Mons. Dal Covolo, Ulteriori meditazioni

SETTIMA MEDITAZIONR

San Giovanni Maria Vianney (1786-1859)

Quest’altro “medaglione sacerdotale” è dedicato a Jean-Marie Vianney, più noto come “il santo curato d’Ars” (Dardilly, 8 maggio 1786 – Ars-sur-Formans, 4 agosto 1859). 

Il “segreto” della sua invidiabile fecondità pastorale è svelato da Hans Urs von Balthasar in una pagina impressionante, che ci permette di toccare con mano il realismo dei santi

“Quando si chiedeva a Jean-Marie Vianney quale fosse il suo metodo, che convertiva anche i peccatori incalliti”, scrive il teologo svizzero, “egli rispondeva: ‘Ecco il mio segreto: do ai peccatori una piccola penitenza, e faccio io il resto, al loro posto’. Ai preti, che si lamentavano della tiepidezza della loro parrocchia, il santo chiedeva: ‘Ma voi, avete solo predicato, avete soltanto pregato? Non avete anche digiunato, non avete dormito per terra? Non vi siete flagellato?’” (cfr. Cattolico, Jaca Book, Milano 1976, p. 132). 

Da parte mia, mi limiterò a richiamare semplicemente cinque tratti della vita del santo curato, basandomi soprattutto sull’eccellente biografia di F. Trochu, Le curé d’Ars Saint Jean-Marie Baptiste Vianney d’après toutes les pièces du Procès de Canonisation et de nombreux documents inédits (mi riferisco qui all’edizione Résiac, Montsûrs 2004).

L’esempio dei sacerdoti santi scalda il nostro cuore, e rappresenta una delle lezioni più efficaci della Chiesa sulla vocazione al ministero ordinato.  

1. Il primo tratto biografico che intendo ricordare riguarda la formazione del santo curato.

Sappiamo bene che il ministero sacerdotale non si improvvisa. È richiesto un percorso formativo serio e responsabile. Tuttavia Jean-Marie frequentò solo per due anni il seminario, prima quello di Verrière, e poi quello di Saint-Irénée a Lyon, da dove – per dirla in termini un po’ crudi – fu espulso dopo due mesi, perché debilissimus: era considerato una nullità in latino, e totalmente inadatto allo studio. 

Eppure, il giovane Jean-Marie poté ricevere una formazione eccellente a contatto con un sacerdote colto, pio, e profondamente dedito alle cure del ministero. Era il curato di Écully, l’abbé Charles Balley, che aveva istituito una scuola di formazione sacerdotale nella sua canonica. Era un testimone esemplare, se il curato d’Ars ebbe a dire di lui: “Ho conosciuto molte anime belle, ma nessuna come la sua”. E aveva ragione: l’abbé Balley intuì, come ogni autentico educatore, il valore di quel giovane – timido, e persino un po’ goffo – che si era messo alla sua scuola. Seppe incoraggiarlo, e ottenne dal Vicario generale, Monsignor Courbon, che il giovane Jean-Marie fosse dispensato dall’uso della lingua latina nell’esame di ammissione agli Ordini sacri. 

Il curato d’Ars imparò poi ad esercitare la cura d’anime “sul campo”, avendo sempre come maestro l’abbé Balley. Nella sua parrocchia, infatti, esercitò il ministero per tre anni, dall’ordinazione sacerdotale, fino a quando – nel 1818 – fu destinato ad Ars. 

Dal suo maestro il curato apprese le coordinate fondamentali della santità sacerdotale, vale a dire la consacrazione e la missione: una vita interiore robusta, fatta di preghiera e di penitenza, e una dedizione totale alle anime.

    Cari confratelli sacerdoti!

Vi invito a rileggere con sguardo di fede la storia della vostra vocazione, per rendere più generosa e coerente la nostra risposta al Signore. 

Forse sono passati molti anni, ma ritorniamo con il ricordo orante al tempo della nostra formazione sacerdotale: lasciamoci stupire dalla Provvidenza di Dio, che con mirabile sapienza e amore ha disposto gli incontri e le tappe decisive della nostra vita; ringraziamo il Signore per i sacerdoti, che con il loro insegnamento e il loro esempio hanno contribuito a plasmare il nostro sacerdozio… 

Ripensiamo a ciò che abbiamo appreso da loro, e magnifichiamo il Signore, che ha guidato gli anni della formazione e i primi passi del nostro ministero. 

Ci accompagna in questo esercizio la testimonianza del Papa emerito, Benedetto XVI. 

Nella Lettera di indizione dell’anno sacerdotale (16 giugno 2009), ritornando con animo grato agli inizi del suo sacerdozio, egli scrive: “Porto ancora nel cuore il ricordo del primo parroco, accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al suo servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il Viatico a un malato grave”.

Ecco la risposta autentica del sacerdote, davanti alla sua missione pastorale!

2. Passiamo ora al secondo tratto biografico.

Pochi anni dopo l’inizio del ministero parrocchiale ad Ars, il santo curato avviò un’iniziativa, in cui profuse tutto l’entusiasmo e lo zelo di cui era capace: l’istituzione di un orfanotrofio e di una scuola femminile, la Providence

Per più di vent’anni, la Providence fu, in un certo senso, la sua casa. Vi si recava non solo per i doveri del ministero, ma anche per prendere i pasti e per intrattenersi amabilmente con le piccole orfane. Alla preghiera di queste innocenti attribuiva un’efficacia speciale. 

Nel 1848 la direzione della Providence venne affidata a una Congregazione religiosa femminile, che vi impresse un nuovo orientamento educativo. Anche il Vescovo aveva sollecitato questo cambio: si temeva, infatti, che l’istituzione non sarebbe sopravvissuta alla scomparsa del fondatore. 

È innegabile che per questo motivo il nostro curato soffrì molto, al punto di affermare: “Monsignore, il Vescovo, vede in questa decisione la volontà di Dio, ma io… io no!” (Trochu, p. 416). Eppure accettò tutto, senza alcuna recriminazione, collaborando cordialmente con le Religiose di san Giuseppe, che subentravano alle prime educatrici. Quando questo avvenne, egli aveva già 62 anni.

Cogliamo in questo episodio una grande libertà interiore, persino da ciò che noi oggi definiremmo i nostri “progetti pastorali”. Come sacerdoti, infatti, tutti abbiamo i nostri piani pastorali, diamo vita a iniziative, entriamo in contatto con persone, che diventano collaboratori e amici. Umanamente ci affezioniamo a tutto questo. Talvolta sembra che il successo ottenuto ci renda quasi indispensabili. Non poche volte, però, l’obbedienza ai superiori, le circostanze della vita, il cambio delle situazioni ci chiedono un distacco. 

Come reagiamo? 

In questi casi, sappiamo assumere con coraggio quello “sguardo di fede”, quell’“ispirazione”, che il santo vescovo Francesco di Sales definiva “un raggio celeste, che porta nei nostri cuori una luce calda, per mezzo della quale ci fa vedere il bene, e ci riscalda per farcelo perseguire” (Trattato dell’Amor di Dio 10)? 

Se amiamo Dio sopra ogni altra cosa, un cambio di ufficio, un trasferimento, la conclusione di un’attività a cui tenevamo molto, non ci risparmieranno forse da una certa sofferenza interiore, ma questo non ci turberà, e non ci toglierà quella pace e quella gioia, che Jean-Marie Vianney conservò di fatto, anche quando dovette lasciare ad altri la sua Providence.

3. Questa libertà interiore, che lo rese fedele nell’adempimento della missione, emerge pure da un altro episodio della storia di vocazione del santo curato, il terzo che ricordiamo

Benché totalmente dedito all’azione pastorale, egli avvertiva sempre un’irresistibile attrazione per la vita contemplativa. 

Ci furono due memorabili tentativi di “fuga”: il primo nel 1843, dopo una grave malattia; il secondo dieci anni più tardi, quando, con l’arrivo del nuovo vicario parrocchiale, Jean-Marie credette di potersi ritirare. 

Ecco la testimonianza di Mademoiselle des Garets, appartenente alla famiglia dei nobili di Ars: “Sperava di rifugiarsi nella solitudine della Trappa, o in qualche altro luogo nascosto, per prepararsi alla morte e piangere sulla propria vita”. 

In una maniera quasi rocambolesca, e tuttavia molto toccante, i suoi penitenti gli impedirono di partire, inginocchiandosi davanti a lui. Fecero suonare le campane a martello, e convocarono tutti i parrocchiani, che si accalcarono attorno a lui, fino a rendergli impossibile il passaggio. Anche questa volta il santo – vinto dall’affetto devoto della gente, e totalmente abbandonato alla volontà di Dio – rinunciò al suo progetto.

Ma il “sogno” della preghiera e della penitenza solitaria non cessò mai di abitare nel cuore di questo parroco, “prigioniero delle anime” e divorato dallo zelo pastorale. 

Eppure, non fu certo un sogno inutile, a prescindere dalla sua mancata realizzazione. Al contrario, rese il curato d’Ars ancora più contemplativo nell’azione, trasfigurandolo progressivamente nell’immagine e nell’amore di quel Dio, che egli testimoniava e irradiava.

Ebbene, non capita qualcosa di analogo nella vita di molti di noi? 

Forse anche noi, ripensando alla storia della nostra vocazione, vediamo che c’erano nel nostro cuore desideri puri e nobili, dei progetti a cui tenevamo molto: ma poi la vita ha preso una direzione diversa, e abbiamo fatto altro. 

Non per questo dobbiamo coltivare sterili rimpianti. Siamo contenti ugualmente. Il solo fatto che quei “sogni” siano stati ospitati nel nostro cuore è già un dono di Dio. La nostra vocazione, poi, è riuscita per un’altra strada.

Non tutti i fiori che splendono sui rami a primavera sono destinati a dare frutto: molti di essi sono creati solo per la loro bellezza, che muore all’urto del vento. 

I desideri buoni hanno anche un valore in sé. Possono allargare l’animo. Possono essere offerti a Dio con freschezza e amore.

4. Trascorro ora al quarto episodio.

Accennavo prima al fatto che nel 1853 ci fu ad Ars un avvicendamento dei vicari parrocchiali: l’abbé Toccanier prese il posto di colui che – per otto anni – era stato il più stretto collaboratore di san Jean-Marie.

Questo sacerdote era l’abbé Raymond. Tra il curato e lui i rapporti non furono certo facili. Tutt’altro. Dalle testimonianze del processo di canonizzazione apprendiamo che questo sacerdote, di vent’anni più giovane del curato, si considerava una specie di “tutore” del parroco. Lo trattava con durezza, senza esitare a contraddirlo pubblicamente. Privo di ogni tatto e delicatezza, incurante dell’età e dalla fama di santità che già circondava Jean-Marie Vianney, più volte ne feriva la delicata sensibilità. Voleva diventare lui il parroco di Ars. Consultando i registri parrocchiali di quegli anni, vediamo con sorpresa che l’abbé Raymond si firmava “curé de la paroisse”. 

Tutto ciò doveva amareggiare non poco il nostro santo, che del suo vicario era stato benefattore: gli aveva pagato perfino la retta nel seminario! 

Sappiamo bene che cosa accade in queste circostanze: molta gente, indignata, riferiva tutto al parroco. Si lamentava con lui del comportamento del suo “vice”, e chiedeva insistentemente che se ne informasse il Vescovo, perché l’abbé Raymond fosse trasferito altrove.

I sacerdoti santi, però, non acconsentono a questo modo di fare troppo umano. Reagiscono in altro modo. Jean-Marie difendeva il suo vicario, dicendo così alla gente: “Oh, egli mi dice solo la verità; quanto gli sono riconoscente! Se qualcuno lo farà partire, io me ne andrò insieme a lui”. Alcune voci giunsero alle orecchie del Vescovo, grande amico del curato d’Ars. Allora Jean-Marie gli scrisse: “Non ho nulla di speciale da riferire a Vostra Grandezza circa Monsieur Raymond, eccetto che egli merita un posto d’onore nel vostro cuore, in cambio di tutti i gesti di bontà che egli ha per me” (Trochu, p. 527). 

E’ proprio questo ciò che si dice “vincere il male con il bene” (cfr. Romani 12,21)!

Sicuramente qualche episodio del genere è capitato anche a noi, nella nostra vita sacerdotale: a volte – per quel poco di invidia e di gelosia, le cui radici non si estirpano mai del tutto – alcuni confratelli ci hanno amareggiato, e forse ancor oggi sono causa di sofferenza per noi. 

Guardiamo dunque alla santità del curato d’Ars! 

È santo per il grado eroico delle virtù che ha praticato. Perché è veramente eroico non lamentarsi di chi – stando accanto a noi e, magari, “gerarchicamente sottoposto” a noi – mormora e ci ostacola pesantemente. 

Il modo di comportarsi del parroco di Ars nei confronti del suo vicario dimostra che esiste anche un’altra “gerarchia”, che conta più di ogni altra: è la gerarchia di quella carità, “che tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Corinzi 13,7).

È veramente eroico trasformare queste situazioni nella partecipazione alla croce di Cristo. 

Una volta, anche il nostro curato sembrava non farcela più. Chiese al suo sagrestano, frère Athanase – un fidatissimo e devoto amico –, di preparargli una bozza di lettera da mandare al Vescovo. Appena la ebbe letta, la strappò e dichiarò: “Ci ho pensato bene. Nostro Signore ha portato la croce. Anch’io posso fare come ha fatto lui” (Trochu, p. 521). 

Alla fine, questa strategia si mostra vincente. Non soltanto cresciamo noi stessi nella santità, ma tocchiamo il cuore di chi ci tratta male. Il prezzo da pagare è alto, perché a volte il cuore sanguina. Nel processo canonico, l’abbé Raymond – che intraprese anche il progetto di una biografia del suo ex-parroco, rimasta però solo in frammenti – confessò: “Non ho che un rimpianto, quello di non avere sufficientemente approfittato dei suoi esempi; tuttavia conto sull’affetto tenero e paterno, che egli mi ha testimoniato” (Trochu, pp. 526-527).

    5. Propongo infine un ultimo tratto della biografia del santo curato. 

    Quando Jean-Marie giunse nella sua parrocchia, la qualità della vita cristiana era mediocre. C’era da scoraggiarsi: scarsa osservanza del precetto domenicale, ignoranza religiosa, una certa immoralità, segnata dalla frequentazione assidua delle osterie e da una disinvolta promiscuità nei balli pubblici. 

    Solo pochi anni dopo l’inizio del suo ministero, nel 1823, Jean-Marie scrisse a Madame Fayot: “Mi trovo in una piccola parrocchia, piena di spirito religioso, che serve il buon Dio con tutto il suo cuore” (Trochu, p. 256). Evidentemente gli abitanti di Ars avevano già cambiato il loro modo di vivere, che andava ispirandosi sempre di più al Vangelo predicato e testimoniato dal santo curato. 

    Come si può spiegare questo successo pastorale? 

    Certamente, esso va attribuito allo zelo di san Jean-Marie, che visitava le famiglie, curava il decoro della sacra liturgia, organizzava l’associazionismo con l’istituzione delle confraternite, predicava con fervore, sollecitava la collaborazione dei fedeli più sensibili. Tuttavia, la scelta pastorale prioritaria del curato fu un’altra: egli si inginocchiava spesso dinanzi all’Eucaristia, e dal dialogo con il Pastore dei pastori ricavava l’energia interiore per compiere il suo ministero. Così, mentre attirava le benedizioni di Dio sui fedeli, egli offriva un esempio personale di pietà, che toccava e convertiva il cuore della gente.

    Il curato d’Ars è uno dei “santi eucaristici” menzionati dal Papa Benedetto XVI a conclusione dell’Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (n. 94). Inoltre, nella già citata Lettera di indizione dell’anno sacerdotale, il Papa emerito scriveva: “Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al Tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia… Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che ‘non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione’”.

    La vita di un prete cambia, se egli è adoratore assiduo del Santissimo Sacramento, se si lascia invadere da quello “stupore eucaristico”, che con parole veramente ispirate san Giovanni Paolo II ha voluto ridestare nella sua ultima Enciclica, Ecclesia de Eucharistia

    In verità, tutta la vita e la missione del sacerdote devono essere inondate dalla Grazia efficace di questa divina Presenza, adorata, accolta, comunicata. 

    Il rischio di un certo “pelagianesimo pastorale” è sempre in agguato: anche senza volerlo, si può facilmente cadere nell’errore di ritenere che l’efficacia pastorale dipenda dall’organizzazione e dall’attività. Da parte mia, non vorrei azzardare valutazioni affrettate: ma non è forse vero che dove la Chiesa si è data un’impostazione eccessivamente burocratica, qualcosa non ha più funzionato, e la gente si è allontanata?

    In questa linea di discernimento si muove decisamente, in molti suoi passaggi, la Lettera del Santo Padre Francesco ai sacerdoti in occasione della morte del santo curato d’Ars (4 agosto 2019).   

    Jean-Marie Vianney, inginocchiato in amorosa contemplazione di Gesù vivo nel Santissimo Sacramento, ci ricorda che un prete deve partire dal Tabernacolo e tornare sempre a questo incontro, per suscitare e accompagnare l’azione misteriosa della grazia nelle anime dei fedeli. Solo così egli sarà per la gente il padre, il maestro, l’amico. 

    Mezzo secolo dopo il suo ingresso in parrocchia, uno dei suoi parrocchiani, Guillaume Villier, rammentava ancora lo stupore e la convinzione della gente di Ars: “Eravamo affascinati da un comportamento così poco comune, e ci dicevamo fin da allora: ‘Il nostro curato non è come gli altri; lui è un santo…’”.

    In fondo, è questo ciò che il curato d’Ars ci raccomanda, ed è proprio questo lo scopo del nostro libro: rinnovare con fermo proposito – senza “ma”, e senza “se” – la risoluzione di essere anche noi, come lui, dei ministri santi.

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