Mons Dal Covolo, I “FONDAMENTI PATRISTICI” DELL’ENCICLICA FRATELLI TUTTI DI PAPA FRANCESCO

+ Enrico dal Covolo

Come è noto, l’età patristica si conclude ufficialmente con Isidoro di Siviglia (+ 636) in Occidente e con Giovanni Damasceno (+ 749) in Oriente. Ma – ora che la Chiesa è cresciuta in età – non è arbitrario prolungare i termini cronologici tradizionali, fino a coprire tutto il primo millennio. Di fatto, Bernardo di Chiaravalle, che è morto nel 1153, viene chiamato spesso “l’ultimo dei Padri”; per l’Oriente, invece, la data estrema di riferimento può essere quella del doloroso scisma del 1054.

Se si accetta questa cronologia non ufficiale, allora potremmo dire che Francesco (1181-1226), erede originale del monachesimo patristico, ha respirato a pieni polmoni l’insegnamento dei nostri Padri, in stretta continuità cronologica con la loro vita e con le loro opere. Così l’Enciclica Fratelli Tutti (d’ora in poi FT) – che dal titolo e dallo sviluppo del primo paragrafo si apre con due citazioni dirette delle Ammonizioni del Santo – trova fin dal suo inizio un solido fondamento patristico.

Ma per chi vuole attenersi alla cronologia ufficiale dell’età patristica, diciamo che – a parte alcune citazioni isolate, che pure esamineremo, perché aiutano a comprendere meglio il pensiero di Papa Francesco – il riferimento ai Padri della Chiesa si concentra nell’Enciclica soprattutto sulle questioni della distribuzione dei beni materiali, del diritto comune alla proprietà, e in definitiva sul tema della povertà e della ricchezza.

1. Il “fondamento patristico” nello sviluppo del tema “povertà e ricchezza”

Conviene leggere anzitutto il paragrafo 119 di FT, verso la conclusione del terzo capitolo, dedicato a “generare e a pensare un mondo aperto”. Per raggiungere questo obiettivo, scrive il Papa Francesco, è necessario “riproporre la funzione sociale della proprietà”.

“Nei primi secoli della fede cristiana”, egli afferma, “diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò induceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che ‘non dare ai poveri parte dei propri beni, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro’. Come pure queste parole di Gregorio Magno: ‘Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra, ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene’”.

Nelle relative note al testo (91-93) il Papa cita, a supporto, Basilio, Pietro Crisologo, Ambrogio e Agostino, riportando i titoli di alcune loro opere. Per le due citazioni dirette egli si riferisce rispettivamente al De Lazaro del Crisostomo e alla Regula pastoralis di Gregorio.

Piuttosto che analizzare le singole citazioni, propongo qui una riflessione di sintesi, complementare al testo dell’Enciclica, riguardo al tema della povertà e della ricchezza nei primi secoli cristiani.

Occorre riconoscere nella letteratura cristiana antica la compresenza di un duplice filone di pensiero. 

Da una parte prevale la prospettiva ascetica, carismatica, escatologica: nella tensione verso la città celeste (spesso avvertita come molto vicina), tutto l’interesse è riservato alla sequela povera di Gesù, e alla rinuncia radicale al mondo.  Sembra essere questa, per molti aspetti, la prospettiva di san Francesco, che non coincide però con quella di FT.

Dall’altra parte si impone, soprattutto nel prosieguo dei secoli, una prospettiva sociologico-caritativa, che riguarda piuttosto l’uso corretto delle ricchezze, mentre avanza l’imperativo etico della condivisione dei beni e la convinzione del diritto comune alla proprietà. E’ questa la linea percorsa da Papa Francesco nella sua Enciclica.

A tale riguardo, è decisivo il paragrafo 74 di FT, dove si legge: “Ci sono modi di vivere la fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica apertura a Dio. San Giovanni Crisostomo giunse ad esprimere con grande chiarezza tale sfida che si presenta ai cristiani: ‘Volete onorare veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo. Non onoratelo nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a patire il freddo e la nudità’”.

E’ questa una citazione diretta della celebre Omelia 50 di Giovanni Crisostomo sul Vangelo di Matteo. Conviene riprenderla ampiamente, nel suo contesto storico-letterario.

 Le Omelie crisostomiane sul Vangelo di Matteo rappresentano per noi il più antico commento completo al primo vangelo. Rappresentano altresì una significativa testimonianza di quell’attività omiletica che avrebbe assicurato al Crisostomo il massimo riconoscimento tra gli oratori ecclesiastici. Risalgono agli anni fra il 386 e il 397 (probabilmente al 390) – vale a dire tra l’ordinazione sacerdotale in Antiochia e l’elezione alla cattedra patriarcale di Costantinopoli –, periodo nel quale il Crisostomo fu chiamato a svolgere diversi incarichi di predicazione nelle più importanti chiese antiochene. Questi incarichi riuscivano particolarmente congeniali a Giovanni, che aveva abbracciato il sacerdozio per un’irresistibile vocazione pastorale, e che specialmente attraverso la predicazione delle Scritture puntava a realizzare tale vocazione: coerentemente la sua predicazione e la sua esegesi – fedeli ai fondamentali indirizzi della cosiddetta “scuola antiochena” – paiono singolarmente sensibili alle condizioni concrete, ai problemi e alle necessità anche materiali dei destinatari.

Tali istanze esegetiche e pastorali caratteristiche della predicazione crisostomiana si riflettono puntualmente nell’Omelia 50, e ne giustificano la singolare impostazione, piuttosto “sproporzionata” rispetto al testo di Matteo.  

L’Omelia infatti intende commentare la pericope conclusiva di Matteo 14.

I temi sviluppati nei primi due paragrafi – dedicati all’esegesi puntuale dei vv. 23-36 – sono soprattutto quelli della preghiera, della pazienza nelle prove, della pedagogia di Dio e della fede dei discepoli. Di fatto, però, la spiegazione del versetto 36 si prolunga lungo gli altri due paragrafi, il terzo e il quarto, così da occupare più di metà dell’intera Omelia

La “sproporzione omiletica” si giustifica grazie al contesto della liturgia eucaristica, in cui l’Omelia è collocata: “Tocchiamo anche noi il lembo del suo mantello”, così il Crisostomo apostrofa i suoi fedeli; “anzi, se vogliamo, noi possediamo Cristo tutto intero. Il suo corpo infatti è ora qui, a nostra disposizione. Non solo il suo mantello, ma il suo stesso corpo: e non per toccarlo soltanto, ma per mangiarlo e per esserne saziati… Che importa se tu non senti la sua voce? Tu lo contempli sull’altare; o meglio tu senti anche la sua voce, dato che egli ti parla per mezzo degli evangelisti”.

Da qui in poi l’Omelia si concentra tutta sul tema dell’Eucaristia e sulle condizioni morali indispensabili per celebrarla degnamente.

Così prosegue infatti il Crisostomo: “Credete che anche ora c’è quella mensa, alla quale anche Gesù sedette con gli apostoli. Non c’è infatti nessuna differenza tra l’ultima cena e la cena dell’altare”. Tale certezza di fede interpella in modo decisivo la responsabilità dei cristiani, poiché la partecipazione alla mensa del Signore non consente incoerenze di sorta: “Comprendiamo bene tutti noi, sacerdoti e fedeli, quale dono il Signore si è degnato di darci, e a quale onore ci ha elevati. Riconosciamolo e tremiamo. Cristo ci ha dato di saziarci con la sua carne, ci ha offerto se stesso immolato. Quale scusa avremo ancora se, così alimentati, continuiamo a peccare; se, cibati dall’Agnello, viviamo come lupi; se, nutriti di tale cibo, non cessiamo di essere avidi come i leoni? Questo sacramento esige non solo che siamo sempre esenti da ogni violenza e rapina, ma puri anche della più piccola inimicizia. Questo sacramento infatti è un sacramento di pace, e non permette di avere attaccamento alle ricchezze”.

Ed ecco finalmente il punto di approdo dell’Omelia, quello a cui si riferisce il Papa Francesco nell’Enciclica: “Che nessun Giuda… si accosti alla tavola!”, esclama il Crisostomo. E non è un criterio sufficiente di dignità quello di presentarsi alla mensa con vasi d’oro: “Non era d’argento quella mensa, né d’oro il calice da cui Cristo diede il suo sangue ai discepoli… Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che egli sia nudo: e non onorarlo qui in chiesa con vesti di seta, per poi tollerare, fuori di qui, che egli stesso muoia per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: ‘Questo è il mio corpo’, e ha confermato il fatto con la sua parola, ha detto anche: ‘Mi avete visto affamato, e non mi avete nutrito’; e: ‘Quello che non avete fatto ad uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me’… Impariamo dunque ad essere sapienti, e ad onorare Cristo come egli vuole… spendendo le ricchezze per i poveri. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro… Che vantaggio c’è, se la sua mensa è piena di calici d’oro ed egli stesso muore di fame? Prima sazia la sua fame, e allora con il superfluo ornerai la sua mensa! Fai un calice d’oro e non dai un bicchiere d’acqua fresca? E che vantaggio c’è? Prepari per la mensa paramenti ricamati in oro e non gli offri nemmeno il rivestimento necessario? E che profitto ne deriva?”.

Ecco chi è Giuda, secondo il Crisostomo. E’ colui che si accosta al Corpo e al Sangue del Signore, ma in realtà non ne condivide il progetto di vita. Giovanni, sempre attento ai risvolti concreti e alla rilevanza sociale della scelta di fede, non perde l’occasione per sottolinearlo con forza, a costo di rendere sproporzionata la sua Omelia.

Egli può approdare così ad uno dei temi caratteristici della sua predicazione, quello dell’elemosina. Il tema dell’elemosina, infatti, scaturisce come un corollario: il Corpo di Cristo condiviso richiama i fedeli alla solidarietà fraterna. Questo spiega perché i sermoni sui poveri si svolgono alla presenza dell’Eucaristia. In effetti, essa crea un nuovo linguaggio di solidarietà per una duplice ragione, che il Crisostomo sottolinea: anzitutto la partecipazione alla stessa mensa, che rafforza i vincoli della comunione; in secondo luogo il fatto che nell’Eucaristia si svela la synkatábasis di Dio, ossia quella “condiscendenza” (abbassamento), che diventa paradigmatica per i cristiani ricchi.

Così infatti termina l’Omelia 50: “L’elemosina purifica dal peccato…, è più grande del sacrificio…, apre i cieli. Essa è più necessaria della verginità; così infatti quelle [le vergini stolte] furono scacciate dalla sala delle nozze; mentre le altre [le vergini prudenti] vi furono ammesse. Consapevoli di tutto ciò, seminiamo generosamente per mietere con maggiore abbondanza e conseguire i beni futuri”.

Come si può verificare facilmente, molti di questi temi sono affrontati in vario modo da Papa Francesco nella sua Enciclica.

Al riguardo possiamo addurre un altro testo patristico più o meno contemporaneo all’Omelia 50 – testo però non citato dal Papa –, trascorrendo così dall’Oriente all’Occidente, cioè dal Crisostomo (+ 407) a Massimo di Torino (+ 420).

Si tratta dei Sermoni 17 e 18 del vescovo, dedicati al tema della povertà e della ricchezza nella comunità cristiana della sua città. 

Ne emerge l’immagine di una città scossa da forti tensioni. 

La ricchezza viene accumulata e occultata. “Uno non pensa al bisogno dell’altro”, constata amaramente Massimo nel suo diciassettesimo Sermone. “Infatti molti cristiani non solo non distribuiscono le cose proprie, ma rapinano anche quelle degli altri. Non solo, dico, raccogliendo i loro danari non li portano ai piedi degli apostoli, ma anche trascinano via dai piedi dei sacerdoti i loro fratelli che cercano aiuto”. E conclude: “Nella nostra città ci sono molti ospiti o pellegrini. Fate ciò che avete promesso” aderendo alla fede, “perché non si dica anche a voi ciò che fu detto ad Anania: ‘Non avete mentito agli uomini, ma a Dio’”.

Nel Sermone successivo, il diciottesimo, Massimo stigmatizza forme ricorrenti di sciacallaggio sulle altrui disgrazie. “Dimmi, cristiano”, così Massimo apostrofa i suoi fedeli, “dimmi: perché hai preso la preda abbandonata dai predoni? Perché hai introdotto nella tua casa un ‘guadagno’, come pensi tu stesso, sbranato e contaminato?”. “Ma forse”, prosegue, “tu dici di aver comperato, e per questo pensi di evitare l’accusa di avarizia. Ma non è in questo modo che si può far corrispondere la compera alla vendita. E’ una buona cosa comperare, ma in tempo di pace ciò che si vende liberamente, non durante un saccheggio ciò che è stato rapinato. Considera l’origine del contratto, l’autore della vendita, il livello del prezzo, e capisci di essere complice di una rapina, piuttosto che compratore di una vendita! Donde un barbaro possiede monili d’oro e di gemme?… Sappiamo che tutte queste cose appartengono a nostri comprovinciali o concittadini. Agisce dunque da cristiano e da cittadino chi compera per restituire”.

Senza darlo troppo a vedere, il vescovo di Torino giunge così a equiparare i doveri civici del cristiano e del cittadino. Vivere una vita cristianamente impegnata, infatti, costituisce per lui un impegno civico, così come è un impegno religioso non abbandonare la città. Viceversa, ogni cristiano che, “pur potendo vivere col suo lavoro, cattura la preda altrui col furore delle fiere”; che “insidia il suo vicino, che ogni giorno tenta di rosicchiare i confini altrui, di impadronirsi dei prodotti, di divorare gli animali”, non gli appare neanche più simile alla volpe che sgozza le galline, ma al lupo che si avventa sui porci.

2. Altri riferimenti patristici dell’Enciclica

Altri riferimenti patristici si incontrano anzitutto nei paragrafi 90-91 di FT.

Siamo sempre nel terzo capitolo dell’Enciclica, ma in un contesto differente, che riguarda l’impegno generoso dell’accoglienza nei confronti dei pellegrini di passaggio. Tale impegno, scrive Francesco, “lo hanno vissuto anche le comunità monastiche medievali, come si riscontra nella Regola di San Benedetto. Benché potesse disturbare l’ordine e il silenzio dei monasteri, Benedetto esigeva che i poveri e i pellegrini fossero trattati ‘con tutto il riguardo e la premura possibili’. E nella nota 68 il Papa cita alla lettera Regula 53,15: Pauperum et peregrinorum maxime susceptioni cura sollicite exhibeatur.

Diversamente – sostiene Francesco, sviluppando nel successivo paragrafo 91 un discorso sulla gerarchia e sull’autenticità delle virtù – “avremo forse un’apparenza di virtù, e queste saranno incapaci di costruire la vita in comune. Perciò San Tommaso d’Aquino – citando Sant’Agostino – diceva che la temperanza di una persona avara non è neppure una virtù”. E prosegue: “San Bonaventura, con altre parole, spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti ‘come Dio li intende’”.

Di notevole rilevanza è – infine – il riferimento all’Adversus haereses di Ireneo (+ 202), per sostenere alcuni diritti comuni, in particolare il diritto alla proprietà. E necessario rileggere l’intero paragrafo 58 di FT. 

Siamo all’inizio del capitolo secondo, intitolato “Un estraneo sulla strada”: “Il libro di Giobbe”, scrive il Papa, ricorre al fatto di avere un medesimo Creatore come base per sostenere alcuni diritti comuni: ‘Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo materno?’ (31,15). Molti secoli dopo, Sant’Ireneo si esprimerà in modo diverso con l’immagine della melodia: ‘Dunque chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo’”.

3. Riflessione di sintesi

Come affermava con chiarezza Giovanni Paolo II verso la conclusione dell’Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, la Chiesa “non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni o per gli altri, purché la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata e promossa” (n. 41).

Tale affermazione resta valida per una valutazione complessiva dei Padri riguardo alle questioni sociali. 

Sulla povertà e la ricchezza, in particolare, il pensiero patristico – saldamente ancorato alla riflessione biblica – è concorde su considerazioni di natura morale, concernenti principalmente la bontà delle cose create, l’uguale dignità delle persone (siano esse ricche o povere), il dovere della solidarietà e della condivisione, l’elemosina… In ogni caso, la gestione delle risorse non può avvenire nella logica e nell’atteggiamento di chi si sente “padrone” di esse, bensì di chi si sente “fratello di tutti” e,  in particolare, fratello dei più poveri.

Precisamente da questo punto di vista i “fondamenti patristici” dell’Enciclica FT si manifestano saldi e convincenti.

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