Mauro Antimi, ospedali e umanità

Ma perché vi è bisogno di umanizzazione negli ospedali?

Si parla di bisogno quando qualcosa manca. In un luogo di sofferenza, come un ospedale, il rapporto umano, che sarebbe di per sé indispensabile, viene a mancare o ad essere scarso per la progressiva perdita del senso caritatevole degli atti sanitari. A favore poi di un’organizzazione prevalentemente cadenzata sul numero delle prestazioni da effettuare, da modalità restrittive del tempo da utilizzare e da una, seppur non costante, necessità di concludere un’azione per passare presto ad un’altra. Si “umanizza” una presenza o si gestisce un numero? Il sacrosanto diritto di civiltà che è la salvaguardia della salute, specie se è a rischio di essere perduta (la criticità dell’accesso in ospedale), è sterile e alienante se la medicina non recupera una dimensione “dal volto umano”.

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La solitudine del malato e quella del medico di fronte all’altrui e alla propria fine

Quando si teme che la propria salute si stia perdendo, la paura e l’incertezza colorano di un’atmosfera cupa l’esistenza e se non vi è accoglienza, o ve ne è poca e superficiale, ci si sente soli, vuoti e amari. Se la situazione poi evolve in negativo, la vita residua si svolge quasi su un piano parallelo e lontano rispetto a quello della vita ordinaria. Se vi è lucidità e consapevolezza, è una condizione di una tristezza infinita; se il male ottunde la coscienza di sé “la Natura è Madre e non Matrigna”. La carità è il braccio attivo della fede e nella reciprocità del sentire umano il destino ultimo non fa distinzione tra chi assiste e chi è assistito. E non è un privilegio sapere “come” si finisce: se vi è lucidità la triste consapevolezza porta all’abbandono già prima del buio. Ma per chi crede, la luce della fede illumina il passaggio verso la Speranza.

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Un mestiere, una professione, una fratellanza. Il cocktail valoriale del lavoro “sanitario”

“Più cuore in quelle mani fratello!” diceva san Camillo de Lellis a chi poteva fare oltre e meglio l’assistenza ai malati. Quel vocativo fratello è lo specchio di chi oggi è sano e domani potrebbe ammalarsi: basta guardarsi, e capire. Non la banalizzazione di gesti ripetitivi, non l’orgoglio del ruolo e dell’immagine di sé, ma la comprensione della fragilità umana e la grandezza di senso quando si acquisisce la nobiltà del dovere. Verso gli “altri” e verso di noi. È il privilegio della fatica, della preoccupazione, della solitudine del pensiero dubbioso, ma anche la forza interiore che non ti fa demordere e traduce la speranza in un atto d’amore e di sereno coraggio umano.

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Curare, cura sé stesso

Curare significa prendersi cura: pensare a…, accudire e, soprattutto, non abbandonare. Curare è darsi e non rinunciare, ma anche comprendere, rispettare, stimolare, attendere ed accelerare. Curare è avere nei propri gli occhi di chi sta male e ti chiede aiuto, spesso in silenzio. Curare è esserci, dentro, profondamente: la superficialità non è ammessa, l’ignoranza è proibita. Curare è prudenza, la madre del coraggio e dell’attesa saggia. Curare è una scuola continua in cui gli “Altri”, siamo noi. E senza ironie banali, “Medice, cura te ipsum!”.

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