Mons. Dal Covolo, Meditazioni parte finale

NONA MEDITAZIONE

San Giovanni Bosco (1815-1888)

Don Bosco fu ordinato sacerdote a Torino il 5 giugno 1841.

A questa vocazione – destinata al servizio pastorale dei giovani più poveri – don Bosco fu un chiamato nel senso forte, biblico del termine: “La fede di essere strumento del Signore per una missione singolarissima fu in lui profonda e salda. Ciò fondava in lui l’atteggiamento religioso caratteristico del ‘servo biblico’, del profeta che non può in alcun modo sottrarsi ai voleri divini” (Pietro Stella).

Così noi possiamo confrontarci con la storia della vocazione di don Bosco, un po’ nello stesso modo in cui possiamo confrontarci con le grandi storie di vocazione della Bibbia. 

    E’ quello che cercheremo di fare qui, adesso. Prima andremo a don Bosco e alla sua storia, poi torneremo al nostro oggi, confrontando quella storia con la nostra storia di vocazione – ciascuno di noi con la sua, personale e irripetibile storia di vocazione –.

1. La storia della vocazione di don Bosco

Come in ogni storia di vocazione (della Bibbia, ma non solo), anche nella storia di don Bosco è possibile rintracciare almeno tre momenti tipici: la chiamata-elezione, la risposta, la missione.

1.1.  La chiamata

Dobbiamo riconoscere che lo Spirito Santo ha suscitato, con l’intervento materno di Maria, san Giovanni Bosco. Qui l’accento, come si conviene al primo atto di ogni storia di vocazione, va sull’iniziativa gratuita di Dio. Il sogno dei nove anni, che ricorderemo tra poco, lo mostra nel modo più chiaro.

1.2. La risposta

La qualità della risposta di don Bosco è ben sintetizzata da alcune, poche parole, che esprimono il suo incondizionato alla chiamata. Don Bosco diceva: “Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”. Di qui traspaiono l’amore profondo e paterno di don Bosco ai giovani, e la sua totale dedizione alla chiamata del Signore.

1,3, La missione

Don Bosco, e tutti coloro che in qualunque modo ne condividono la chiamata, sono mandati per essere nella Chiesa segni e portatori dell’amore di Dio ai giovani, specialmente ai più poveri. 

Mi limito a richiamare due episodi di questa splendida storia, che è la vita di don Bosco.

Un episodio si trova all’inizio, l’altro alla fine della sua vita. Da essi scaturisce un appello irresistibile a seguire questo Padre e Maestro sulla via della santità.

“A nove anni” – ecco il primo episodio, raccontato da don Bosco stesso nelle sue Memorie dell’Oratorio – “a nove anni ho fatto un sogno. Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una gran quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Il Signore mi chiamò per nome, e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi…”.

A partire da questa visione si snoda – come il nastro di un film – tutta la storia della vocazione di don Bosco.

Non sto qui a raccontarla di nuovo. Richiamo solo una celebre scena, molto felice, di uno dei film su don Bosco. Si vede Giovannino, che per divertire i suoi piccoli compagni dei Becchi, fa il funambolo, e cammina in equilibrio sulla corda, a piedi scalzi, da un albero all’altro. E una voce fuori campo, la voce di don Bosco adulto, commenta: “Nella mia vita ho sempre dovuto camminare così: guardando avanti e in alto. Diversamente sarei caduto giù…”.

Don Bosco sa che, a partire da quel primo sogno, la sua vita è tutta guidata dall’alto; tutto scorre come se fosse stato pensato prima, per un misterioso disegno d’amore.

E’ proprio questa consapevolezza intensissima, convalidata dai numerosi segni che don Bosco esperimenta lungo il suo cammino, la causa del lungo pianto, il 15 maggio 1887, pochi mesi prima della morte, nella Basilica del Sacro Cuore a Roma. 

E’ il secondo episodio che voglio ricordare. Don Bosco ha appena portato a termine la costruzione della chiesa, tra infinite difficoltà e fatiche, per obbedire a un preciso invito del santo Padre, Leone XIII. Sostenuto da don Rua e da don Viglietti, il fedele segretario, scende nella chiesa per celebrare la Messa all’altare di Maria Ausiliatrice. La folla si accalca attorno all’altare. Ed ecco, appena cominciata la Messa, don Bosco scoppia a piangere. Un pianto lungo, irrefrenabile, che accompagna quasi tutta la Messa. Don Rua e don Viglietti sono impressionati. Tra la gente c’è un silenzio teso, che quasi si tocca. Alla fine della Messa, don Bosco dev’essere portato di peso in sacrestia. Don Viglietti gli sussurra: “Don Bosco, ma perché?…”. E lui: «Avevo davanti agli occhi, viva, la scena del mio primo sogno, a nove anni».

In quel lontano sogno, gli era stato detto: “A suo tempo, tutto comprenderai”. Ora, guardando indietro nella vita, gli pareva proprio di comprendere tutto.

2. A confronto con la nostra storia di vocazione

Ritorniamo ora da don Bosco a noi: la sua storia di vocazione è anche un po’ la nostra storia di vocazione, se lo vogliamo Chi condivide la passione educativa di don Bosco è impegnato – in qualche modo – a rimodellare in se stesso la sua esperienza di vita.

 Confrontiamoci dunque con ciascuno dei tre momenti della storia di don Bosco.

a) Con riferimento al primo tratto della sua storia di vocazione, la gratuita chiamata-elezione da parte di Dio, diremo che, come don Bosco, ognuno di noi è chiamato ad essere uomo del gratuito, in docile ascolto dello Spirito, in costante unione con Dio, proprio per poter dare spazio in massimo grado alla chiamata del Signore. Questo significa che ciascuno di noi è chiamato a maturare e a sviluppare un’autentica dimensione contemplativa, proprio come fece don Bosco.

b) Quanto al secondo atto, la risposta, diciamo che, come don Bosco, ognuno di noi è chiamato a maturare una risposta generosa e coerente. Il suo esempio è per noi un invito alla fermezza del nostro impegno, all’unificazione dei nostri pensieri, delle nostre forze, di tutta la nostra persona in una medesima direzione. Anche noi puntiamo alla qualità di una risposta, che sveli un accordo (nel caso si don Bosco era uno splendido accordo!) di natura e di grazia.

c) Come don Bosco, compiamo anche noi la nostra missione, ben sapendo che la piena fecondità dell’apostolato passa attraverso la croce.

3. Per il discernimento spirituale

a) La chiamata

Riconosco l’assoluto primato di Dio e della sua grazia nella mia storia di vocazione? Interpreto il mio impegno morale come risposta a un amore che mi precede, e che garantisce (solo che io lo voglia) la mia risposta? So accettare l’imprevisto di Dio, il suo modo di fare nella mia vita? So riconoscerlo nelle modalità in cui egli si svela, senza imporgli le mie? Per dilatare la mia disponibilità, curo con diligenza e amore la dimensione contemplativa della vita?

b) La risposta

Posso rispondere come Maria, come i discepoli, come don Bosco, oppure come il giovane ricco. Posso seguire Gesù, e lasciare tutto, oppure seguire i miei egoismi e lasciare Gesù. Di fronte a questo dilemma, qual è la mia risposta reale, quella di ogni giorno? Qual è l’angolo buio della mia vita, nel quale la mia risposta al Signore è meno generosa? Che cosa devo ancora lasciare, per seguire veramente Gesù?

c) La missione

Ogni chiamata, ogni risposta sono per una missione. Sono intimamente persuaso che la missione che mi è affidata non è un parto della mia fantasia o un gioco del caso? Sono attento ai segni del Signore? Riconosco e coltivo come già operante in me quel messaggio di salvezza che sono mandato ad annunciare e a testimoniare? Per essere fedele alla missione, devo entrare nella logica della grazia: allora il mio impegno di fedeltà non sarà più quello dell’impiegato o del burocrate, ma quello del missionario dell’amore e della grazia di Dio. Sento la missione come peso da portare, o come grazia ricevuta? Curo l’atteggiamento fondamentale, cioè – ancora una volta – la dimensione contemplativa, per interpretare la missione ricevuta come una grazia?

***

    Le storie di vocazione sacerdotale che abbiamo percorso – mentre aiutano a rispondere all’interrogativo fondamentale sul ministro ordinato e sulla sua identità – rappresentano anche una formidabile consegna per ogni sacerdote: che sulla medesima strada di santità si trovino a camminare. Insieme ai loro fedeli, i diaconi, i presbiteri e i vescovi del terzo millennio, ciascuno con la sua irripetibile storia di vocazione, ma sempre con tutta la fede e la passione di cui sono capaci.

E allora, volgendosi indietro a guardare il tempo che scorre, allora anche a loro sembrerà di comprendere tutto: che tutto è grazia, perché il dono e il mistero di Dio non deludono mai.

    Desidero concludere questa seconda parte dei nostri Esercizi con la preghiera che lo stesso Giovanni Paolo II ha consegnato alla Chiesa, al termine della sua Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis

Preghiamo dunque così:

“Maria, Madre di Gesù Cristo e Madre dei sacerdoti,

ricevi questo titolo, che noi tributiamo a te,

per celebrare la tua maternità

e contemplare presso di te il Sacerdozio

del tuo Figlio e dei tuoi figli,

Santa Genitrice di Dio…

Madre di Gesù Cristo,

eri con lui agli inizi della sua vita e della sua missione…

Accogli fin dall’inizio i chiamati,

proteggi la loro crescita,

accompagna nella vita e nel ministero

i tuoi figli,

Madre dei Sacerdoti. 

Amen!” (Pdv, n. 82).

ULTIMA MEDITAZIONE

Lectio di Atti 6, 1-6

Possiamo condensare le conclusioni di questi Esercizi Spirituali – “i ricordi”, come dicevamo un tempo – in una breve lectio, che qui propongo. Leggeremo dal sesto capitolo degli Atti degli Apostoli il racconto dell’ordinazione dei primi sette diákonoi

E’ vero che questo termine non compare nel nostro racconto: ma, al di là della terminologia adottata, non si può negare che “i sette” svolgessero nella primitiva comunità di Gerusalemme un ufficio simile a quello dei diaconi.

Di fatto, essi vennero istituiti per il “servizio delle mense”, cioè per il servizio della carità.

    C’è forse un “rischio” – ci domandiamo – per chi, come ogni ministro ordinato, esercita il servizio della carità?

Potrebbe sembrare questa una domanda fuori luogo, quando ci si ricorda, insieme con l’apostolo Paolo, che, di tutte le cose, più grande è la carità. 

Eppure, vogliamo conservare sullo sfondo questo interrogativo un po’ inquietante, mentre procediamo nella lectio del nostro brano.

1. Lettura

“In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormoravano contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove.

Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: ‘Non è giusto che noi lasciamo da parte la Parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione (martyrouménous), pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola’. 

Piacque questa proposta a tutto il gruppo. e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosélito di Antiochia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani” (Atti 6,1-6).

2. Meditazione

Per meditare il brano propongo la sottolineatura di alcune espressioni più importanti.

2.1. La prima parola da sottolineare è gongysmós, un sostantivo onomatopeico che indica il brontolio della comunità, un po’ come fa una pentola di fagioli in ebollizione.

In effetti, l’occasione immediata dell’intervento dei Dodici è una lamentela, un mormorìo (quelli di lingua greca mormoravano); cioè una situazione di disagio, che crea malumore e scontento nella comunità. 

Anziché difendersi o respingere le accuse, i Dodici riconoscono le loro responsabilità, e fanno una coraggiosa scelta pastorale, che comporta la riorganizzazione delle strutture comunitarie.

Già qui possiamo trovare una buona lezione per noi. 

Di solito, quando ci sentiamo attaccati, noi ci mettiamo subito sulla difensiva, e ragioniamo più o meno così: “Ma che cosa vogliono ancora, questi! Io sto dando la mia vita per loro…”.

I Dodici, invece, rinunciano a difendersi, e reagiscono in un modo pastoralmente efficace.

Riconoscono che uno non può fare tutto. Comprendono che, ai fini di una buona crescita della comunità, occorre distinguere i ministeri. 

Così loro – i Dodici – si dedicheranno alla preghiera e al servizio della Parola; altre persone eserciteranno invece servizi più pratici, come quello delle mense.

Di qui l’ordinazione dei sette, e l’inizio nella Chiesa di un coordinamento di ministeri e di servizi diversi.

    2.2. Trascorriamo adesso alla seconda sottolineatura, che riguarda l’identikit del diacono, cioè di colui che viene ordinato per servire nella Chiesa.

    Stando al racconto degli Atti, i sette devono avere alcune caratteristiche precise.

Anzitutto saranno uomini “di buona reputazione” – o meglio, traduciamo noi, “di provata testimonianza” –. In effetti, il participio usato da Luca si collega con il termine “martire”. Potremmo dire che chi viene ordinato per servire nella Chiesa deve comunque essere un “martire”, nel senso che la testimonianza della sua diaconia non deve mai arretrare, a costo, se necessario, della vita stessa. 

Non a caso il primo dei sette – Stefano – è anche il primo martire.

In secondo luogo, il diacono deve essere “pieno di Spirito e di sapienza”. Si tratta appunto della sophía, la sapienza che viene da Dio: è la “sapienza dello Spirito”, che chiede profonda intimità con il Signore. 

Di fatto, Stefano viene definito come un “uomo pieno di fede e di Spirito Santo”.

Dunque, il servizio della carità – il cosiddetto “servizio delle mense”, per il quale i sette vengono ordinati – presuppone il primato della dimensione contemplativa nella loro vita. 

E’ un primato che risulta a chiare lettere dal fatto che i Dodici, al vertice della gerarchia ecclesiastica, si riservano appunto la preghiera e il servizio della Parola. Ma questa scelta non segna tanto una spartizione esclusiva, bensì un primato

Leggiamo infatti che Pietro continua a visitare e a guarire i malati (9,32-34), mentre Filippo, uno dei sette, converte il funzionario della regina di Etiopia esercitando il servizio della Parola (8,27-39).

Non si tratta, dunque, di una spartizione esclusiva. 

Piuttosto, il “servizio delle mense” – cioè il servizio della carità – viene chiaramente subordinato alla preghiera e al “servizio della Parola”.

In definitiva, i Dodici hanno compreso che, senza la preghiera e la diaconia della Parola, non ci può essere un servizio autentico della carità. L’impegno del discernimento per realizzare vere opere di carità deve essere sostenuto dall’intimità con il Signore, dalla confidenza e dall’amicizia profonda con lui. 

Il missionario della carità, scriveva Giovanni Paolo II, è anzitutto “un testimone dell’esperienza di Dio”, è “un contemplativo in azione”. Egli “trova risposta ai problemi nella luce della Parola di Dio e nella preghiera”. “Se non è un contemplativo, non può annunziare Cristo in modo credibile” (Redemptoris missio, n. 91).

2.3. Infine – ed è questa l’ultima sottolineatura – i sette vengono fatti avanzare davanti agli apostoli. E’ il rito dell’ordinazione. Questi uomini, consapevoli della loro identità e della loro missione, fanno un passo in avanti, come se dicessero: “Sono presente, eccomi!”.

    Allora gli apostoli, dopo aver pregato, impongono loro le mani e li consacrano per la missione.

3. Per la preghiera e per la vita

    Passiamo ora all’altro movimento della lectio divina – cioè alla preghiera e alla conversione della vita –, riproponendoci quell’interrogativo, che abbiamo lasciato sullo sfondo all’inizio di questa lectio.

Quale può essere il rischio di chi, come il ministro ordinato, serve nella Chiesa?

E’ il rischio di Marta, di cui parla Luca nel capitolo decimo del suo Vangelo. 

E’ il rischio di chi si lascia prendere dai “molti servizi” (pollè diakonía, scrive Luca; ovvero frequens ministerium: 10,40), fino al punto di smarrire la giusta scala dei valori.

Ma l’episodio narrato da Luca stabilisce anche l’antidoto, il farmaco salutare all’agitazione di Marta, e suggerisce a chi serve nella carità il metodo per superare il “rischio del servizio”. Questo farmaco è l’ascolto della Parola, definito come “la parte migliore”. 

C’è dunque un primato da salvare a tutti costi, il primato dell’ascolto, pena il non senso e la degenerazione dell’agire.

Nella vita e nell’esperienza di chi serve nella carità rimane pur sempre l’impegno di realizzare una sintesi matura tra “il servizio delle mense”, da una parte, e “la preghiera e il servizio della Parola”, dall’altra; cioè tra le mille esigenze della carità e la contemplazione di Dio.

A volte dobbiamo vivere, di necessità, nella molteplicità dei servizi, e ne usciamo un po’ tesi e stanchi.

Ma ciò che più conta è avere il giusto senso dei valori; è capire che il servizio fondamentale è quello della preghiera e della Parola, e che il punto di partenza di ogni diaconia autentica della carità è il cuore di Gesù Cristo, ricco di misericordia: e che con questo cuore dobbiamo metterci in sintonia, ascoltando docilmente la Parola del Maestro, per conformare il nostro cuore al suo.

    Alla fine di tutto, la grazia che il Signore suggerisce di chiedere ai suoi ministri  (proprio come suggerì una notte a Salomone: “Chiedimi ciò che vuoi…”), è quella di continuare a servire il santo popolo di Dio – secondo le modalità e gli impegni  caratteristici della vocazione di ciascuno – con fede e amore, con premura e umiltà, senza mai cedere alle tentazioni del ripiegamento su noi stessi, dell’accaparramento e della strumentalizzazione, e appunto per questo rispettando il primato della contemplazione, della preghiera e dell’ascolto della Parola.

L’esperienza ci dice che le necessità del “servizio della mensa” sono molteplici e pressanti.

Ma proprio per questo motivo sarà sempre importante una valutazione ordinata, una “sapienza del cuore”, che nasce dalla contemplazione e dalla sintonia profonda con il cuore di Gesù, origine e fonte di ogni autentica diaconia della carità.

    Cari fratelli,

    siamo chiamati a servire e ad animare la Chiesa, la Sposa amata, con il battito del cuore del buon Pastore! Alziamo le nostre mani – come l’apostolo Tommaso – fino al cuore di Gesù, e da questa contemplazione ricaviamo tutta l’efficacia della nostra missione pastorale!

Infine, alla Vergine del fiat affidiamo la nostra vocazione di ministri ordinati. 

Lo facciamo con la preghiera che il Papa Benedetto XVI ha recitato il 6 dicembre 2005, rivolgendosi alla Madonna di Loreto:

“Santa Maria, Madre di Dio”,

egli disse quel giorno,

“ti salutiamo nella tua casa.

Qui l’arcangelo Gabriele ti ha annunciato

che dovevi diventare la Madre del Redentore…

Aiutaci a dire di ‘sì’ alla volontà di Dio,

anche quando non la comprendiamo.

Aiutaci a fidarci della Sua bontà, anche nell’ora del buio.

Aiutaci a diventare umili,

come lo era il tuo Figlio, e come lo eri tu…

Tu, Madre buona,

soccorrici nella vita, e nell’ora della nostra morte.

Amen!”.

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