Mons. Dal Covolo, Il ministro ordinato

ESERCIZI SPIRITUALI 

Solane, 13-19 febbraio 2022

CHI E’ IL MINISTRO ORDINATO?

Dalle origini all’oggi della Chiesa

                                                                                      + Enrico dal Covolo

Programma e contenuti delle meditazioni

    Le meditazioni di questa settimana si articoleranno in due parti, differenti nel genere espositivo, ma tra loro intimamente collegate riguardo all’interrogativo che ci proponiamo.

     Nella prima parte – più teologica, dottrinale, e anche più breve – ci confronteremo soprattutto con i nostri Padri, ma anche con alcuni documenti importanti del Magistero, riguardo a due temi decisivi della formazione sacerdotale: precisamente la consacrazione e la missione del ministro ordinato.

    Nella seconda parte – più narrativa, biografica, e con qualche spunto per la revisione di vita – illustreremo alcune storie di vocazione sacerdotale, inseguendo idealmente (anche se non sempre in modo esplicito) lo schema biblico delle storie di vocazione. Come è noto, esso prevede cinque punti di riferimento fondamentali: la chiamata-elezione di Dio, la risposta del chiamato, la missione, i dubbi e le resistenze del chiamato, la conferma rassicurante del Signore.

    Le due parti giungeranno a rispondere (in modo più o meno adeguato) alla domanda ambiziosa che ci siamo proposti: Chi è il ministro ordinato nella Chiesa?

    Dedico queste meditazioni ai tanti vescovi, sacerdoti, diaconi e chierici che ho incontrato in oltre cinquant’anni di insegnamento e di ministero sacerdotale.

    Assicuro inoltre un ricordo e una preghiera speciali ai diaconi e ai presbiteri che ho ordinato in questi miei dodici anni di episcopato.

PRIMA MEDITAZIONE

Introduzione alla prima parte degli Esercizi

    Nelle prossime quattro meditazioni seguiremo un percorso un po’ complesso, almeno a prima vista.

    I. Partendo dall’Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis sulla formazione dei sacri ministri (= Pdv, del 25 marzo 1992: come è noto, si tratta del documento magisteriale più importante del Postconcilio sulla formazione sacerdotale), faremo un paziente cammino a ritroso. Incroceremo così la Presbyterorum Ordinis del Concilio Vaticano II (= PO), e approderemo finalmente ai Padri della Chiesa. A quest’ultimo livello, quello dei nostri Padri, svolgeremo un rapido anticipo su sant’Agostino. per illuminare efficacemente il percorso successivo.

    II. A questo punto prenderemo in considerazione la cosiddetta “scuola antiochena” – in pratica, dovremo limitarci a Ignazio di Antiochia e a Giovanni Crisostomo –. 

    III. Di seguito, ci occuperemo della “scuola alessandrina” (di fatto, potremo intrattenerci solo su Origene, il grande maestro di questa scuola).

    IV. Torneremo infine in Occidente, ancora a sant’Agostino.

    Il “filo rosso” di queste quattro meditazioni resta sempre la formazione sacerdotale, cioè il progetto del ministero ordinato secondo il cuore della Chiesa, nei suoi due aspetti irrinunciabili di consacrazione e di missione.

    DALLA PASTORES DABO VOBIS ALLA PRESBYTERORUM ORDINIS

FINO A SANT’AGOSTINO

1. “La missione”, si legge nel n. 24 di Pdv, “non è un elemento esteriore e giustapposto alla consacrazione, ma ne costituisce la destinazione intrinseca e vitale: la consacrazione è per la missione. In questo modo, non solo la consacrazione, ma anche la missione sta sotto il segno dello Spirito, sotto il suo influsso santificatore. Così è stato di Gesù. Così è stato degli apostoli e dei loro successori. Così è dell’intera Chiesa, e in essa dei presbiteri: tutti ricevono lo Spirito come dono e appello di santificazione all’interno e attraverso il compimento della missione”.

Poco prima, la medesima Esortazione apostolica aveva indicato nella “carità pastorale” la categoria – o la cifra caratteristica – della sintesi tra consacrazione e missione. Nel n. 23, infatti, la “carità pastorale” è definita come “il principio interiore, la virtù che anima e che guida la vita spirituale del presbitero, in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore”. Ancora di più, essa – la carità pastorale del presbitero – è “partecipazione alla stessa carità pastorale di Gesù Cristo”.

Così l’espressione “carità pastorale” – che ricorre come un leitmotiv nell’Esortazione di Giovanni Paolo II – richiama quella “grazia di unità” tra consacrazione e missione, tra amore di Dio e amore del prossimo, che ogni presbitero è chiamato a implorare e ad accogliere nella sua vita.

2. A questo proposito, conviene ricordare (e non poteva essere altrimenti) che Pdv dipende direttamente dal magistero del Concilio Vaticano II. 

Si pensi, in particolare, al n. 13 di PO, dove si legge: “I presbiteri raggiungeranno la santità”, vale a dire il traguardo vero della consacrazione presbiterale, “se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni”, vale a dire la loro missione, “con impegno sincero e instancabile”.

3. A sua volta, dietro il Vaticano II sta un’ininterrotta tradizione patristica, che non si stanca di predicare questa sintesi vitale tra consacrazione e missione nella formazione del ministro ordinato. 

Per fare un esempio illustre, anticipo fin d’ora una massima lapidaria di sant’Agostino, che si trova al termine del suo Commento al Vangelo di Giovanni: Sit amoris officium pascere Dominicum gregem, ammonisce con vigore il vescovo di Ippona (“Sia un dovere dell’amore pascere il gregge di Cristo”: 123,5).

 L’amore per Cristo, la configurazione a lui – insomma, la consacrazione del presbitero – trovano la loro conseguenza necessaria e coerente nell’esercizio della missione pastorale. 

Si noti che tale massima è citata in nota, nel n. 14 di PO, per illustrare che cosa si debba intendere esattamente per “carità pastorale”.

4. Come è ben noto, l’icastica espressione agostiniana si inserisce in una riflessione complessiva dei Padri orientali e occidentali sul sacerdozio cristiano, sulla sua identità e sulle sue istanze formative.

Come ho già anticipato, cercherò di documentare questa riflessione patristica con due riferimenti esemplari. 

Il primo riferimento, che riguarda l’Oriente, andrà alle “scuole teologiche” più famose dell’antichità cristiana, cioè alla “scuola antiochena” e alla “scuola alessandrina”. Chiaramente il termine “scuola” in questo caso non va inteso in senso stretto, bensì come un orientamento esegetico e dottrinale che muove dalle medesime premesse antropologiche e culturali, ma che non è strettamente vincolante.

Sono ben noti gli orientamenti delle antiche tradizioni di Antiochia e di Alessandria. 

Alessandria sembra accogliere due istanze complementari rispetto ad Antiochia, vale a dire l’allegoria in esegesi e la valorizzazione della divinità del Verbo in cristologia. Più in generale, Alessandria è ben distante dal cosiddetto “materialismo” o “realismo” antiocheno, assai più attento alla lettera nell’esegesi e all’umanità di Gesù nella cristologia. Questo stesso “realismo” appare evidente anche in ambito ecclesiologico e, in particolare, nella dottrina del ministero ordinato. 

Naturalmente si tratta di accentuazioni, non di insegnamenti unilaterali ed esclusivi, come dimostra per esempio il fatto che Origene, maestro dell’allegoria e dell’interpretazione spirituale della Bibbia, è studioso quant’altri mai attento della lettera del testo sacro.

Il secondo riferimento, relativo all’Occidente, ci condurrà, dopo la lettura di alcuni altri testi agostiniani, al celebre Sermone 46 del vescovo di Ippona, detto anche il Discorso sui pastori.

SECONDA MEDITAZIONE

La “scuola antiochena”: da Ignazio a Giovanni Crisostomo

    1. Dalle Lettere di Ignazio (+ 107)

    E’ invalso l’uso di considerare Luciano, maestro di Ario, come il capostipite della “scuola” di Antiochia. 

Ma già Ignazio nei primi anni del II secolo ne anticipava alcuni tratti caratteristici, soprattutto nello spiccato realismo dei suoi riferimenti all’umanità di Cristo. Egli “è realmente dalla stirpe di Davide”, scrive Ignazio agli Smirnesi, “realmente è nato da una vergine…, realmente fu inchiodato per noi” (1,1).

Ignazio impiega lo stesso realismo anche quando si riferisce alla Chiesa. In particolare egli allude più volte alla gerarchia ecclesiastica, parlando dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi.

“E’ bene per voi”, scrive l’Antiocheno ai cristiani di Efeso, “procedere insieme, d’accordo col pensiero del vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro collegio dei presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al vescovo, come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù Cristo è cantato. E così anche voi, a uno ad uno, diventate coro, affinché nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell’unità, cantiate a una sola voce” (4,1-2).

 E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non “intraprendere nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il vescovo” (8,1), confida a Policarpo, vescovo di Smirne: “Io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a colui, per il quale militate, e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un’armatura” (6,1-2).

Complessivamente – osservava già il Papa Benedetto nella sua catechesi dedicata a sant’Ignazio (14 marzo 2007) – si può cogliere nelle Lettere dell’Antiocheno una sorta di dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici della vita cristiana: senz’altro la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, di cui abbiamo fatto cenno; ma anche l’unità fondamentale, che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo. 

Di conseguenza, non esiste la possibilità di un’opposizione dei ruoli.

Al contrario, l’insistenza sulla comunione e sulla reciprocità dei credenti, continuamente riformulata attraverso immagini e analogie (la cetra, le corde, l’intonazione, il concerto…), appare come il risvolto consapevole della comune identità dei fedeli, quasi a prescindere dal fatto che essi siano ministri ordinati o meno.

D’altra parte, però, è evidente la responsabilità peculiare dei diaconi, dei presbiteri e dei vescovi nell’edificazione della comunità.

    Vale anzitutto per loro l’invito all’amore e all’unità. “Siate una cosa sola”, scrive Ignazio ai Magnesi riprendendo la preghiera di Gesù nell’ultima cena: “Un’unica supplica, un’unica mente, un’unica speranza nell’amore… Accorrete tutti a Gesù Cristo come all’unico tempio di Dio, come all’unico altare: egli è uno, e procedendo dall’unico Padre, è rimasto a lui unito, e a lui è ritornato nell’unità” (7,1-2).

Certo, Ignazio non esplicita le istanze formative in rapporto ai ministri sacri, ma esse non sono per questo meno evidenti. Si veda per esempio il passo della Lettera ai Tralliani nel quale il vescovo, raccogliendo l’insegnamento di Atti 6 (su cui torneremo nella conclusione del nostro volume), spiega con franchezza: “I diaconi, che sono al servizio dei misteri di Gesù Cristo, devono cercare di piacere in ogni maniera a tutti. Essi non sono (semplici) servi di cibi e di bevande, ma sono servitori (hyperétai: letteralmente “rematori”, “galeotti incatenati ai remi della nave”) della Chiesa e di Dio. Si guardino perciò da ogni biasimo, come dal fuoco” (2,3).

    Dunque, i ministri ordinati non sono dei semplici “distributori” di cibi e di bevande, ma sono al servizio dei misteri di Gesù e della Chiesa. Se un ministro non si forma nella contemplazione dei santi misteri di Cristo, fino a raggiungere “l’unità” con lui, non può esercitare il ministero autentico della carità, e non “rema”, cioè non “spinge avanti” la Chiesa di Dio.

2. Giovanni Crisostomo (+ 407)

    Trascorro ora a un altro Padre antiocheno, misticamente innamorato del sacerdozio.

Vorrei richiamare la figura del Crisostomo come quella di un testimone, di un pastore “colto sulla breccia” del ministero.

Per illustrare la personalità del Crisostomo si può partire da un aspetto particolare della sua vita.

La storia della sua vocazione non sembra, a prima vista, del tutto lineare. Sentendosi attratto dalla forma di vita monastica ed eremitica – che nella prima metà del IV secolo aveva raccolto molti consensi in Oriente –, Giovanni abbandonò Antiochia, dove esercitava il ministero del lettorato, e si ritirò nella zona del monte Silpio, appena fuori dalla città. Aveva poco più di vent’anni. 

Ma il ritiro in questa regione montuosa, ricca di grotte e di anfratti, non durò molto tempo: sei anni dopo, nel 378, Giovanni rientrò a Antiochia.

Fu certamente una decisione sofferta, che a prima vista poté apparire una sorta di tradimento rispetto al cammino intrapreso. Di fatto molti autori, antichi e moderni, si sono interrogati sui motivi che condussero il giovane Crisostomo a ritornare sui suoi passi. Per lo più si ritiene – sulla scorta di Palladio – che la costituzione fisica di Giovanni non abbia retto alla prova del deserto.

Da parte mia, ritengo più soddisfacente un’altra interpretazione.

A me pare infatti che la storia della vocazione di Giovanni scorra in perfetta continuità con i sei anni di deserto: proprio nella lettura e nella contemplazione solitaria della Parola di Dio, infatti, il Crisostomo dovette maturare l’irresistibile urgenza di predicare quella medesima Parola per l’utilità e per la salvezza degli altri.

Lo dimostra il fatto che, appena rientrato a Antiochia, Giovanni riprese subito, con assoluta dedizione, il suo servizio della Parola: venne reintegrato fra i lettori, fu ordinato diacono, e finalmente nel 386 divenne sacerdote. Da allora in poi – in quella predicazione che lo avrebbe reso giustamente famoso nella tradizione della Chiesa – il santo vescovo non cesserà mai di sottolineare l’intimo rapporto tra il servizio del prossimo e la Parola di Dio. 

A suo parere, l’autentico testimone della carità deve proclamare sempre, con la parola e con le opere, quello che attesta l’apostolo Giovanni: “Ciò che noi abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi!” (cfr. 1 Giovanni 1, 1-3).

In altri termini, per crescere nella carità autentica, i fedeli – e a maggior ragione i ministri ordinati – devono conoscere Gesù Cristo, la Parola di Dio, cioè devono entrare in profonda intimità con lui.

Ancora una volta, il discorso ritorna sulla “dimensione contemplativa” del presbitero, e sulla qualità del suo incontro con il Signore nella Parola e nei Sacramenti. 

In questa stessa prospettiva può essere letto anche il famoso Dialogo con Basilio, composto ad Antiochia intorno al 390, là dove Giovanni Crisostomo parla dell’esempio e della Parola come dei “farmaci”, che il presbitero ha a sua disposizione: “Quelli che curano i corpi degli uomini”, scrive, “hanno a disposizione una quantità di farmaci… Nel nostro caso, oltre all’esempio, non c’è altro strumento o altro metodo di cura, al di fuori dell’insegnamento che si attua con la Parola” (Dialogo sul sacerdozio 4,3,5-13). 

    Nel medesimo Dialogo il Crisostomo parla del sacerdozio come di “una vita fatta di coraggio e dedizione” (così infatti va tradotta la locuzione ghennáia psyché di 2,4,51-64), perché il ministero del (vero) pastore non conosce i confini angusti del tornaconto personale, ma ridonda a vantaggio di tutto il gregge.

Per il Crisostomo, la cura del gregge è il “segno dell’amore”, è la prova concreta che il ministro ama veramente il Signore: “Se mi ami, pasci le mie pecore…” (cfr. Giovanni 21,17). 

In quell’occasione, osserva il Crisostomo, il Maestro chiese al discepolo se lo amava, non per saperlo lui stesso: perché mai avrebbe dovuto farlo, lui che scruta e conosce il cuore di tutti? Neppure “intendeva dimostrare a noi quanto Pietro lo amasse: questo ci era già noto da molti altri fatti; ma voleva dimostrare quanto lui (il Signore) amasse la sua Chiesa, e insegnare a Pietro e a tutti noi quanta cura dovessimo profondere in quest’opera” (2,1,35-40).

Proprio qui risiede l’incolmabile differenza tra il mercenario e il pastore: “Il buon Pastore dà la propria vita per le sue pecore” (Giovanni 10,11).

3. Conclusioni sulla “scuola di Antiochia”

In definitiva, si ha l’impressione che sia Ignazio di Antiochia sia Giovanni Crisostomo insistano di più sull’identità del presbitero che non sull’itinerario della sua formazione. Nella massima parte dei casi, infatti, le istanze formative restano solo implicite.

In tutti e due i Padri, comunque, si può rilevare una forte sottolineatura sulla necessaria unità dei presbiteri con Cristo.

Per entrambi gli Antiocheni, inoltre, unità perfetta con Cristo e dedizione totale al gregge non appaiono semplicemente due caratteristiche costitutive del presbitero (alle quali, di conseguenza, va costantemente orientato ogni itinerario di formazione sacerdotale). 

Esse costituiscono piuttosto un’unica realtà. Sono come le due facce di una stessa medaglia. L’una invera l’altra, e non si dovrebbe dare il caso di un sacerdote che abbia l’una senza l’altra. Per il presbitero la dedizione totale al gregge è il segno della sua unità con Cristo; d’altra parte la piena dedizione al gregge lo impegna “ad accorrere” continuamente “a Gesù Cristo come all’unico tempio di Dio, come all’unico altare” (Ignazio, Lettera ai Magnesi 7,2).

Ecco che cosa si deve intendere esattamente per “carità pastorale”!

In ultima analisi, il “realismo” dei Padri antiocheni invita il presbitero a una sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (intimità, unione, piena configurazione con lui) e dedizione pastorale (missione, servizio alla Chiesa e al mondo): sintesi tra consacrazione e missione, insomma, fino a che attraverso una dimensione parli l’altra, e i ministri non si riducano mai a “semplici distributori”, ma siano “autentici testimoni” dei misteri di Cristo e della sua Chiesa, e sempre di più si trovino “nel possesso di quello spirito di unità (adiákriton pnéuma), che è Gesù Cristo” (con queste parole Ignazio chiude la medesima Lettera ai Magnesi).

TERZA MEDITAZIONE

La scuola di Alessandria: Origene

1. La tradizione alessandrina

Prendiamo adesso in considerazione la cosiddetta “tradizione alessandrina”. 

Abbiamo già notato che Alessandria sembra accogliere alcune istanze complementari rispetto alla tradizione antiochena. Questo – lo ripetiamo – vale anche in ambito ecclesiologico e, in particolare, nella concezione del ministero ordinato.

Per illustrare gli orientamenti alessandrini sul tema della formazione sacerdotale, mi limito a un solo esempio, peraltro molto rappresentativo: mi riferisco a Origene (+ 254), e soprattutto alle sue Omelie sul Levitico, pronunciate a Cesarea di Palestina tra il 239 e il 242. Siamo ormai a qualche anno dalla grave crisi che – a causa dell’ordinazione sacerdotale, conferitagli intorno al 231 dal vescovo di Cesarea, all’insaputa di quello di Alessandria – oppose Origene e il suo ordinario, il vescovo Demetrio. 

La crisi restò aperta, e causò appunto il trasferimento di Origene a Cesarea.

Bisogna riconoscere anzitutto che Origene, da buon alessandrino, è più interessato a contemplare la Chiesa nel suo aspetto spirituale, come mistico Corpo di Cristo, che non nel suo aspetto visibile.

Così Origene è più attento alla cosiddetta “gerarchia della santità”, in rapporto a un cammino incessante di perfezione proposto a ogni cristiano, che non alla “gerarchia visibile”, ministeriale.

Di conseguenza, l’Alessandrino si riferisce più spesso al sacerdozio comune dei fedeli e alle sue caratteristiche, che non al sacerdozio gerarchico.

In ogni caso, seguendo il discorso di Origene sull’uno e sull’altro argomento, non sarà difficile ricavare alcune indicazioni sull’itinerario di formazione dei ministri ordinati.

2. Sacerdozio dei fedeli e condizioni per il suo esercizio

Una lunga serie di testi origeniani – che nella maggior parte dei casi fanno riferimento esplicito o implicito a 1 Pietro 2,9: “Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale…” – intende illustrare le condizioni richieste per l’esercizio del sacerdozio comune.

Nella nona Omelia sul Levitico Origene – riferendosi al divieto fatto ad Aronne, dopo la morte dei suoi due figli, di entrare nel sancta sanctorum “in qualunque tempo” (Levitico 16,2) – ammonisce: “Da ciò si dimostra che se uno entra a qualunque ora nel santuario, senza la dovuta preparazione, non rivestito degli indumenti pontificali, senza aver preparato le offerte prescritte ed essersi reso Dio propizio, morirà… Questo discorso riguarda tutti noi: si riferisce a tutti, ciò che qui dice la legge. Ordina infatti che sappiamo come accedere all’altare di Dio. O non sai che anche a te, cioè a tutta la Chiesa di Dio e al popolo dei credenti, è stato conferito il sacerdozio? Ascolta come Pietro parla dei fedeli: ‘Stirpe eletta’, dice, ‘regale, sacerdotale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato’. Tu dunque hai il sacerdozio perché sei ‘stirpe sacerdotale’, e perciò devi offrire a Dio il sacrificio della lode, sacrificio di orazioni, sacrificio di misericordia, sacrificio di purezza, sacrificio di giustizia, sacrificio di santità. Ma perché tu possa offrire degnamente queste cose, hai bisogno di indumenti puri e distinti dagli indumenti comuni agli altri uomini, e ti è necessario il fuoco divino – non uno estraneo a Dio, ma quello che da Dio è dato agli uomini –, del quale il Figlio di Dio dice: ‘Sono venuto per mandare il fuoco sulla terra’” (Omelia sul Levitico 9,1).

Ancora nella quarta Omelia, prendendo lo spunto dalla legislazione levitica secondo cui il fuoco per l’olocausto doveva ardere perennemente sull’altare (Levitico 6,8-13), Origene apostrofa così i suoi fedeli: “Ascolta: deve sempre esserci il fuoco sull’altare. E tu, se vuoi essere sacerdote di Dio – come sta scritto: ‘Voi tutti sarete sacerdoti del Signore’, e a te è detto: ‘Stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio si è acquistato’ –; se vuoi esercitare il sacerdozio della tua anima, non lasciare mai che si allontani il fuoco dal tuo altare” (Omelia sul Levitico 4,6). 

Come si vede, l’Alessandrino allude alle condizioni interiori che rendono il fedele più o meno degno di esercitare il suo sacerdozio. Così infatti prosegue la stessa Omelia: “Ciò significa quello che il Signore comanda nei vangeli, che ‘siano i vostri fianchi cinti e le vostre lucerne accese’. Dunque sia sempre acceso per te il fuoco della fede e la lucerna della scienza” (ivi).

Per comprendere la concezione origeniana dei “fianchi cinti” è utile citare un passo del primo trattato Sulla Pasqua rinvenuto a Tura nel 1941, là dove l’Alessandrino spiega il significato dei “fianchi cinti” per la cena pasquale (Esodo 12,11). “Ci è ordinato”, commenta Origene, “di essere puri da incontri corporei, questo significando il cingolo del fianco. [La Bibbia] ci insegna a porre un legame attorno al luogo seminale, e ci ordina di frenare gli impulsi sessuali quando abbiamo parte alle carni del Cristo”.

In definitiva, da una parte i “fianchi cinti” e gli “indumenti sacerdotali”, vale a dire la purezza e l’onestà della vita, dall’altra la “lucerna sempre accesa”, cioè la fede e la scienza delle scritture, si configurano precisamente come le condizioni indispensabili per l’esercizio del sacerdozio comune. 

A maggior ragione lo sono, evidentemente, per l’esercizio del sacerdozio ministeriale: potremmo dire anzi che nel pensiero origeniano esse costituiscono le “pietre miliari” della formazione presbiterale. 

Ma su questo discorso torneremo nelle conclusioni.

3. Sacerdozio dei fedeli e accoglienza della Parola

Ma piuttosto che sui “fianchi cinti”, Origene insiste maggiormente sulla “lucerna accesa”, cioè sull’accoglienza e sullo studio della Parola di Dio. 

“Gerico crolla sotto le trombe dei sacerdoti”, esordisce l’Alessandrino nella settima Omelia su Giosuè; e commenta, poco oltre: “Tu hai in te Giosuè [= Gesù] come guida grazie alla fede. Se sei sacerdote, costruisciti delle “trombe metalliche” (tubae ductiles); o meglio, poiché sei sacerdote – infatti sei “stirpe regale”, e di te è detto che sei “sacerdozio santo” –, costruisciti “trombe metalliche” dalle sacre scritture, di qui ricava (duc) i veri significati, di qui i tuoi discorsi; proprio per questo infatti esse si chiamano tubae ductiles. In esse canta, cioè canta con salmi, inni e cantici spirituali, canta con i simboli dei profeti, con i misteri della legge, con la dottrina degli apostoli” (Omelia su Giosuè 7,2). 

Stando alla terza Omelia sulla Genesi, il “popolo eletto che Dio si è acquistato” deve accogliere nelle proprie orecchie la degna circoncisione della parola di Dio: “Voi, popolo di Dio”, afferma Origene, “‘popolo scelto in possesso per narrare le virtù del Signore’, accogliete la degna circoncisione del verbo di Dio nelle vostre orecchie e sulle vostre labbra e nel cuore e sul prepuzio della vostra carne, e in generale in tutte le vostre membra” (Omelia sulla Genesi 3,5). 

“Tu, popolo di Dio”, aggiunge ancora Origene in altro contesto, “sei convocato ad ascoltare la parola di Dio, e non come plebs, ma come rex. A te infatti è detto: ‘Stirpe regale e sacerdotale, popolo che Dio si è scelto’” (Omelia sui Giudici 6,3). D’altra parte, secondo Origene è sacerdote chiunque possiede la scienza della legge divina, et, ut breviter explicem, qui legem et secundum spiritum et secundum litteram novit (Omelia sul Levitico 6,3).

In definitiva, l’accoglienza delle scritture è decisiva per una piena partecipazione alla “stirpe sacerdotale”. 

Interpretando allegoricamente Ezechiele 17, Origene illustra ai suoi fedeli due possibilità, fra loro contrapposte: l’alleanza con Nabucodonosor – segnata dalla maledizione e dall’esilio, caratteristica di chi rifiuta la parola – ; oppure l’alleanza con  Dio, la cui tessera distintiva è precisamente l’accoglienza delle scritture. A questa alleanza segue la benedizione e la promessa: così “noi tutti, che abbiamo accolto la parola di Dio, siamo regium semen”, dichiara Origene nella dodicesima Omelia su Ezechiele. “Infatti siamo chiamati ‘stirpe eletta e regale sacerdozio, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato’” (Omelia su Ezechiele 12,3).

4. Sacerdozio dei fedeli e gerarchia della santità

Queste condizioni – di integra condotta di vita, ma soprattutto di accoglienza e di studio della Parola – stabiliscono una vera e propria “gerarchia della santità” nel comune sacerdozio dei cristiani.

Per esempio, Origene pensa chiaramente a una “gerarchia di meriti spirituali”, assai più che a una “gerarchia visibile”, quando, concludendo nella quarta Omelia sui Numeri la spiegazione del censimento e degli uffici liturgici dei leviti (Numeri 4), afferma: “Poiché dunque è questo il modo con cui Dio dispensa i suoi misteri e regola il servizio degli oggetti sacri, dobbiamo mostrarci tali, che siamo resi degni del rango sacerdotale… Noi siamo infatti ‘nazione santa, sacerdozio regale, popolo di adozione’, perché, rispondendo con i meriti della nostra vita alla grazia ricevuta, siamo ritenuti degni del sacro ministero” (Omelia sui Numeri 5,3,1). 

Nell’Omelia successiva, la quinta sui Numeri, avventurandosi in un’ardita interpretazione del testo (Numeri 4,7-9), egli legge in modo allegorico i vari elementi che costituiscono la “tenda del convegno”. 

Vi si può cogliere ancora qualche allusione alla “gerarchia della santità” quando l’omileta afferma che “ci sono in questa tenda”, cioè nella Chiesa del Dio vivente, “dei personaggi più elevati in merito e superiori nella grazia”. In ogni caso, tutti i fedeli nel loro insieme costituiscono il resto, cioè il popolo dei santi che gli angeli portano sulle loro mani perché non inciampi nella pietra il loro piede, e possano entrare nel luogo della promessa.  Nonostante le severe precauzioni levitiche, a ognuno di loro è lecito contemplare senza sacrilegio alcuni aspetti del mistero di Dio, perché tutti insieme sono chiamati “stirpe e sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato”.

Sempre nelle Omelie sui Numeri si legge la celebre interpretazione origeniana del pozzo di Beer, “di cui il Signore disse a Mosè: ‘Raduna il popolo, e io gli darò dell’acqua’. Allora Israele cantò questo canto: ‘Sgorga. o pozzo: cantatelo! Pozzo che i principi hanno scavato, che i re del popolo hanno perforato con lo scettro, con i loro bastoni” (Numeri 21,16-18). Origene vede in questo pozzo Gesù Cristo stesso, la fonte della Parola, e nell’accenno ai principi e ai re del popolo i diversi gradi di profondità nella lettura e nell’interpretazione delle scritture. Se poi occorre distinguere tra principi e re, Origene propone di vedere nei principi i profeti, nei re gli apostoli. “Quanto al fatto che gli apostoli possano essere chiamati re”, spiega l’Alessandrino, “lo si può facilmente ricavare da ciò che è detto di tutti i credenti: ‘Voi siete stirpe regale, sommo sacerdozio, nazione santa’” (ivi 12,2,4). 

Resta confermato in ogni caso che per Origene la gerarchia più vera è quella che si fonda sui vari livelli di accoglienza delle scritture, mentre rimane implicito – almeno nell’ultima Omelia citata – che il riferimento alla Parola di Dio è indispensabile per l’esercizio del “regale sacerdozio” comune a tutti i fedeli.

5.  Gerarchia ministeriale

Nelle sue omelie Origene si riferisce espressamente ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi. A suo parere, tale “gerarchia visibile” deve rappresentare agli occhi dei fedeli la “gerarchia invisibile” della santità. In altri termini, nella dottrina di Origene ordinazione ministeriale e santità devono procedere di pari passo.

Nella tredicesima Omelia sull’Esodo, illustrando il significato dell’ornamento dell’omerale, “simbolo delle buone azioni”, Origene richiama i fedeli a un’intima coerenza tra i loro discorsi e le loro azioni. “Questo ornamento”, conclude, “è cosa dei prìncipi, che hanno progredito fino al punto di meritare di presiedere ai popoli” Omelia sull’Esodo 13,7).

“I sacerdoti”, scrive ancora nella sesta Omelia sul Levitico, “devono guardarsi nei precetti della legge divina come in uno specchio, e trarre da questo esame il grado del loro merito: se si trovano rivestiti degli indumenti pontificali…, se risulta a loro di essere all’altezza [della loro vocazione] nella scienza, negli atti, nella dottrina; allora possono ritenere di aver conseguito il sommo grado del sacerdozio non solo di nome, ma anche per il loro merito effettivo. Diversamente si considerino come a un grado inferiore, anche se hanno ricevuto di nome il primo grado” (Omelia sul Levitico 6,6).  

Come si vede, una stima altissima nei confronti del sacerdozio ordinato rende Origene molto esigente, quasi radicale, nei confronti dei sacri ministri. Perciò egli mette in guardia chiunque dal precipitarsi “su quelle dignità, che vengono da Dio, e sulle presidenze e i ministeri della Chiesa” (Omelia su Isaia 6,1). E nella seconda Omelia sui Numeri chiede con dolore: “Tu credi che quelli che hanno il titolo di sacerdoti, che si gloriano di appartenere all’ordine sacerdotale, camminino secondo il loro ordine, e facciano tutto quello che si conviene al loro ordine? Allo stesso modo, tu credi che i diaconi camminino secondo l’ordine del loro ministero? E da dove viene allora che si sente spesso la gente lamentarsi, e dire: ‘Guarda questo vescovo, questo prete, questo diacono…’? Non si dice forse perché si vede il prete o il ministro di Dio mancare ai doveri del suo ordine?” (Omelia sui Numeri 2,1,4).

Così nelle sue omelie egli non esita a rimproverare apertamente i difetti più vistosi dei sacerdoti del suo tempo. Ne emerge per noi un efficace ritratto in negativo sui pericoli da evitare nella formazione dei presbiteri.

Un punto debole dei preti è, a parere di Origene, la sete di danaro e di guadagni temporali; insomma – diremmo noi – la tentazione dell’imborghesimento e dell’orizzontalismo esasperato. Egli lamenta che i preti si lascino assorbire dalle preoccupazioni profane, e non domandino altro che trascorrere la vita presente “pensando agli affari del mondo, ai guadagni temporali e al buon cibo” (Omelia su Ezechiele 3,7). E aggiunge, in altro contesto: “Tra noi ecclesiastici si troverà chi fa di tutto per soddisfare il suo ventre, per essere onorato e per ricevere a suo vantaggio le offerte destinate alla Chiesa. Ecco qui quelli che non parlano d’altro che del ventre, e che ricavano da lì tutte le loro parole (Omelia su Isaia 7,3). 

Origene rimprovera ai sacerdoti anche il «carrierismo», l’arroganza e la superbia. “Talvolta”, osserva nella terza Omelia sul libro dei Giudici, “si trovano fra noi – che siamo posti come esempio di umiltà, e collocati intorno all’altare del Signore come specchio per quelli che ci guardano – si trovano alcuni uomini dai quali esala il vizio dell’arroganza. Così un odore ripugnante di orgoglio si espande dall’altare del Signore (Omelia sul libro dei Giudici 3,2). E prosegue altrove: “Quanti preti ordinati hanno dimenticato l’umiltà! Come se fossero stati ordinati proprio per cessare di essere umili!… Ti hanno stabilito come capo: non esaltarti, ma sii tra i tuoi come uno di loro. Bisogna che tu sia umile, bisogna che tu sia umiliato; bisogna fuggire la superbia, vertice di tutti i mali” (Omelia su Ezechiele 9,2).

Altri peccati dei preti sono, secondo Origene, il disprezzo – o almeno una minore considerazione – degli umili e dei poveri, e nei rapporti con i fedeli una specie di altalena tra un’eccessiva severità e una non meno eccessiva indulgenza.

6. Conclusioni sulla “scuola di Alessandria”

Se raccogliamo le indicazioni che Origene fornisce sul sacerdozio comune e su quello gerarchico, possiamo ricavare il seguente itinerario di formazione presbiterale.

La “tessera” per accedere a questo itinerario è la “lucerna accesa”, cioè l’ascolto della parola. Altra condizione indispensabile sono “i fianchi cinti” e gli “indumenti sacerdotali”, ossia una vita integra e pura: riguardo a questo, i ministri ordinati dovranno guardarsi soprattutto dalle tentazioni dell’imborghesimento, della superbia, della minor considerazione dei poveri, della severità eccessiva e del lassismo. Ciò che è richiesto ai sacerdoti è dunque la radicale obbedienza al Signore e alla sua parola, il distacco dallo spirito del mondo, la piena fraternità con il popolo, la dedizione e il servizio. Il vertice del cammino di perfezione – cioè il punto d’arrivo dell’itinerario di formazione sacerdotale, visto che “gerarchia della santità” e “gerarchia ministeriale” devono identificarsi – è per Origene il martirio.  

Nella nona Omelia sul Levitico – alludendo al “fuoco per l’olocausto”, cioè alla fede e alla scienza delle scritture, che mai deve spegnersi sull’altare di chi esercita il sacerdozio – l’Alessandrino aggiunge: “Ma ognuno di noi ha in sé” non soltanto il fuoco; ha “anche l’olocausto, e dal suo olocausto accende l’altare, perché arda sempre. Io, se rinuncio a tutto ciò che possiedo e prendo la mia croce e seguo Cristo, offro il mio olocausto sull’altare di Dio; e se consegnerò il mio corpo perché arda, avendo la carità, e conseguirò la gloria del martirio, offro il mio olocausto sull’altare di Dio” (Omelia sul Levitico 9,9). 

Sono espressioni che rivelano tutta la nostalgia di Origene per il battesimo di sangue. Nella settima Omelia sui Giudici – che risale forse agli anni di Filippo l’Arabo (244-249), quando sembrava ormai sfumata l’eventualità di una testimonianza cruenta – egli esclama: “Se Dio mi concedesse di essere lavato nel mio proprio sangue, così da ricevere il secondo battesimo avendo accettato la morte per Cristo, mi allontanerei sicuro da questo mondo… Ma sono beati coloro che meritano queste cose” (Omelia sui Giudici 7,2).

    Aggiungiamo ancora un’osservazione d’insieme sull’itinerario origeniano della formazione sacerdotale.

Non si può sfuggire all’impressione che in questo, come in altri ambiti, la posizione di Origene sia molto esigente, quando non radicale. Si tratta di una “radicalità” che – anziché addolcirsi con il tempo – si carica di pessimismo e di critica amara a mano a mano che Origene avanza nell’età, specialmente dopo il suo trasferimento da Alessandria a Cesarea.

    Indubbiamente la dottrina origeniana del sacerdozio – come del resto anche quella di Clemente Alessandrino, che scrive nei suoi Stromati: “I gradi della Chiesa di quaggiù, vescovi, presbiteri, diaconi, credo, sono un riflesso della gerarchia angelica e di quell’economia che, come dicono le scritture, attende coloro che sulle orme degli apostoli sono vissuti in perfetta giustizia secondo il vangelo” (6,13,107,2) – collega radicalmente la “gerarchia ministeriale” con la “gerarchia della santità”. 

Tale dottrina, tuttavia, non presenta mai il prete come una specie di angelo: lo coglie piuttosto in un cammino molto concreto di ascesi quotidiana, in lotta con il peccato e con il male.

Tanto per fare un esempio, il progressivo distacco dal mondo che deve caratterizzare la formazione del sacerdote, non si traduce affatto nella ricerca affannosa di un luogo separato dal mondo, perché, scrive Origene nella dodicesima Omelia sul Levitico, “non è in un luogo che bisogna cercare il santuario, ma negli atti e nella vita e nei costumi. Se essi sono secondo Dio, se si conformano ai comandi di Dio, poco importa che tu sia in casa o in piazza; che dico ‘in piazza’? Poco importa perfino che tu ti trovi a teatro: se stai servendo il Verbo di Dio tu sei nel santuario, non avere alcun dubbio” (12,4).

In definitiva la tradizione alessandrina – per una via forse inattesa, perché più “spirituale”, e per alcuni aspetti “rigorista” –, arricchisce di concretezza l’immagine del pastore e le relative istanze di formazione, che avevamo già colto in Ignazio di Antiochia e in Giovanni Crisostomo.

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