Mons. E. Dal Covolo, omelia per Sant’Eusebio da Vercelli

OMELIA NELLA SOLENNITA’

DI SANT’EUSEBIO DI VERCELLI

2 agosto 2021

                                        + Enrico dal Covolo

Eccellenza Reverendissima padre Arcivescovo,

Eminenze ed Eccellenze carissime,

Autorità civili, militari e religiose,

fratelli e sorelle tutti.

    Festeggiamo oggi con particolare solennità sant’Eusebio, protovescovo del Piemonte, di cui ricorre quest’anno il milleseicentocinquantesimo anniversario della morte. 

    Ovviamente l’omelia che mi è stata affidata dal Padre Arcivescovo – e approfitto qui per ringraziarlo vivamente dell’amicizia e della stima che mi ha concesso – non deve diventare una lezione accademica, e neppure una bozza per un piano pastorale. 

Al riguardo, rinvio piuttosto alla bella Lettera di Mons. Arnolfo per l’Anno Eusebiano 2021. Nella prima parte di essa, in una sorta di fictio autobiografica, Eusebio racconta direttamente la propria vita; nella seconda parte, invece, l’Arcivescovo ricava dal racconto di Eusebio alcuni preziosi suggerimenti, che certamente contribuiranno al rilancio della vita diocesana, nonostante la terribile prova della pandemia. Questi suggerimenti rimangono robustamente ancorati ai più importanti documenti del magistero di Papa Francesco, da Evangelii gaudium a Fratelli tutti, passando attraverso l’Enciclica Laudato si’. Così appare evidente il riferimento ai temi più cari a Francesco, temi emersi anche nella recente Assemblea Generale della CEI dello scorso mese di maggio: di grande spicco sono le sollecitazioni che riguardano la sinodalità e la ministerialità della Chiesa, affinché siano accolti e valorizzati i vari carismi e le diverse voci, partendo per così dire “dal basso” del santo Popolo di Dio.

Ma l’omelia è, per sua natura, una conversazione sulle letture appena ascoltate nella celebrazione eucaristica, seguendo lo stile di Gesù con i discepoli di Emmaus.

1. Iniziamo dunque dalla prima lettura, là dove il Signore dice al profeta Ezechiele: “Io ti ho posto per sentinella alla casa di Israele”.

Questa parola “sentinella” definisce il rapporto del vescovo Eusebio con la sua città. A dire di Ambrogio – che per molti versi volle ispirarsi al protovescovo di Vercelli nell’esercizio del suo ministero episcopale – Eusebio “vigilava” la sua città con la testimonianza della vita: «Con l’austerità del digiuno governava la sua Chiesa». Ambrogio – autore della Fuga dal mondo – è affascinato dall’ideale monastico e dalla contemplazione di Dio. Gli è congeniale Elia, che percorre il deserto per giungere fino all’Oreb, il monte di Dio. Gli è congeniale Eusebio, che per primo raccoglie il proprio clero in vita communis, divenendo così il fondatore del più antico monasterium clericorum, e che «osservava le regole monastiche, pur vivendo in mezzo alla città».

In definitiva, la testimonianza di Ambrogio nei confronti di Eusebio esprime la singolarità del rapporto che lega il vescovo alla sua città: un rapporto dialettico, che richiama per alcuni aspetti espressioni come quelle dell’antico scritto A Diogneto, secondo cui i cristiani – pur abitando le loro città come tutti gli altri cittadini – offrono l’esempio di una «cittadinanza paradossale»; per loro, infatti, ogni terra straniera è patria, e ogni patria è terra straniera. 

Così Eusebio – sardo di nascita e romano di formazione –, mentre fa sua la sancta plebs di Vercelli, vive in mezzo alla città come un monaco. Questo tratto, evidentemente, nulla toglie al suo straordinario dinamismo pastorale (sembra fra l’altro che Eusebio abbia istituito a Vercelli le pievi per un servizio pastorale ordinato e stabile, e che abbia promosso i santuari mariani per la conversione delle popolazioni rurali pagane): piuttosto, questo tratto monastico conferisce una dimensione peculiare al rapporto di Eusebio con la sua città.

2. Per ragioni di tempo, siamo costretti a sorvolare sulla seconda Lettera di Paolo a Timoteo. A questo giovane vescovo della prima generazione apostolica, Paolo propone squarci della propria biografia, che restano esemplari per ogni vescovo, di qualsiasi tempo. Ma nel testo che abbiamo letto è impressionante l’affinità tra le esperienze di vita dell’Apostolo e quelle del vescovo di Vercelli.

3. Trascorriamo finalmente alla terza lettura, tratta dal capitolo decimo del Vangelo di Giovanni. 

Pochi decenni dopo la morte di Eusebio, Agostino avrebbe commentato da pari suo il testo giovanneo nel celebre Sermone 46. Agostino lo tenne a Ippona (o forse a Cartagine) in una data tra il 406 e il 418. Il Sermone 46, insieme con il successivo Sermone 47, è chiamato anche il Discorso sui pastori.

Ci fermeremo soltanto su quel passo in cui il vescovo di Ippona ritorna al dialogo di Gesù con Pietro sulle rive del mare di Galilea.

«Quando Cristo affidò le pecorelle a Pietro», scrive Agostino, «certo gliele affidò come fa uno che le dà a un altro, distinto da sé. Tuttavia lo volle rendere una cosa sola con sé. Cristo capo affida le pecorelle a Pietro, come figura del corpo, cioè della Chiesa. In questa maniera si può affermare che Cristo e Pietro vennero a formare una cosa sola, come lo sposo e la sposa. Perciò, per affidargli le pecore, non come ad altri che a sé, che cosa gli chiede per prima? Gli chiede: ‘Pietro, mi ami?’. Ed egli rispose: ‘Ti amo’. E di nuovo: ‘Mi ami?’. E rispose: ‘Ti amo’. E per la terza volta: ‘Mi ami?’. E rispose: ‘Ti amo’. Vuole renderne saldo l’amore per consolidarlo nell’unità con se stesso. Egli solo pertanto pascola nei pastori, ed essi pascolano in lui solo (Ipse ergo pascit unus in his, et hi in uno)».

4. Ebbene, possiamo affermare, in base alle testimonianze a noi pervenute, che questa perfetta configurazione del vescovo con Gesù buon pastore ha rappresentato l’impegno costante di sant’Eusebio. 

Lo dimostra l’affetto struggente con cui, scrivendo dall’esilio di Scitopoli, egli si rivolge non soltanto ai dilettissimi fratelli – ai presbiteri tanto desiderati –, ma anche ai santi popoli saldi nella fede, cioè alle sanctae plebes di Vercelli, Novara, Ivrea e Tortona. 

Eusebio conclude la sua lettera da Scitopoli – e così concludiamo anche noi –, affidando un significativo incarico missionario ai suoi figli e alle sue figlie: di salutare cioè «anche quelli che sono fuori della Chiesa». 

A me sembra che si debbano cogliere in questo atteggiamento eusebiano elementi importanti di sinodalità e di ministerialità. I preti non possono e non devono fare tutto da soli. Neppure devono darne l’impressione, assumendo di fatto comportamenti egocentrici e autoritari, talvolta senza nemmeno avvedersene. 

Al contrario, nell’organizzazione della sancta plebs Dei Eusebio invia tutti i fedeli nella missione evangelizzatrice, e ovviamente negli uffici connessi.

Mi pare questa una lezione che non dovremmo mai dimenticare.

Il buon Pastore, che ora sull’altare si fa cibo e bevanda per noi, ci renda tutti – ministri ordinati e fedeli laici – solleciti e buoni pastori del santo Popolo di Dio, alla scuola di Eusebio, primo vescovo di Vercelli.

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