Mons. Dal Covolo, omelia Lunedì Santo

L’UNZIONE DI BETANIA

Omelia per il lunedì santo

Cari Amici,

come abbiamo appena ascoltato, Giovanni nel suo Vangelo racconta che un giorno Maria di Betania unse i piedi di Gesù con un profumo prezioso: talmente prezioso che – a parere di Giuda, l’«economo» del collegio apostolico –, poteva costare trecento monete d’argento. 

Con questo gesto clamoroso, a Betania Maria rigetta gli idoli dell’efficienza e del profitto per «sprecare» il profumo della lode e del servizio.

1. Meditazione

Due semplici spunti possono aiutare la nostra meditazione. Il primo inquadra la scena nel complesso del racconto giovanneo e la collega saldamente con la morte e la risurrezione di Gesù; il secondo sottolinea un’antitesi particolarmente ricca di significati simbolici.

a. Sei giorni prima della Pasqua, mentre Gesù siede a tavola, Maria cosparge di nardo profumato i piedi di Gesù. Questo episodio dell’unzione di Betania va allineato nell’ordine dei segni giovannei, quei segni che annunciano e prefigurano la morte e la resurrezione di Gesù. L’unzione di Betania, infatti, ne anticipa il mesto rito della sepoltura.

b. La «casa piena di profumo» suona un po’ come un’antitesi alla «borsa piena» di Giuda: la logica di Cristo poggia sulla legge del gratuito e dello spreco apparente; è la logica del chicco di frumento che è consegnato alla terra, e spera e attende la vita. Non ha nulla da spartire con la calcolata efficienza del mondo. 

E’ ribadito il valore assoluto della lode che esprime l’amore a Dio, il senso della contemplazione e della preghiera (nardo purissimo), pur dinanzi agli enormi problemi del mondo (violenza e guerre, povertà, ingiustizia, sofferenze…). Questi problemi non vanno affrontati con la logica di Giuda (la borsa piena), ma con la logica del Vangelo (spreca l’unguento, sciogli la lode).

2. Per la preghiera e per la vita

Ma non intendiamo limitarci alla semplice meditazione del brano evangelico. Ciascuno di noi è invitato a celebrare nella preghiera e nella vita il mistero della morte e della risurrezione di Gesù. Siamo invitati a celebrare anche noi l’unzione di Betania, identificandoci – in qualche modo – in Maria di Betania; e in quel gesto, benedetto dal Signore, anche noi potremo curvarci a lavare e a profumare i piedi del Maestro.

E subito torna alla memoria un altro episodio della passione. E’ ancora Giovanni che racconta nel capitolo 13 del suo Vangelo la lavanda dei piedi, e riferisce la perentoria conclusione di Gesù: «Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi». E Luca aggiunge, nel medesimo contesto dell’ultima cena, un’altra parola di Gesù, che segna il capovolgimento delle gerarchie mondane: «Chi è più grande? Colui che sta seduto a mensa o colui che serve? Ebbene, io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Luca 22,27). 

«Chi è più grande?», avevano chiesto una volta i discepoli (Matteo 18,1). Più grande nel regno dei cieli, continua a ripetere Gesù, è colui che si fa piccolo: precisamente colui che serve (o diakonón: Luca 22,27).

Da allora, onorare la persona di Gesù, come ha fatto Maria di Betania, significa anche onorare la persona del fratello; e viceversa, onorare la persona del fratello sofferente significa onorare la persona di Gesù. 

E’ l’esperienza di un illustre diacono della Chiesa, san Francesco d’Assisi. Si legge nella Leggenda minore di san Bonaventura: «Amante di tutta l’umiltà, Francesco si dedicò ad onorare i lebbrosi, e si assoggettava alle persone miserabili e ripudiate col giogo del servizio. Egli si diede come schiavo (servo, “diacono”) ad ossequiare i lebbrosi con tanta umiltà di cuore, che lavava loro i piedi… Perfino, per eccesso di amore inaudito, si precipitava a baciare le loro piaghe incancrenite» (Lezione 8).

E’ l’esperienza di Sabatino, un ragazzo morto a vent’anni curando i «barboni» della Stazione Centrale di Milano. Poco prima di morire, confidò che la prima volta – proprio un venerdì santo – in cui s’era messo a lavare i piedi purulenti di un barbone, aveva provato la mistica certezza di stringere tra le mani i piedi feriti di Gesù. «E’ stata un’esperienza unica», confessava, «e rimarrà per sempre indimenticabile».

In altri termini, identificarci in Maria che unge i piedi di Gesù, celebrare questo gesto nell’oggi della preghiera e della vita, significa rifare nostro – per la grazia di Dio – il progetto della croce e del servizio supremo.

Perché non basta meditare sul racconto della morte e della risurrezione del Signore: se vogliamo risorgere, dobbiamo vivere la croce, portarla scolpita nel nostro cuore come un incessante richiamo. 

Tornano alla mente le parole di san Carlo Borromeo, scosso dai singhiozzi dinanzi alla croce di Gesù: «Veramente felici coloro che hanno impresso nel cuore Cristo crocifisso, e non svanisce mai!… O felici coloro che in ogni istante custodiscono la memoria di questa passione che dà la vita! Oso dire che diventa a loro, in qualche modo, impossibile peccare» (Omelia 45).

Ma che cosa significa per me portare «impresso nel cuore» il segno della croce? Che cosa significa questo nel concreto della mia vita?

Qui la celebrazione della Parola nella preghiera e nella vita impone il discernimento e la conversione, e invita a passare attraverso i «segni sacramentali» della Chiesa, specialmente la confessione e la comunione. 

Ciascuno di noi ci pensi, nel concreto esercizio della sua missione – in famiglia, in parrocchia, nel lavoro e nella scuola, nella società… – e ne tragga le sue conseguenze (i suoi buoni propositi di bene) per questa Pasqua 2023. 

Tanti, tanti auguri a tutti voi, cari Amici, e a tutti i vostri Cari!

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