Mons. Dal Covolo, Meditazioni successive

QUARTA MEDITAZIONE

Agostino (354-430)

1. Una ventina d’anni dopo il Dialogo sul sacerdozio del Crisostomo, Agostino commenta a Ippona il Vangelo di Giovanni. Il suo Commento si compone di 124 omelie, in parte pronunciate, in parte dettate.

Così anche Agostino si riferisce alla triplice domanda di Gesù a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21,15-17).

A questo riguardo, il vescovo di Ippona riporta sul sacerdozio ordinato la stessa dottrina del Crisostomo, ma con maggiore insistenza. E’ una dottrina che può essere efficacemente riassunta nella sentenza che abbiamo riportato all’inizio: Sit amoris officium pascere Dominicum gregem

Queste parole, citate dal Concilio in PO 14, vennero riprese anche da san Paolo VI nel suo primo messaggio al mondo, il 22 giugno 1963: di fatto, esse intendevano esprimere il programma del suo pontificato.

2. In altro contesto, nel Sermone 137, Agostino osserva che il Signore, prima di affidare il suo gregge a Pietro, gli chiese una professione di amore. Secondo Agostino, il Risorto intendeva chiedere a Pietro: “Che cosa mi darai, che cosa mi offrirai, per il fatto che mi ami? Ma che cosa avrebbe potuto dare Pietro al Signore, che era risorto e ormai prossimo ad ascendere in cielo e a sedere alla destra del Padre?”. Ebbene, risponde Gesù Cristo stesso, secondo Agostino: “Ecco ciò che mi darai; questa prova mi offrirai, dato che mi ami: pascerai le mie pecore” (137,4,4).

    3. E parlando di sé, nell’anniversario della propria consacrazione, il vescovo di Ippona confida al suo popolo: “Sì, devo amare colui che mi ha redento, e so ciò che egli ha detto a Pietro: Pietro, mi ami? Pasci le mie pecore. Questo per una volta, questo per due volte e tre volte. Veniva chiesta la testimonianza dell’amore e veniva imposta una fatica, perché quanto è maggiore l’amore, tanto minore è la fatica” (Sermone 340,1).

    4. Approdiamo infine al Sermone 46.

    Agostino lo tenne a Ippona (o forse a Cartagine) negli stessi anni del suo Commento a Giovanni, cioè in una data tra il 406 e il 418. Questo Sermone 46, insieme con il successivo Sermone 47, è un commento continuato a Ezechiele 34, ed è intitolato anche Discorso sui pastori, in forte polemica con i pastori donatisti.

    Ci fermeremo solo su quel passo, in cui il vescovo di Ippona ritorna – ancora una volta – al dialogo di Gesù con Pietro sulle rive del mar di Galilea.

    “Quando Cristo affidò le pecorelle a Pietro”, scrive Agostino, “certo gliele affidò come fa uno che le dà a un altro, distinto da sé. Tuttavia lo volle rendere una cosa sola con sé. Cristo capo affida le pecorelle a Pietro, come figura del corpo, cioè della Chiesa. In questa maniera si può affermare che Cristo e Pietro vennero a formare una cosa sola, come lo sposo e la sposa. Perciò, per affidargli le pecore, non come ad altri che a sé, che cosa gli chiede per prima cosa? Gli chiede: ‘Pietro, mi ami?’. Ed egli rispose: ‘Ti amo’. E di nuovo: ‘Mi ami?’. E rispose: ‘Ti amo’. E per la terza volta: ‘Mi ami?’. E rispose: ‘Ti amo’. Vuole renderne saldo l’amore, per consolidarlo nell’unità con se stesso. Egli solo pertanto pascola nei pastori, ed essi pascolano in lui solo (Ipse ergo pascit unus in his, et hi in uno)” (46,30).

***

    Come si vede – ed è questa la conclusione della prima parte delle nostre meditazioni – l’itinerario formativo di sintesi tra consacrazione e missione del presbitero giunge con Agostino al vertice più elevato. 

Da una parte, il ministro ordinato si identifica con Cristo, si impersona in Lui, perché ogni pastore non è che una figura dell’unico Pastore, Gesù Cristo. Questa consapevolezza matura è il massimo della comunione con lui, e rappresenta il punto più alto della consacrazione sacerdotale.

Dall’altra parte, il Pastore è Uno totalmente donato: la sua è una “vita per”, regalata, buttata per le pecore fino allo scandalo della croce. Gesù Cristo, il buon Pastore, non abbandona mai le sue pecore, neanche quando le affida a Pietro e agli altri pastori dopo di lui. I pastori, infatti, sono una cosa sola con lui: proprio per questo anche loro, come lui, sono totalmente “buttati” nella missione. Solo la piena dedizione al gregge dimostra la loro perfetta unità con Gesù Cristo, buon Pastore.

In tale prospettiva – non altra – va affrontata la questione del celibato dei preti, oggi più che mai discussa. 

Non è questo il luogo per approfondire l’argomento. 

Ci basta aggiungere, al riguardo, una parola decisiva del Papa Francesco: “Sono convinto che il celibato sia un dono, una grazia e, camminando nel solco di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, io sento con forza il dovere di pensare al celibato come a una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa Cattolica latina. Lo ripeto: è una grazia, non un limite” (San Giovanni Paolo Magno, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2020, p. 75).  

QUINTA MEDITAZIONE

Introduzione alla seconda parte degli Esercizi

Abbiamo percorso fin qui un itinerario storico-teologico, rivisitando soprattutto la dottrina di alcuni Padri sulla formazione, sull’identità, sulla consacrazione e la missione dei ministri ordinati.

Ora ci chiediamo: come si sono inverate di fatto tali istanze, nell’ormai bimillenaria tradizione della Chiesa?

E’ ciò che vorremmo verificare, contemplando le storie di vocazione di alcuni sacerdoti esemplari.

    L’antologia potrebbe essere lunghissima, ma – dentro al “gran nugolo di testimoni” (Ebrei 12,1) – dovremo limitarci ad alcuni “medaglioni sacerdotali” più rappresentativi. 

    Incontreremo così sant’Ambrogio di Milano, vescovo e dottore della Chiesa; san Giovanni Leonardi, fondatore dei Chierici regolari della Madre di Dio; san Giovanni Maria Vianney, speciale patrono dei sacerdoti in cura d’anime; infine, san Giovanni Bosco, padre e maestro dei giovani

    Exempla trahunt, dicevano i saggi latini. 

    L’intento che ci proponiamo è che questo confronto con alcune figure di sacerdoti esemplari possa farci toccare con mano l’identità autentica del ministro ordinato nella Chiesa, e che possa guidare efficacemente la loro formazione nella consacrazione e nella missione.

AMBROGIO DI MILANO (339-397)

1. La morte di Ambrogio

Ambrogio morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del sabato santo.

Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. “Noi vedevamo muoversi le sue labbra”, attesta Paolino, il fedele segretario che per ordine di Agostino ne scrisse la Vita, “ma non udivamo la sua voce”.

A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato dalla voce di una persona che gli ripeteva: “Alzati, presto! Ambrogio sta per morire…”.

Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – “e gli porse il santo Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli, secondo la cui vita egli visse in terra, e della compagnia di Elia: infatti, alla pari di Elia, Ambrogio non ebbe timore di parlare ai re e ai potenti della terra, come lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).

Ambrogio non era vecchio, quando morì (non aveva neppure sessant’anni, essendo nato verso il 339), ma era ben preparato alla morte: ne aveva parlato spesso ai suoi fedeli, qualche volta con il cuore straziato dal dolore, come quando aveva celebrato le esequie dell’amato fratello Satiro.

Ma forse le parole che descrivono meglio l’atteggiamento di Ambrogio di fronte alla morte si trovano nel suo Commento al Salmo 36, che svela l’intima partecipazione del vescovo di Milano alla morte del Signore: “Cristo è apparso nella carne”, scrive Ambrogio. “E’ lui la nostra vita in tutto. La sua morte è vita, la sua ferita è vita, il suo sangue è vita, la sua risurrezione è vita di tutti. E’ lui il chicco che si è dissolto, è morto nel suo corpo per noi, per produrre in noi una messe abbondante. Quello dunque che è stato fatto in lui è vita. Carne è stata fatta in lui: è vita. Morte è stata fatta in lui: è vita… Risurrezione è stata fatta in lui: è vita” (Commento a dodici Salmi. Salmo 36, 36-37).

In quel venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente segnavano la sua mistica partecipazione alla croce e alla risurrezione del Signore.

Vogliamo introdurci alla storia della vocazione sacerdotale di sant’Ambrogio sottolineando due dettagli del racconto di Paolino.

1.1. Anzitutto, Paolino afferma che fu Onorato, vescovo di Vercelli, ad assistere Ambrogio con gli estremi conforti della fede. 

Ma perché Onorato?

Si può pensare che questi provenisse dal famoso monasterium clericorum vercellese. In ogni caso, fu proprio Ambrogio a volerlo vescovo.

Queste vicende capitarono negli ultimi tre anni della vita di Ambrogio, a partire dal 394.

La Chiesa di Vercelli attraversava un momento difficile: era divisa e senza pastore. Così il vescovo di Milano scrisse ai vercellesi, rimproverandoli duramente. Esitava a riconoscere in loro “la discendenza dei santi padri che approvarono Eusebio”, il primo vescovo di Vercelli, “non appena l’ebbero visto, senza averlo mai conosciuto prima di allora, dimenticando persino i propri concittadini” (Epistola 63).

Nella stessa Epistola Ambrogio attesta nel modo più chiaro la sua altissima stima nei confronti del vescovo di Vercelli: “Un così grande uomo”, scrive in modo perentorio, “ben meritò di essere stato eletto da tutta la Chiesa”.

Eusebio, morto nel 371, tre anni prima che Ambrogio salisse alla cattedra episcopale di Milano, dovette essere un modello e un punto di riferimento sicuro per quel giovane magistrato, che improvvisamente si trovò a capo della Chiesa milanese. Di fatto, l’ammirazione di Ambrogio per Eusebio è evidente. In lui il vescovo di Milano vide un pastore, che guidava la sua diocesi anzitutto con la testimonianza della propria vita: “Con l’austerità del digiuno”, scrive Ambrogio ai vercellesi, Eusebio “governava la sua Chiesa” (ivi).

Ambrogio – autore della Fuga dal mondo – è affascinato dall’ideale monastico e dalla contemplazione di Dio. Gli è congeniale Elia, che percorre il deserto per giungere fino all’Oreb, il monte di Dio. Gli è congeniale Eusebio, che per primo raccoglie il proprio clero in vita communis, divenendo così il fondatore del più antico monasterium clericorum, e che, sono le sue parole, “osservava le regole monastiche pur vivendo in mezzo alla città” (ivi).

Come si vede, i rapporti tra la Chiesa di Milano e quella di Vercelli nella seconda metà del IV secolo sono storicamente documentati, e giustificano la presenza del vescovo Onorato al capezzale di Ambrogio.

1.2. L’altro dettaglio che conviene riprendere dal racconto della morte di Ambrogio è il riferimento al profeta Elia. L’anima del nostro vescovo, scrive Paolino, gode ora della presenza di Elia. “Infatti, alla pari di Elia, Ambrogio non ebbe timore di parlare ai re e ai potenti della terra come lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).

    Dal punto di vista del nostro tema – cioè dell’identità del ministro consacrato, della sua consacrazione e della sua missione – questo riferimento a Elia è decisivo.

2. Ambrogio e il profeta Elia: l’itinerario spirituale della fuga mundi

Sant’Ambrogio parla frequentemente di Elia: si può dire che quasi in ogni sua opera egli ne faccia menzione.

Sappiamo che nel leggere le scritture, come nell’accostarne i vari personaggi, Ambrogio usava il metodo allegorico-spirituale, che in fondo presiede alla lectio divina tradizionale. Infatti la lettura spirituale della Bibbia – così come la intendevano i Padri alessandrini, anzitutto Clemente e Origene, e come Ambrogio imparò a praticarla – implica l’attenzione all’esegesi letterale e storica, ma nello stesso tempo l’esigenza inderogabile di andare oltre il velo della lettera.

Ambrogio è persuaso che sia necessaria una meticolosa opera di “imbrigliamento” di ogni singola espressione verbale per fermare la parola e “spremerne” tutte le potenzialità nascoste: e questo deve essere fatto, perché già nella singola parola si attua il miracolo della presenza divina, e quindi il lavorio esegetico deve partire dai termini, che sono dimora del Verbo ed eventi dell’economia di salvezza.

Qualche volta può sembrare che questo desiderio di “spremere” le potenzialità della parola, fino a trascenderla, giunga a forzare il senso del testo. 

Sono questi i momenti in cui l’esegesi dei Padri ci sembra lontana e difficilmente proponibile.

Per esempio nella Fuga dal mondo Ambrogio commenta così l’avventura di Elia nel deserto: “Elia fuggì una donna, Gezabele, cioè la vanità senza limiti, e fuggì sul monte Oreb, che significa “essiccamento”, perché si essiccasse in lui il flusso della vanità carnale ed egli potesse conoscere Dio con maggiore pienezza… Certamente un così grande profeta non fuggiva una donna, ma il mondo, e non temeva la morte, lui che si era presentato a chi lo cercava e diceva al Signore: ‘Accogli l’anima mia’, preso dal disgusto, non dal desiderio di questa vita; ma fuggiva le attrattive mondane, il contagio di una convivenza peccaminosa e i sacrilegi di un popolo empio e prevaricatore” (La fuga dal mondo 6,34).

Osserva al riguardo il cardinale Carlo M. Martini che la difesa di Elia, fatta da Ambrogio, non soddisfa, “perché il testo biblico dice: ‘Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi’” (Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Casale Monferrato-Milano 1990, p. 87).

Eppure, cogliendo l’anima del commento ambrosiano (cioè l’itinerario ascetico della fuga mundi), possiamo ricavarne alcune indicazioni molto utili per la preghiera e per la vita.

Già un’altra volta Elia aveva dovuto fuggire, quando, sollecitato dalla Parola del Signore, era andato a nascondersi “presso il torrente Cherit, che è a oriente del Giordano” (1 Re 17,3).

A questo proposito Ambrogio osserva, sempre nella Fuga dal mondo, che Elia “stava presso il torrente Corrad” (Ambrogio usa questo tipo di vocalizzazione), “che significa conoscenza, per attingervi copiosamente la conoscenza di Dio che in esso scorreva, fuggendo il mondo a tal punto da non cercare altro alimento per il corpo se non quello recatogli dagli uccelli che lo servivano, quantunque il suo cibo per lo più non fosse terreno. Di conseguenza, per l’energia infusa a lui dal cibo ricevuto, camminò per quaranta giorni” (La fuga dal mondo 6,34).

Secondo l’intuizione di Ambrogio la fuga verso il Cherit e il nascondiglio di Elia negli anfratti sovrastanti il torrente conducono il profeta a una più profonda conoscenza di Dio, e in definitiva alla sapienza del cuore.

Possiamo vedere nella caverna del Cherit la preghiera nascosta, la preghiera contemplativa profonda, sconosciuta agli occhi del mondo, per la quale è necessario camminare a lungo nella desolazione, nell’aridità, nel deserto, ma che nutre abbondantemente lo spirito: una preghiera nascosta agli occhi del mondo – “nNasconditi presso il torrente Cherit” (1 Re 17,2) –, e anche, non di rado, ai nostri stessi occhi. Preghiera impalpabile, misteriosa, così come è dura, faticosa e buia la pista che conduce nel fondo del burrone, dove scorre il torrente: preghiera arida, e tuttavia feconda nello spirito, forse più ancora dei cosiddetti “momenti gratificanti”.

Secondo Ambrogio, infatti, la preghiera di Elia al Cherit promuove efficacemente il cammino di conversione del profeta, fino a spalancargli la strada dell’Oreb.

E qui guadagniamo un punto d’arrivo del magistero pastorale di sant’Ambrogio. Si tratta di una delle indicazioni più precise per superare le difficoltà nell’itinerario della fede e della preghiera: parlo della necessaria continuità tra la preghiera e la vita.

Proprio questo itinerario ascetico di continuità tra la preghiera e la vita (cioè tra la preghiera del Cherit e il cammino di spoliazione nel deserto, fino all’Oreb) costituisce per ogni cristiano, e soprattutto per il ministro ordinato, il cartello segnaletico della fuga mundi, nel senso positivo che Elia e Ambrogio ci insegnano.

In altri termini, è proprio questa la corsia preferenziale da percorrere per superare compromessi borghesi e superficialità spirituali. La vera contemplazione (considerata dai nostri Padri il punto d’arrivo della lectio divina) è il «confronto vitale» con Dio-Amore, un confronto che deve giungere a trasformare in amore tutta la nostra vita (cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 40).

3. Ambrogio, maestro di formazione sacerdotale

Un aspetto particolare del magistero di Ambrogio riguarda la formazione dei ministri ordinati. Di fatto la sua vita e le sue opere svelano molte istanze della formazione umana, spirituale e pastorale del presbitero.

    Ne emerge una visuale del sacerdozio che presenta alcune caratteristiche precise.

E’ anzitutto una visuale cristica, come è del resto l’orientamento di tutta l’opera ambrosiana. Cristo è il vero levita, che comunica il proprio sacerdozio all’intera Chiesa, e particolarmente ai presbiteri, i quali perciò devono vivere come “divorati” da lui, amarlo, imitarlo, presentare la sua stessa immagine ai fedeli, donare la sua vita. Se il Cristo è il verus levites, il presbitero è anch’egli un levita vero, impegnato in una lotta senza quartiere contro se stesso e lo spirito del mondo, per essere – come Gesù Cristo – totalmente di Dio.

E’ una visuale totalitaria: l’intimità eucaristica, l’umiltà, l’obbedienza al vescovo, la castità perfetta, l’oblazione di sé sono espressioni di questo amore per Cristo, che non ammette compromessi o accomodamenti.

E’ una visuale comunitaria, davvero sinodale: la formazione del presbitero ha un respiro cosmico. ed è inserita nel mistero della Chiesa. La vita spirituale per Ambrogio è apertura alle necessità del mondo, non ripiegamento su di sé: il sacerdote è l’uomo per gli altri, non tiene nulla per sé, e quindi si santifica non solo per se stesso, ma per l’arricchimento dell’intera comunità ecclesiale, a partire anzitutto dalla fraternità con i ministri della Chiesa.

E’ una visuale pratica: Ambrogio – alla scuola dei maestri alessandrini – non intende il presbitero come “una creatura angelicata”, irreale, ma come un cristiano in possesso di solide virtù umane, secondo lo stampo ciceroniano della morale antica, elevata e cristianizzata dalla pratica del Vangelo.

E’, infine, una visuale dinamica: il sacerdote deve santificarsi mediante l’esercizio, ricco di zelo, dei munera che la Chiesa gli ha affidato attraverso il vescovo, cioè anzitutto attraverso la celebrazione dell’Eucaristia e della Parola di Dio.

Come è divorato da Cristo, così il presbitero è divorato dalle anime: la cura pastorale assorbe tutto il suo tempo, le sue intere risorse fisiche, intellettuali, spirituali ed anche economiche, senza lasciarlo pensare troppo alle proprie necessità. Le occupazioni pastorali non si limitano peraltro alla sola sfera cultuale e rituale, ma impegnano la formazione del presbitero nella costante pratica della carità, richiedendogli una vita sobria, povera, disinteressata.

Possiamo aggiungere una riflessione complementare, che riguarda il tema della verecundia o del “dignitoso comportamento” dei sacerdoti, confrontando tra loro il De officiis di Cicerone e il De officiis [ministrorum] di sant’Ambrogio. 

Sia Cicerone sia Agostino consideravano la verecundia come parte integrante della formazione dei giovani, rispettivamente dei cittadini e dei chierici. In particolare, il valore attribuito da sant’Ambrogio al decoro esterno è da mettere in relazione con la sua concezione del comportamento cristiano, caratterizzato da verità e semplicità. L’importante è essere “dal di dentro” uomo verace e leale, e questo si traduce di conseguenza in un comportamento decoroso e naturale. 

Le regole proposte dal vescovo di Milano non sono in funzione di un’apparenza mondana, che mirerebbe a nascondere la vera realtà interiore per ingannare gli altri: al contrario, esse contribuiscono a mettere in piena luce le intime ricchezze della persona. Inoltre – se Ambrogio stabilisce per i suoi chierici un certo tipo di comportamento, per cui assume le regole di condotta in uso nell’ambiente patrizio di tipo ciceroniano –,  bisogna però aggiungere che egli le intende animate da un autentico spirito evangelico. E’ l’anima, è lo spirito che stabiliscono la natura, l’indole di una regola di condotta.

Il decoro di cui tratta Cicerone, comprensivo delle virtù fondamentali della prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, e la stessa sophrosyne dei Greci, seppure sono alla base del trattato ambrosiano, ricevono dall’ispirazione biblica del santo vescovo una particolare connotazione spirituale, che fa del comportamento dignitoso un elemento importante nella formazione dei chierici e di tutti i fedeli.

4. Ambrogio e Agostino: un ministro della Chiesa “in azione”

Queste riflessioni, necessarie per approfondire la storia della vocazione e il magistero di Ambrogio, ci hanno condotto prevalentemente sul versante teorico, dottrinale.

Ora vorrei andare alla prassi, e incontrare, per così dire, “il pastore sulla breccia”.

Come esercitava Ambrogio la sua “direzione spirituale”? In concreto, attraverso quali scelte e strategie si realizzava il suo magistero pastorale?

Per rispondere a queste domande conviene ripercorrere – con un po’ di pazienza – la storia del celebre incontro tra Ambrogio e Agostino.

 4.1. Agostino: da Cartagine a Roma

Tormentato da un’inquieta ricerca della verità, deluso dalle dottrine manichee, frustrato nell’insegnamento dall’indisciplina degli allievi, Agostino decide di lasciare Cartagine nel 383, quando Ambrogio è vescovo di Milano ormai da dieci anni.

Ha 29 anni, e si potrebbe dire che ha raggiunto una piena maturità di vita. In realtà, perplesso e angosciato nel suo intimo, egli dispera ormai di poter conseguire quella verità, cui anela con tutte le forze come al senso ultimo della sua esistenza.

Così la partenza di Agostino da Cartagine in quella notte del 383 sa molto di una fuga. Monica si rende conto della fase critica che sta attraversando suo figlio, e non vorrebbe assolutamente lasciarlo partire. Agostino deve imbarcarsi di nascosto, lasciando sua madre a piangere e a pregare. In verità né Monica né Agostino se ne rendono conto, ma la fuga da Cartagine costituisce l’inizio di quell’episodio assolutamente centrale della vita di Agostino, che fu il suo incontro con Ambrogio, culminato nella conversione e nel battesimo. 

In un primo momento la destinazione di Agostino, esule da Cartagine, fu Roma. Se non che l’impatto con l’ambiente romano fu un’altra grave delusione. Agostino si era illuso che gli studenti romani fossero più disciplinati degli africani, e invece si accorge che a Roma gli allievi sono solo più imbroglioni, e neppure pagano i loro insegnanti.

Agostino sta facendo questa esperienza amara, quando al prefetto di Roma, Simmaco, giunge una richiesta dalla corte imperiale, di stanza a Milano: si è resa vacante la cattedra di eloquenza dello Studio Pubblico, e si vuole coprirla con un retore di prestigio. Il titolare della cattedra di eloquenza a Milano, infatti, è in qualche modo l’oratore ufficiale della corte imperiale. Simmaco pensa subito ad Agostino, e questi accetta.

4.2. Milano: Ambrogio e Agostino

Da poco giunto a Milano – siamo ormai nell’autunno del 384 –, il giovane cattedratico dello Studio Pubblico si reca in visita alle varie autorità cittadine, e incontra pure il vescovo Ambrogio. La nostra fonte narra che questi lo accolse satis episcopaliter (Confessioni 5,3). E’ un avverbio un po’ misterioso: che cosa intendeva dire Agostino? Probabilmente, che Ambrogio lo accolse con la dignità propria di un vescovo, con paternità, ma insieme con qualche distacco.

E’ certo che Agostino rimase affascinato da Ambrogio; ma è altrettanto certo che un incontro a tu per tu su ciò che ad Agostino maggiormente interessava, e cioè sui problemi fondamentali della ricerca della verità, veniva di giorno in giorno differito, tanto che qualcuno ha potuto affermare che Ambrogio era molto freddo nei confronti di Agostino, e che poco o nulla egli ebbe a che fare con la sua conversione. 

Eppure Ambrogio e Agostino s’incontrarono più volte. Però Ambrogio teneva il discorso sulle generali, limitandosi per esempio a tessere gli elogi di Monica, e congratulandosi con il figlio per una simile madre. 

Quando poi Agostino si recava appositamente da Ambrogio, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava; oppure, quando non era con loro (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il necessario, o alimentava lo spirito con letture.

E qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi. Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva: che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità assolutamente singolare di conoscenza e di comprensione delle scritture. 

Agostino siede spesso in disparte, con discrezione, ad osservare Ambrogio; poi, non osando disturbarlo, se ne va in silenzio. “Così”, conclude Agostino, “non mi era mai possibile interpellare l’animo di quel santo profeta, se non per questioni trattabili rapidamente. Invece quei miei travagli interiori lo avrebbero voluto disponibile a lungo per potersi riversare su di lui; ma non succedeva mai” (Confessioni 6,4).

Sono parole molto gravi: tanto che verrebbe da dubitare della stessa sollecitudine pastorale di Ambrogio e della sua reale attenzione alle persone.

Personalmente, invece, sono convinto che quella di Ambrogio nei confronti di Agostino fosse un’autentica strategia, e che essa rappresenti efficacemente la figura di Ambrogio pastore e formatore.

Ambrogio è certo al corrente della situazione spirituale di Agostino, oltre al resto perché gode delle confidenze e della piena fiducia di Monica. Tuttavia il vescovo non ritiene opportuno di impegnarsi con lui in un contraddittorio dialettico, dal quale lui, Ambrogio, avrebbe anche potuto uscire perdente. Ambrogio, evidentemente, si era incontrato spesso con persone di questo genere, e aveva collaudato un suo metodo. In questi casi, evidentemente, egli preferiva sospendere le parole e lasciar parlare i fatti, e con la sua prassi affermava il primato dell’essere sul dire del pastore.

Quali sono questi fatti? 

In primo luogo la testimonianza della vita di Ambrogio, intessuta di preghiera e di servizio nei confronti dei poveri. E Agostino rimane salutarmente impressionato, perché Ambrogio si dimostra uomo di Dio e uomo totalmente donato al servizio dei fedeli. La preghiera e la carità, testimoniate da questo eccezionale formatore, subentrano alle parole e ai ragionamenti umani.

L’altro fatto che parla ad Agostino è la testimonianza della Chiesa milanese. Una Chiesa forte nella fede, radunata come un corpo solo nelle sante assemblee, di cui Ambrogio è l’animatore e il maestro, grazie anche agli inni da lui stesso composti; una Chiesa capace di resistere alle pretese dell’imperatore Valentiniano e di sua madre Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un luogo di culto per le cerimonie degli ariani. Stando alle parole di Paolino, che abbiamo letto all’inizio, “Ambrogio, alla pari di Elia, non ebbe timore di parlare ai re e ai potenti della terra, come lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).

Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. “Anche noi”, e questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, “pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo” (Confessioni 9,7).

Agostino insomma, pur non riuscendo a dialogare come avrebbe voluto con il vescovo Ambrogio, resta positivamente contagiato dalla sua vita, dal suo spirito di preghiera, dalla sua carità verso il prossimo, e dal fatto che Ambrogio si manifesta uomo di Chiesa: lo vede impegnato nell’animazione delle liturgie, ne coglie il progetto coraggioso di edificare una Chiesa unita e matura.

In questo modo Agostino trova nella testimonianza del vescovo Ambrogio un vero ministro della Chiesa, che lo riscatta dall’angoscia e dalla disperazione.

4.3. Agostino cantore della speranza

Alcuni anni più tardi, Agostino – ormai prete, e poi vescovo – scrive degli splendidi passi sulla speranza, che lo aiutano a chiarire, ai pagani come ai cristiani, lo “scandalo” di una realtà ancora fatta di pena e di dolore. 

Vogliamo ascoltarne alcuni, tratti dai celebri Commenti ai Salmi, per lo più delle omelie, che Agostino tenne soprattutto a Cartagine.

“Che cosa c’è qui sulla terra?”, si domanda per esempio Agostino nel Commento al Salmo 48; e risponde: “Fatica, oppressione tribolazione, tentazione: non puoi sperare nient’altro. E la gioia dov’è? Nella speranza futura. Dice dunque l’apostolo: ‘Sempre lieti’ (2 Corinzi 6,10). In mezzo a tutte queste tribolazioni, sempre lieti e sempre afflitti. Sempre lieti, perché egli stesso dice: ‘Come se afflitti, ma sempre lieti’. La nostra afflizione ha un come se, la nostra gioia non ha come se, perché nella speranza è certa”.

Lo stesso discorso prosegue nel Commento al Salmo 123, dove si legge a proposito dei cristiani: “Che cosa cantano dunque costoro? Che cosa cantano queste membra di Cristo? Sono persone che amano, e cantano d’amore, cantano di desiderio. A volte cantano sotto il peso della tribolazione, a volte invece pieni di esultanza, perché cantano nella speranza. La nostra tribolazione, infatti, è qui in questo mondo, mentre la nostra speranza riguarda il mondo a venire, e se nella tribolazione che ci accompagna in questo mondo non ci consolasse la speranza della vita futura, saremmo finiti. La nostra gioia, fratelli, non è dunque ancora una realtà di fatto, ma è una gioia nella speranza. Tuttavia la nostra speranza è così certa, che è come se fosse già diventata realtà”.

“Come Gesù Cristo è diventato la nostra speranza?”, si chiede infine Agostino. “Perché è stato tentato, ha patito ed è risorto. Così è diventato la nostra speranza. In lui puoi vedere la tua fatica e la tua ricompensa: la tua fatica nella passione, la tua ricompensa nella resurrezione. E’ così che è diventato la nostra speranza. Perché noi abbiamo due vite: una è quella in cui siamo, l’altra è quella in cui speriamo. Quella in cui siamo ci è nota, quella in cui speriamo ci è sconosciuta… Con le sue fatiche, le tentazioni, i patimenti, la morte, Cristo ti ha fatto vedere la vita in cui sei; con la risurrezione ti ha fatto vedere la vita in cui sarai. Noi sapevamo solo che l’uomo nasce e muore, ma non sapevamo che risorge e vive in eterno. Per questo è diventato la nostra speranza nelle tribolazioni e nelle tentazioni, ed ora siamo in cammino verso la speranza” (Commento al Salmo 60, 4).

4.4. Agostino cantore della misericordia

Ma – agli occhi di Agostino, “discepolo” di Ambrogio – la speranza teologica non basta. Essa deve essere accompagnata e “inverata” dalla misericordia e dalle buone opere della carità. E’ utile citare, a questo riguardo, un breve sermone intitolato Il valore della misericordia. Non sappiamo dove, né quando, venne pronunciato. Per la verità non siamo neppure certi della paternità agostiniana: tuttavia è eloquente l’attribuzione pressoché concorde di questo scritto al vescovo di Ippona. 

    “O buoni fedeli” – così esordisce il Discorso – “desidero darvi qualche avvertimento sul valore della misericordia. Per quanto io abbia sperimentato che voi siete disponibili a ogni opera buona, tuttavia è necessario che su questo argomento tenga con voi un discorso di particolare impegno. Vediamo dunque: che cos’è la misericordia? Non è altro se non caricarsi il cuore di un po’ di miseria altrui. La parola ‘misericordia’ deriva il suo nome dal dolore per il ‘misero’. Tutt’e due le parole sono presenti in questo termine: miseria e cuore (de dolore miseri misericordia dicta est: utrumque ibi sonat, et miseria et cor). Quando il tuo cuore è toccato, colpito dalla miseria altrui, ecco, allora quella è misericordia. Fate attenzione pertanto, fratelli miei, come tutte le buone opere che facciamo nella vita riguardano veramente la misericordia. Ad esempio: tu dài del pane a chi ha fame; daglielo con la partecipazione del cuore, non con noncuranza, per non trattare come un cane l’uomo a te simile. Quando dunque compi un atto di misericordia, comportati così: se porgi un pane, cerca di essere partecipe della pena di chi ha fame; se dài da bere, partecipa alla pena di chi ha sete; se dài un vestito, condividi la pena di chi non ha vestiti; se dài ospitalità, condividi la pena di chi è pellegrino; se visiti un infermo, condividi quella di chi ha una malattia; se vai a un funerale, ti dispiaccia del morto; e se metti pace fra i litiganti, pensa all’affanno di chi ha una contesa. Se amiamo Dio e il prossimo, non possiamo fare queste cose senza una pena nel cuore” (Il valore della misericordia).

5. Conclusione

In definitiva, che cosa trasformò Agostino, da quell’uomo disperato che era, in un tale cantore della speranza e della misericordia?

Un elemento decisivo fu certamente la singolare formazione spirituale ricevuta dal vescovo Ambrogio, un’educazione basata sull’esempio e sulla testimonianza.

A questo riguardo mi sembra utile proporre due riflessioni, che legano tra loro – come in una catena ininterrotta di testimonianze – i santi vescovi Eusebio, Ambrogio e Agostino. Come ho già accennato, pare che Ambrogio abbia inteso mettersi, in qualche modo, alla scuola di Eusebio. Lo attesta soprattutto l’Epistola 63, già citata, che il vescovo di Milano scrisse intorno al 394 alla Chiesa di Vercelli.

Molti tratti accomunano i santi vescovi Eusebio, Ambrogio e Agostino, ma vorrei ricordarne soprattutto due, assolutamente centrali nell’identità del ministro consacrato. 

Essi sono l’ascolto orante della Parola e l’esercizio della carità.

5.1. Eusebio, Ambrogio e Agostino sono anzitutto ministri della Parola. Ciò che impressionò salutarmente il giovane Agostino, e finì per riscattarlo dalla sua disperazione, fu proprio la familiarità del vescovo di Milano con la Parola del Signore, l’intimità profonda che si svelava in quella sua lettura a fior di labbra. Ma in questo amore per le scritture e per la preghiera Ambrogio giocava una nobile gara con il vescovo di Vercelli. Per Eusebio – come per Ambrogio – la Bibbia era l’anima della preghiera quotidiana, il segreto della sua intensa vita pastorale.

E’ facile l’attualizzazione del discorso. Ne scaturisce un esame di coscienza necessario per chi vuole ritrovarsi nella testimonianza di Eusebio, di Ambrogio e di Agostino. Anche oggi, di fronte alla sfida di certa cultura nichilista e atea, si può vincere solo con un “di più” di preghiera, nutrita sistematicamente dalla lectio divina, cioè dall’ascolto orante e ubbidiente della Parola di Dio: una lectio, è appena il caso di dirlo, che non sia fine a sé stessa, ma che conduca piuttosto alla conversione della vita. “Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi abbiamo trattato ogni giorno di morale”, diceva Ambrogio ai destinatari delle sue catechesi, “affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell’obbedienza ai precetti divini” (I misteri 1,1).

5.2. E così, oltre che ministri della Parola, Eusebio, Ambrogio e Agostino si rivelano ministri della Chiesa al servizio della carità. Tornano alla mente alcuni gesti profetici di Ambrogio e di Agostino, come quello di fondere i vasi sacri per il riscatto dei prigionieri, e rivediamo, come in un flashback, lo sguardo ammirato di Agostino, che contemplava Ambrogio assediato da catervae di poveri. Ma già prima di Ambrogio la vita della Chiesa eusebiana era piena di fioretti della carità cristiana e ricca di iniziative lungimiranti per la salvezza di tutti.

Di nuovo dovremmo interrogarci con coraggio se come ministri ordinati ci muoviamo sulla strada di Eusebio, di Ambrogio e di Agostino.

Certo, non è facile praticare la carità nel contesto sociale di oggi. Anzitutto la lista dei bisogni si è fatta più lunga che mai, e in secondo luogo, volendo fare del bene agli ultimi, si rischia talvolta di soccorrere il malvivente piuttosto che l’uomo ferito e derubato.

Come al solito, il ricorso al Vangelo e ai Padri non offre delle risposte confezionate per i singoli problemi della vita, né pretende di sostituirsi alla coscienza responsabile dei fedeli. 

Ma – nonostante le difficoltà sopra indicate, e tante altre che si potrebbero aggiungere – l’interrogativo fondamentale (“Tu, da che parte stai? Sei uno dal ‘cuore duro’, o hai le ‘viscere di misericordia’ del nostro Dio?”) continua a risuonare con tutta la sua forza, insieme al pressante invito a riconoscere nel volto del povero il volto di Cristo. Dovrai discernere e mediare caso per caso le modalità dei tuoi interventi. Ma alla fine le tue azioni devono esprimere con chiarezza l’orientamento di fondo della tua vita: e queste azioni sono anzitutto le opere della carità. Esse devono risplendere “davanti agli uomini”: su di esse sarai giudicato nell’ultimo giorno.

In definitiva, la storia della vocazione di sant’Ambrogio, vescovo di Milano, si delinea con molta chiarezza. 

Essa si fonda su una sintesi efficace, personalmente realizzata e testimoniata, tra la preghiera e la vita, tra l’ascolto della Parola e l’esercizio della carità. Non si riduce affatto a una serie di concetti astratti o di norme disincarnate.

Inoltre (e di conseguenza) Ambrogio si colloca al centro di una «cordata di testimonianza», che idealmente lega tra loro Eusebio, lo stesso Ambrogio e Agostino.

    Dovremmo chiederci a questo punto se anche noi ci ritroviamo nella stessa “cordata”. A noi, cristiani del Duemila, Eusebio, Ambrogio e Agostino affidano il testimone che è passato tra le loro mani, perché la fede, la speranza e l’amore possano vincere il mondo.

SESTA MEDITAZIONE

San Giovanni Leonardi (1541-1609)

     Facciamo memoria della storia di vocazione di san Giovanni Leonardi, sacerdote e fondatore dei Chierici regolari della Madre di Dio. In questo caso utilizzeremo esplicitamente lo schema narrativo delle storie bibliche di vocazione

    Prima però conviene ricordare che il nostro santo – nato vicino a Lucca nel 1541 – visse a Roma i suoi anni più fecondi, godendo dell’amicizia spirituale di alcuni altri santi sacerdoti, come san Filippo Neri, san Giuseppe Calasanzio e il cardinale Baronio.     Questo riferimento all’amicizia tra i santi (e soprattutto tra santi sacerdoti) meriterebbe uno sviluppo adeguato. Qui mi limito semplicemente a segnalare il tema. 

    San Giovanni Leonardi morì a Roma nel 1609, e le sue spoglie mortali riposano nella chiesa di Santa Maria in Campitelli, sede generalizia dell’Ordine da lui fondato. 

Come già abbiamo accennato, nella Bibbia le storie di vocazione – dai Patriarchi ai Profeti, da Maria santissima agli Apostoli – sono accomunate da uno schema letterario, che prevede almeno tre tappe: la chiamata-elezione, la risposta, la missione.

Di norma vi si aggiungono poi i dubbi e le resistenze del chiamato, e – infine – la conferma rassicurante di Dio.

Proprio in questo modo vogliamo confrontarci con la storia della vocazione di san Giovanni Leonardi. In questo caso, tuttavia, ci limiteremo ai primi tre momenti dei racconti biblici.

1. La chiamata-elezione

Ecco dunque il primo atto di questa bella storia: la chiamata-elezione, l’iniziativa assolutamente gratuita di Dio.

Anche la storia di vocazione di san Giovanni Leonardi, come del resto ogni storia di vocazione, è anzitutto dono e mistero, per usare una suggestiva espressione – su cui torneremo a suo tempo – del santo papa Giovanni Paolo II, quando, nel cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, egli volle rileggere con sguardo di fede la storia della propria vocazione.

La lettura del profeta Isaia, citata da Gesù stesso nel suo discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret, ce ne dà conto: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione” (Isaia 61,1).

A questo proposito, possiamo ricordare un momento preciso della vita di san Giovanni Leonardi, quando – subito dopo la morte del padre – egli aveva ormai deciso di dedicarsi alla professione di speziale, o di farmacista. Siamo nel 1568. Giovanni si recava a Lucca, per comperare i vasi e gli altri strumenti necessari per il suo lavoro. Ma lungo la strada lo sorprese una voce interiore: “Giovanni, dove vai? Hai chiesto il consiglio al tuo confessore?”, gli chiese la voce. E quando il giovane, ubbidendo alla voce di Dio, si confrontò con il padre spirituale, la risposta fu netta: “Figliuolo, fermatevi un poco. Io non voglio che facciate più lo speziale…”.

Ecco l’iniziativa assolutamente gratuita di Dio. E’ lui che chiama. Il vero protagonista di ogni storia di vocazione è soltanto lui. 

Al chiamato spetta la responsabilità umile di una risposta fedele.

2. La risposta

Trascorriamo così al secondo atto della nostra storia: la risposta alla chiamata del Signore.

Due verbi presiedono di norma a questa tappa dei racconti biblici di vocazione: “lasciare” e “seguire”, cioè l’“esodo” per la “sequela”. Valga per tutte la storia della vocazione di Abramo: “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”, gli ordina il Signore, “e va’ verso il paese che io ti indicherò…” (Genesi 12,1).

L’esodo personale di Giovanni Leonardi fu assai travagliato, e spesso incompreso: da Lucca a Roma; dalla fondazione dei Preti Riformati a quella dei Chierici Regolari della Madre di Dio…

Comunque, proprio attraverso le difficoltà e le incomprensioni si snoda la risposta fedele del Leonardi al suo Signore: la sua è la risposta propria dei “ministri/schiavi di Cristo” e degli “amministratori dei misteri di Dio”: ad ognuno di questi amministratori, ammonisce Paolo, si richiede che risulti fedele (1 Corinzi 4,1).

In effetti, quella di san Giovanni Leonardi fu una risposta senza riserve alla volontà di Dio. E’ proprio questa una linea caratteristica della sua spiritualità: la matura consapevolezza della volontà divina, a cui lui – come il “servo biblico” – non poteva in alcun modo sottrarsi. Di fatto, la certezza di essere uno strumento nelle mani del Signore l’accompagnò sempre, dall’inizio alla fine della sua storia di vocazione sacerdotale. 

3. La missione

Lungo gli anni della sua vita, le giornate divennero per lui come tanti d’amore ripetuti a Dio, che l’aveva chiamato al servizio della Chiesa, del prossimo, dei ragazzi da educare e da istruire.

    Ecco la missione di san Giovanni Leonardi, mirabilmente riassunta in un passo famoso delle Costituzioni del 1584: “Il Signore”, vi scrisse il santo, “ci ha chiamati non solo perché potessimo attendere a noi stessi, ma perché cercassimo con ogni diligenza la salvezza del nostro prossimo. E tutti noi fratelli” (cioè i Chierici da lui fondati) “con animo acceso ci sforzeremo di compiere questa volontà di Dio, attendendo all’amministrazione dei santissimi sacramenti senza perdonare fatica e disagio. Si predichi e si legga la Divina Scrittura in Chiesa nostra ogni giorno di festa comandata e insieme si insegni la Dottrina Cristiana ai bambini”.

    E davvero i Chierici del Leonardi si mossero così per la missione, proprio come i settantadue discepoli, di cui parla il Vangelo. Il Signore “li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e in ogni luogo dove stava per recarsi”: ed essi avvicinavano al mondo il Regno di Dio (Luca 10,1-9).

4. La storia è finita…

La storia è finita, e in un certo senso ci dispiace, perché era proprio una bella storia. 

Ma la cosa più bella di tutte è questa: la storia, in verità, non è finita

La storia di vocazione alla santità di Giovanni Leonardi, infatti, è una solenne consegna per ciascun fedele, e soprattutto per ogni ministro ordinato: che sulla stessa strada di fede, di speranza e di carità ci troviamo a camminare anche noi, ciascuno con la sua irripetibile storia di vocazione, ma sempre con tutta la fede e la passione di cui siamo capaci.

Anch’io sono chiamato da Dio, ogni giorno della mia vita.

Anch’io devo rispondere a lui, in modo coerente e fedele.

Anche a me è affidata una missione, che nessun altro può compiere al mio posto.

Basta che ci fidiamo di Dio, il vero protagonista della nostra storia di vocazione.

E allora, voltandoci indietro a guardare la nostra vita, anche a noi – come ai santi – sembrerà finalmente di comprendere tutto: che la grazia di Dio ci accompagna, e che il suo amore misericordioso dura per sempre.

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