Mons. Dal Covolo, Sulla sacralità della vita

LA SACRALITA’ DELLA VITA

Brescia, Scuola Agenti di Polizia, 14 dicembre 2021

                                                      + Enrico dal Covolo

Sono molto grato agli organizzatori di questo incontro, in particolare al Dott. Giorgio D’Andrea, Primo Dirigente e Direttore di questa Scuola Allievi Agenti della Polizia di Stato.

Il nostro dialogo rappresenta un’iniziativa della quale noi tutti cogliamo l’importanza e l’urgenza: l’importanza, perché l’impegno per la salvaguardia della vita,  come tutte le forme nobili e alte dell’agire umano, non si improvvisa, ma richiede una formazione seria e accurata, come è la vostra; e l’urgenza, perché si diffonde sempre di più, soprattutto tra i giovani, una certa sfiducia nei confronti della sacralità della vita, sfiducia che – se dovesse condurre a un’emarginazione dal vissuto sociale, o finisse per decretarne l’insignificanza – sicuramente comporterà conseguenze nocive per la libertà, per la democrazia e per la vita stessa. 

La sfiducia di molti giovani riguarda in generale la politica.

Ebbene: sono più che mai convinto che la politica potrà riscattarsi dalla situazione di declino in cui versa, solo a condizione di recuperare con lungimiranza e profondità di pensiero il suo ancoraggio alla centralità e alla difesa della vita. Di qui l’opportunità, che vorrei fornire a voi quest’oggi, di confrontarci con alcuni dei cosiddetti “principi non negoziabili” riguardo alla vita.

Non lo faccio tanto da vescovo, ma da persona umana, e soprattutto da salesiano, cioè da educatore che esperimenta ogni giorno di più che senza una scala di valori condivisa è difficile educare le giovani generazioni al senso della vita. E non vi parlerò di “azioni di polizia”, di cui voi siete maestri – o almeno allievi –, e comunque ne sapete assai più di me…

Ci chiediamo invece: che cosa si intende per “principi non negoziabili” riguardo alla sacralità della vita? 

Anzitutto, essi sono dei “principi”, dunque postulati indimostrati, perché dotati di una loro evidenza di ragione; stanno all’inizio, cioè alla base di una successiva argomentazione, destinata ad entrare in dialogo con mores et ius, ossia a ispirare, da una parte, l’organizzazione e lo sviluppo della cultura, dall’altra la regolamentazione giuridica in uno stato di diritto. 

I principi non negoziabili sono dunque un dato che appare coerente al riconoscimento della ragione, anche a prescindere dalla fede. 

Quattro secoli prima di Cristo la tragedia greca, una delle espressioni più elevate e universali del pensare umano, ha espresso il primato di un diritto di natura antecedente l’organizzazione della polis, e anzi fondante la stessa formazione ordinata della polis. L’eroina sofoclea Antigone così dichiara a Creonte, promotore di leggi ingiuste: “Altre leggi furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi io non credevo che tanta forza avessero, da far sì che le leggi dei Celesti, non scritte, e incrollabili, potessero soverchiare un mortale… Eterne vivono esse; e nessuno conosce il giorno in cui nacquero” (Sofocle, Antigone, vv. 452-457; trad. di E. Romagnoli). 

In questo mio intervento mi fermerò soltanto sul primo dei principi non negoziabili, il diritto alla vita, e argomenterò il mio pensiero basandomi su tre fonti del sapere che mi sono più congeniali. Anzitutto, a motivo del servizio che ho prestato per otto anni come Rettore dell’Università del Papa, l’Università Lateranense, vorrei richiamare alcuni elementi del Magistero di san Giovanni Paolo II; in secondo luogo, la docenza e la ricerca nell’ambito della letteratura cristiana antica mi inducono a valorizzare l’insegnamento degli antichi autori cristiani; infine, la mia esperienza come postulatore delle cause dei santi della Famiglia salesiana mi ha messo a contatto con la testimonianza di tante persone, la cui vita è in sé stessa un’alta scuola di vita.

1. Il Magistero di Giovanni Paolo II

Giovanni Paolo II ha pubblicato nel 1995 un documento poderoso, ampio e articolato, sulla sacralità della vita, l’enciclica Evangelium Vitae

Esso costituisce la magna charta del suo altissimo magistero in tema di difesa della vita umana, dal suo concepimento fino al suo naturale spegnersi. Non ho intenzione di illustrarne i contenuti e i principi ispiratori: questa enciclica da sola meriterebbe di essere oggetto di un ciclo di lezioni! Vorrei invece limitarmi a commentarne due passaggi, che riguardano l’aborto e l’eutanasia, temi su cui oggi si discute molto, e si cerca di legiferare. 

1.1. L’aborto

Il primo passaggio dell’enciclica, a proposito dell’aborto, suona così: “La gravità morale dell’aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare. […] È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo” (EV, 58)

Sono sufficienti, a me sembra, queste considerazioni di ragione per far apparire del tutto detestabile l’aborto e i tentativi di giustificarlo. Alla ragione ripugna sopprimere l’esistenza di chi è innocente, debole e totalmente dipendente da un altro essere umano. Questa rivolta – questa avversione della ragione – è proprio il risvolto della non negoziabilità del diritto alla nascita del concepito. Del resto, parliamo di “principi” perché, ammessa la deroga all’eliminazione di un essere innocente, debole e totalmente affidato, come nel caso di un embrione o di un feto, si abbatte un limes antropologico, e si permette l’introduzione nella civitas di un contro-principio, che conduce a barbarie e violenze inaudite. La storia del XX secolo è assai tristemente eloquente: nazionalsocialismo, stalinismo e maoismo hanno privato i soggetti umani della loro sacralità, e, dopo averli ridotti a uno stato di fragilità indifesa, hanno perpetrato crimini esecrabili contro la loro vita. 

Un filosofo contemporaneo, che ha riflettuto a lungo sul tema della vita e delle violazioni contro di essa da parte dell’organizzazione socio-politica, Giorgio Agamben, basandosi sul “paradigma di Auschwitz” dichiara: “La domanda corretta rispetto all’orrore commesso nei campi [di concentramento] non è quella che chiede ipocritamente come sia stato possibile commettere delitti tanto atroci rispetto a degli esseri umani; più onesto e soprattutto più utile sarebbe indagare attentamente attraverso quali procedure giuridiche e quali dispositivi politici degli esseri umani abbiano potuto essere così integralmente privati dei loro diritti e delle loro prerogative, fino a che commettere nei loro confronti qualsiasi atto non apparisse più come un delitto (a questo punto, infatti, tutto era veramente divenuto possibile)” (G. Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 2005, p. 191). 

Purtroppo, il legame che sussiste tra erosione del principio non negoziabile della vita nascente e le aberrazioni a cui esso conduce sono sotto gli occhi di tutti. Cito un esempio molto amaro, che ci riempie di sconcerto. In Danimarca, il governo ha oramai intrapreso da anni un progetto eugenetico, offrendo gratuitamente la possibilità di ricorrere alle diagnosi prenatali per l’identificazione e la conseguente eliminazione per mezzo dell’aborto dei nascituri “difettosi”. Un giornalista, Nikolaj Rytgaard, sul quotidiano danese “Berlingske”, ha rivelato che l’obiettivo da raggiungere, entro il 2030, è quello di fare della Danimarca il primo Paese al mondo “Down Syndrom Free”. 

Qual è – ci chiediamo a questo punto – la differenza con le sperimentazioni condotte durante il nazionalsocialismo?

Alla luce di queste riflessioni, mi sembra che il diritto alla vita del nascituro non possa che apparire non negoziabile. Consegnare alla cultura, che è transeunte, o alla politica, che è volubile, il diritto di disporre della vita di un nascituro, innocente, debole e totalmente affidato, equivale ad abbandonare pericolosamente la convivenza degli e tra gli uomini all’arbitrio di chi ha più forza, più risorse materiali, più strumenti di controllo e di influenza. La non negoziabilità della tutela della vita nascente, innocente, indifesa, completamente affidata alla protezione dell’altro, ci rammenta che, se si abdica a questo primato, allora è aperta la via alla prevaricazione, all’arroganza, al sopruso, come sentenziò sant’Agostino: “Togli il diritto; e allora, che cosa distingue l’istituzione politica da una grossa banda di briganti?” (Agostino, La città di Dio 4,4).

1.2. L’eutanasia

Ricavo un secondo passaggio dall’enciclica Evangelium Vitae di san Giovanni Paolo II. Esso recita così: “Si fa sempre più forte la tentazione dell’eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine dolcemente alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della cultura di morte, che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore” (EV, 64). 

Dalle parole di Giovanni Paolo II comprendiamo che anche l’eutanasia, definita nella stessa enciclica come azione o omissione che, nell’intenzione di lenire il dolore procura la morte, è un atto contro ragione e disumano. È contro ragione, infatti, perseguire un fine buono con un mezzo cattivo. Il fine buono è lenire il dolore, ma esso non può essere ottenuto con un mezzo incomparabilmente dannoso e distruttivo, la morte del soggetto sofferente. Con la ragione, nel suo retto esercizio, contrasta il principio che ogni fine giustifica i mezzi. Introdotto infatti questo principio, l’intera esistenza dei soggetti umani e della compagine sociale è vulnerabile e, come nel caso dell’aborto procurato, esposta al prevalere dei malvagi e della loro ferocia. L’eutanasia, però, è anche disumana. Essa può reclamare una certa plausibilità solo in una mentalità che esalta efficienza e funzionalità, aspetti dell’esistenza che, se esaltati e messi al primo posto nella gerarchia dei valori, rendono la vita spietata e crudele. Ciò che non è materialmente utile non è degno di esistere. La vita umana sembra così valutata e misurata come quella degli oggetti, in base all’utilità che essi offrono. 

No, non si può scendere a compromessi, non si può negoziare. L’eutanasia è il tassello di un agghiacciante mosaico di morte e brutalità, in cui i valori e le esperienze dello spirito, compresa la sofferenza, non ricevono alcun apprezzamento. 

2. L’insegnamento dei Padri della Chiesa

“Non ucciderai un bambino per mezzo dell’aborto” (Didaché, 2,2). 

È questo il precetto, perentorio e inequivocabile, enunciato da un antichissimo testo della letteratura cristiana, coevo probabilmente, almeno in alcune sue sezioni, alla letteratura neotestamentaria. Si tratta della Didaché. Il fatto stesso che esso sia stato formulato significa che la consuetudine dell’aborto era diffusa o per lo meno praticata nel mondo pagano, non cristiano. Questo stesso appello ritorna in altre opere cristiane del II secolo. Tra di esse vorrei ricordare un passaggio della Supplica per i cristiani di Atenagora ateniese e un altro, tratto dall’Apologeticum di Tertulliano. 

2.1. Atenagora

Atenagora si interroga vivacemente: “Come possiamo essere omicidi noi, che affermiamo che quante ricorrono a pratiche abortive commettono un omicidio e dell’aborto renderanno conto a Dio? Non è possibile nello stesso tempo ritenere che è vivo l’essere che è nel ventre, e che per questo Dio ne ha cura, e ucciderlo nel momento in cui nasce alla vita; né è possibile esporre il neonato – essendo infanticidi coloro che lo espongono –, o sopprimerlo quando è allevato. Noi siamo in tutto e per tutto simili e uguali rimanendo sottomessi alla ragione, e non comandando su di essa” (Atenagora, Supplica per i cristiani, 35,6)

2.2. Tertulliano

Il testo di Tertulliano, il cui riferimento, tra l’altro, è riportato nella nota a piè di pagina della sezione del Catechismo della Chiesa Cattolica relativa alla proibizione dell’aborto, suona così: “A noi, proibito una volta per sempre l’omicidio, non è lecito sopprimere neppure il feto concepito nell’utero, mentre ancora il sangue materno sta formando un essere umano. Impedire la nascita è un omicidio anticipato, e non fa differenza se si strappi al corpo un’anima già nata o si interrompa il suo processo di formazione. È già un uomo colui che lo sarà; anche ogni frutto è già contenuto nel seme” (Tertulliano, Apologeticum 9,2.8).

Consentitemi ora qualche riflessione. Per i cristiani del II secolo (come pure per quelli dei secoli successivi: vi è, infatti, un ampio florilegio contro l’aborto, che comprende la voce di non pochi dei Padri dell’epoca aurea, come Basilio di Cesarea o Giovanni Crisostomo), la protezione della vita del concepito è un dovere non negoziabile. Ora, questi autori che ho citato, Atenagora e Tertulliano, sono degli apologeti. Essi, cioè, si rivolgono al mondo non cristiano ed espongono la ragionevolezza della loro visione della vita, facendo appello alla ragione, a cui “tutti siamo sottomessi”, secondo le parole di Atenagora. In altri termini, gli apologeti chiedono a tutti gli uomini di seguire quanto di universalmente umano ci accomuna, cioè l’uso della ragione, a prescindere dall’affiliazione religiosa. 

E tuttavia l’uso della ragione potrebbe essere ancora insufficiente. Gli antichi Apologeti, allora, ci offrono l’indicazione di un altro percorso che integri e corrobori quello del logos. Essi, infatti, a partire dalla Rivelazione biblica, mostrano nella fede cristiana una sorgente ricchissima di valori antropologici, fondati sull’azione creatrice e redentrice di Dio. 

Mi pare che questa lezione degli antichi scrittori cristiani sia meritevole di essere mantenuta in considerazione, anche e soprattutto ai nostri giorni. La luce della ragione è stata offuscata e deviata da quel pernicioso fenomeno che viene comunemente definito la “dittatura del relativismo”. È dittatura perché vuole imporre, senza permettere spazio al dialogo e al confronto, il soggettivismo in ogni campo dell’agire umano, risolvendosi in un agghiacciante nichilismo dove, ancora una volta, proprio perché non ci sono più verità e beni oggettivi, sono i più forti che si impongono, e spesso con protervia più o meno dissimulata. 

Di fatto, il grande avversario dei principi non negoziabili è il relativismo, una vera e propria malattia dello spirito. Esso è l’esercizio di una ragione ripiegata su sé stessa, nella ricerca affannosa della funzionalità tecnica, dell’incremento della qualità della vita, del benessere economico. Finalità certamente buone, ma dentro le quali, evidentemente, non può ripiegarsi malinconicamente l’esistenza umana. Il relativismo è pensiero debole: non ci sono più verità da ricercare, perché non c’è nessuna Verità. Il relativismo è minimalismo etico: non ci sono valori per tutti, tutto diventa lecito, perfino necessario, per soddisfare i bisogni e i capricci dell’io. L’uomo è ridotto a strumento. In sintesi, il relativismo assume un concetto molto limitato di ragione, identificato con il metodo delle scienze naturali – tra l’altro, ormai da molto tempo superato da altre epistemologie –, e si accontenta di viaggi a piccolo cabotaggio, che lasciano l’uomo confuso e solo; il relativismo diffida della religione e ne limita sempre più gli spazi. Il relativismo allora, orfano del logos greco e della fede cristiana, può generare dei figli spaventosi. L’uomo diventa preda di utopie dell’orrore, che si annidano nei gangli mortali dell’irrazionale. 

Quando dunque la ragione si smarrisce e si confonde nelle secche del relativismo, e del suo esito letale che è il nichilismo, proprio dalla fede possono giungere ad essa aiuto e sostegno, orientamento e illuminazione. Ecco perché oggi i principi non negoziabili sono oggetto dell’interesse e della promozione da parte dei credenti; e anche nel mondo laico personalità pensose e consapevoli delle trappole in cui la ragione è caduta, a opera dei cattivi maestri, ascoltano volentieri le proposte che vengono da uomini e donne religiosamente ispirati, che mostrano nell’alleanza e nell’amicizia tra fede e ragione il quadro entro cui si può sviluppare un’antropologia e un’etica che difendano sempre e comunque la centralità e la sacralità della vita. 

3. La testimonianza dei santi

Mi avvio alla conclusione del mio intervento, cari amici, trattando, più succintamente, un ultimo punto. Come vi accennavo, per alcuni anni ho avuto la grazia di occuparmi dei processi di beatificazione e canonizzazione dei membri della Famiglia salesiana. Ho avuto così l’opportunità di entrare maggiormente in familiarità con quella che definirei l’apologia più convincente del Vangelo, la vita dei santi. 

Ho sviluppato le precedenti riflessioni insistendo sul fatto che i principi non negoziabili, in particolar modo la tutela della vita nascente e la dignità del morire, sono acquisiti dalla ragione, che nella fede cristiana trova ulteriori motivi di conferma. Vi è tuttavia un perfezionamento ulteriore della ragione e della stessa fede: si tratta dell’amore. La ragionevolezza dell’antropologia personalistico-cristiana che afferma la non negoziabilità del principio della difesa della vita è sostenuta dalla luminosa testimonianza dei santi. I santi esercitano un potente fascino. E, per grazia di Dio, essi non sono mancati e non mancano, e continuano a mantenere vive la bontà e la bellezza dell’umanesimo cristiano. Essi mostrano che solo l’amore, inveramento e perfezionamento della ragione, è credibile. Sono loro che fanno del Cristianesimo un messaggio non solo informativo ma performativo, che cambia la vita della gente e dei popoli! 

Il mondo intero si è inchinato per rendere omaggio alla santa Madre Teresa di Calcutta, icona della santità che si prende cura della vita in nome di quei principi non negoziabili su cui stiamo riflettendo. Parlando da una tribuna speciale, a Oslo, in occasione del conferimento del Premio Nobel nel 1979, ella, senza alcun timore, con la forza e la semplicità della verità, diede testimonianza della missione compiuta per impedire la pratica dell’aborto, che definì il “grande distruttore della pace”. E ne illustrò il motivo con parole che fanno eco a quanto dicevamo precedentemente commentando l’Evangelium Vitae: derogare all’inviolabilità della tutela della vita già concepita apre la strada, come di fatto è accaduto, ad ogni forma di efferatezza e di violenza. “Perché”, affermò in quell’occasione Madre Teresa, “se una madre può uccidere il proprio stesso bambino, cosa mi impedisce di uccidere te, e a te di uccidere me? Nulla”. 

E anche a proposito dell’eutanasia ricordò un’esperienza che vale forse più di molti ragionamenti, per mostrare che c’è sempre una dignità nel e del morire: “Abbiamo raccolto un uomo dal canale, mezzo mangiato dai vermi, e l’abbiamo portato a casa. Egli ci ha detto: ‘Ho vissuto come un animale per strada, ma sto per morire come un angelo, amato e curato’. Ed è stato meraviglioso vedere la grandezza di quell’uomo che poteva parlare così, poteva morire senza accusare nessuno, senza maledire nessuno, senza fare paragoni, come un angelo”. 

Di fronte alla testimonianza dei santi che ci mostrano una “via più grande” – quella della carità – ragione e fede acquistano una forza persuasiva ancora più cogente, sicché i principi non negoziabili appaiono realmente dotati di quella verità, di quella bontà e di quella bellezza che niente e nessuno potrà rinnegare. 

E’ questo l’ultimo pensiero che desidero condividere con voi, cari amici, anzi una preghiera: il Signore doni e moltiplichi i santi, protettori e amici della sacralità della vita, testimoni e perciò maestri. Sono e saranno essi il discorso più convincente perché i principi non negoziabili tornino a essere il fondamento di una convivenza umana più giusta e pacifica per tutti e per ciascuno; per costruire stabilmente quella civiltà dell’amore, dove ogni uomo, dal suo concepimento fino alla morte naturale, sia rispettato e onorato per la sua inalienabile dignità. 

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