenti appassionati, il 29 novembre 1970 a Manila, nel corso di un altro viaggio emblematico del dialogo con credenti e non credenti –. “Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l’amico della nostra vita… Gesù, il Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra!”.

    Inseguendo la spiritualità del cuore di Papa    Montini, nella linea giovannea e agostiniana della sua dottrina, possiamo affermare che la vera conoscenza viene dalla fede e dall’amore; invece, quando la ragione si avvita su sé stessa, non è più in grado di approdare alla percezione del mistero.

    Questa affermazione – che ho appena fatto, e che riecheggia intenzionalmente il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI – trova un anticipo ricco di significati nelle parole, che ora cito, di un grande amico ed estimatore di Paolo VI, mons. Pietro Rossano. Lo ricordo, anche perché egli fu tra i miei predecessori nella guida dell’Università Lateranense. Queste parole hanno un sapore indubbiamente “montiniano”: “Solo la conoscenza accompagnata da affetto – affermava Rossano – raggiunge la verità; la parola senza amore è menzogna. E’ questo il mio principio per il dialogo con le religioni”. 

Nullum noscitur, quod non amatur, affermava Agostino. Non c’è amore senza conoscenza, né conoscenza senza amore.

    Ecco: la centralità affettuosa – senza proselitismo alcuno – di Cristo, Parola del Dio vivente, ha illuminato costantemente la vita e l’insegnamento di Paolo VI, in piena consonanza con il magistero conciliare: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo”, dichiara la Costituzione Gaudium et Spes; e prosegue, poco più avanti: “Ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia” (n. 22). 

E mons. Rossano – un biblista attento, che i vicini e i lontani chiamavano con ammirazione, e forse con una punta di invidia, Monsignor Dialogo – aggiungeva ancora: “I valori esterni della cultura sfumano in un silenzio, che sarebbe infinito e mortale, se non ci fosse la Parola di Dio”, anche quando essa è collocata “nel chiaroscuro in cui la contiene la Bibbia”. 

“Gesù Cristo!”, proseguiva da parte sua Paolo VI a Manila, “tu sei il rivelatore del Dio invisibile, tu sei la via, la verità, la vita!”.

    Immersi nel chiaroscuro dell’esistenza terrena, noi restiamo pur sempre di fronte all’interrogativo cruciale, posto duemila anni fa dallo stesso Gesù di Nazaret: “Voi, chi dite che io sia?”.

    La risposta a questa domanda – la risposta che stava nel cuore di Paolo VI, mentre svolgeva il suo dialogo con l’Assemblea delle Nazioni Unite – la conosciamo molto bene. E’ la risposta definitiva dell’apostolo Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”.

8. Dialogo e annuncio insieme

Dunque, dialogo e annuncio insieme, non l’uno senza l’altro. Così è nella tradizione cristiana autentica, dai Padri apologisti, fino a Papa Francesco.

Riguardo all’annuncio, mai disgiunto dal dialogo, riporto qui una citazione dell’Esortazione apostolica programmatica di Francesco, la Evangelii Gaudium, che fin dal titolo intende riagganciarsi all’Evangelii Nuntiandi di Paolo VI. 

In questa citazione di Francesco troviamo un rinnovato slancio nel dialogo con il mondo e con le religioni, e nell’annuncio del Vangelo. Vi si parla di una “Chiesa in uscita”, dunque di una Chiesa che “sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa ‘coinvolgersi’. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: ‘Sarete beati se farete questo’ (Gv 13,17). La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze” (24).

9. Conclusione

In definitiva, è questo il cammino – costantemente ribadito da Papa Francesco nei suoi viaggi apostolici, che sembrano allargare i “cerchi del dialogo” di Paolo VI – su cui si stanno muovendo il dialogo e l’annuncio nel Cristianesimo di oggi.

Cosi all’analisi storica appare evidente che la religione diventa luogo di scontro quando essa si chiude al dialogo, quando pone un’errata gerarchia di valori. Allora essa smette di essere vera religione, e diventa un idolo. Si verifica una sorta di boomerang: la presunta religione si ritorce contro sé stessa e contro l’uomo, asservendolo alle ideologie e alla violenza. Perché, se la religione è legame tra l’uomo e Dio, allora possiamo affermare con sicurezza che una presunta religione, quando predica e attua la violenza, non è una vera religione. Non esiste un dio violento, al quale l’uomo possa legarsi!

Se invece la religione accoglie sinceramente i valori del dialogo e dell’amore, allora non può essere luogo di scontro. L’abbiamo sperimentato tragicamente nel secolo ventesimo, e ancora lo sperimentiamo oggi. Una ragione che si avvita su sé stessa, e fa di sé la propria religione, costruisce i mostri dei lager, dei gulag, degli stermini più abietti.

Ritengo che in questo orizzonte di idee vadano affrontati – senza anacronismi di sorta – il tema della libertà religiosa e il principio di laicità.  

Solo così la religione potrà essere – quale deve essere – luogo di incontro, e mai di scontro, tra generazioni e civiltà.

                                                            + Enrico dal Covolo  

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